martedì 30 settembre 2014

34 La peste del 1348

LA PESTE DEL 1348

Per tutto il Basso Medioevo la popolazione europea continuò ad aumentare, perciò ci fu una sempre maggiore richiesta di nuove terre da coltivare e vennero abbattute molte foreste. Alla fine del Duecento però in Europa occidentale le terre più fertili erano ormai tutte coltivate e gli uomini incominciarono a coltivare anche le terre marginali, meno produttive perché dal suolo meno fertile.
Poiché la produzione non era più sufficiente per una popolazione in crescita, la denutrizione (cioè l’alimentazione insufficiente) divenne comune e a partire dal trecento nelle annate di cattivo raccolto, come il periodo tra il 1315 e il 1320, incominciarono ad esserci carestie.

La distribuzione del cibo a Firenze in tempo di carestia (miniatura del Maestro del Biadaiolo, XIV secolo)

Il XIV secolo fu un periodo di crisi anche per il commercio: in Europa si verificò una mancanza di metalli preziosi, per cui divenne insufficiente la quantità di denaro in circolazione; inoltre gli scambi con l’Oriente divennero più difficili, perché l’impero dei Mongoli si divise e intere regioni furono devastate dalle guerre.
La crisi del commercio e l’impoverimento di una parte della popolazione scatenarono una crisi nell’artigianato, perché diminuì la richiesta di prodotti artigianali: ad esempio la produzione di tessuti a Firenze passò da circa 100.000 pezze a 70-80.000 nel 1336-1338.
La crisi colpì anche il mondo dell’alta finanza, in particolare a Firenze, città in cui avevano sede banche che erano divenute delle vere e proprie multinazionali: dotate di capitali enormi, in grado di prestare denaro ai re di tutta Europa (in cambio di privilegi che permettevano di arricchirsi ulteriormente), molte banche fiorentine e di altre città italiane cominciarono a fallire una dopo l’altra, dato che i sovrani non erano in grado di restituire le somme di denaro che avevano ricevuto in prestito.
Questa recessione (cioè crisi) economica ebbe effetti su tutte le attività lavorative e provocò un impoverimento della popolazione e un generale peggioramento delle condizioni di vita.

Il pagamento dei salariati del Comune di Siena in una biccherna, opera della bottega di Sano di Pietro (XV secolo)

A metà del Trecento in Asia si verificò un’epidemia di peste: questa malattia viene trasmessa all’uomo dalle pulci, che vivono sugli uomini e sui topi e che con il loro morso iniettano nel sangue un batterio (Yersinia pestis, dal nome di Alexandre Yersin, che lo scoprì nel 1894), un piccolissimo organismo invisibile a occhio nudo. La peste aveva già colpito nell’Età antica numerose volte e anche all’inizio dell’Alto Medioevo vi erano state delle epidemie (a Roma nel 590), che poi però erano cessate, anche perché i traffici si erano molto ridotti e quindi i contatti tra regioni lontane erano scarsi. Nel XIV secolo, invece, le grandi navi che attraversavano i mari erano un ambiente di vita adatto per i ratti, come pure i caravanserragli, i luoghi di sosta per le carovane di commercianti e per i pellegrini che si recavano in Asia.
In queste condizioni la malattia poté trasmettersi dall’Asia fino all’Europa: dalla Cina (1333) giunse alla Persia e alle coste del Mar Nero (1347), poi in Sicilia, a Messina, e da qui si propagò in tutta l’Europa occidentale, dove imperversò dal 1348 al 1351. Viene comunemente chiamata Peste Nera ed era insieme peste polmonare e peste bubbonica: i bubboni erano dei gonfiori che si manifestavano in varie parti del corpo. La maggior parte degli infettati moriva nel giro di tre giorni.

Ammalati di peste bubbonica (illustrazione del 1411 dalla Bibbia di Toggenburg)

In Europa i frequenti spostamenti dei mercanti e degli eserciti portarono a una rapida diffusione della malattia da una regione all’altra. Poiché nessuno ne conosceva le cause, furono escogitati rimedi praticamente inutili, se non addirittura dannosi: misture, cataplasmi, aromi, amuleti contenenti arsenico, stagno o mercurio, veleno di vipere, rospi o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, impiastri contenenti grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli d’uovo e olio di scorpione, e così via.
Inoltre, poiché non si sapeva in che modo la peste si trasmetteva, non era possibile prendere le precauzioni necessarie per evitare il contagio e a volte si finiva con il peggiorare la situazione. Ad esempio, quando la malattia si diffondeva in una zona, molti scappavano per sfuggire alla morte; alcuni però erano già stati contagiati e, spostandosi, diffondevano l’epidemia.

Vittime della Peste Nera negli Annales di Gilles le Muisit (XIV secolo)

Il contagio fu favorito anche dalle condizioni igieniche scadenti: i parassiti del corpo umano, come le pulci e i pidocchi, erano molto diffusi, perché in Europa vi era una scarsa abitudine all’igiene personale. La popolazione europea era in parte denutrita ed era completamente priva degli anticorpi, cioè delle difese naturali contro la peste, poiché non vi erano state epidemie da molti secoli. Proprio la scomparsa della peste da molti secoli fece sì che i medici fossero completamente inesperti su come curare il morbo. Perciò, ovunque arrivasse, la peste faceva strage: complessivamente, tra il 1348 e il 1352 l’epidemia provocò in Europa la morte di 30 milioni di individui su circa 100 milioni di abitanti, spopolando intere regioni e cancellando moltissimi villaggi, abbandonati dai pochi superstiti.

Malati di peste bubbonica in una miniatura del XV secolo

Dopo la grande epidemia del 1348 la peste rimase endemica in Europa, cioè continuò a ripresentarsi un po’ ovunque e con cadenza pressoché decennale, fino all’epidemia che colpì Marsiglia (in Francia) nel 1720-21.
Le varie pestilenze che colpirono l’Europa dalla metà del Trecento in poi, introdussero nella storia un concetto che a noi oggi sembra naturale: quello che, in caso di epidemie, spetta all’autorità pubblica che governa una città o uno Stato il compito di occuparsi delle misure preventive e di gestire le emergenze. L’Italia fu, allora, la regione europea che per prima si occupò di gestire l’epidemia di peste, con una serie di ordinanze e regolamenti che furono per tre secoli un punto di riferimento per il resto dell’Europa.
Già nel 1348 a Venezia, Firenze e Pistoia si decretò la profondità delle sepolture, affinché l’aria non venisse corrotta da cadaveri seppelliti frettolosamente. Si vietò qualunque contatto tra una città e l’altra; venne proibita l’introduzione di stoffe provenienti da una zona contagiata (in caso contrario esse sarebbero state bruciate sulla pubblica piazza); si presero misure sul modo di macellare e di vendere le carni. Questi provvedimenti, però, non evitarono il contagio.

Incisione ottocentesca di Luigi Sabatelli, raffigurante la peste del 1348 a Firenze; tra i personaggi raffigurati c’è Giovanni Boccaccio (a sinistra) che descrisse la peste nelle prime pagine del Decameron

La prima misura che si rivelò in parte efficace fu quella di imporre una quarantena, cioè un periodo di isolamento di quaranta giorni, a chi arrivava da un’altra città, per verificare che non fosse malato (Ragusa, 1377).
Inoltre i malati di peste vennero isolati in edifici chiamati lazzaretti, in origine riservati ai lebbrosi: Venezia fu la prima città (nel 1423) a dotarsi di un lazzaretto permanente, seguita in pochi anni da Padova, Vicenza, Brescia e Treviso.

Illustrazione raffigurante il lazzaretto vecchio di Venezia, costruito nel 1423

Nel XV secolo in numerose città furono creati degli uffici di sanità, o degli organismi che dovevano occuparsi delle emergenze legate all’epidemia di peste: a Firenze nel 1448, a Mantova nel 1463, a Venezia nel 1478 se ne assunse l’incarico l’ente per il monopolio del sale e nel 1486 un apposito Magistrato della Sanità.
Le calamità del Trecento e in particolare la peste non provocarono soltanto una forte diminuzione della popolazione: essi portarono a mutamenti nella mentalità e nel modo di vedere la vita e la morte.
Prima del Trecento le rappresentazioni della morte (ad esempio nella pittura e nella scultura) non erano molto frequenti, perché per i cristiani la morte non è la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova vita. Nel Trecento la morte divenne invece una realtà molto più frequente e temuta: la peste poteva uccidere in un solo giorno (peste polmonare, attraverso contagio diretto) e le epidemie provocavano vere e proprie stragi. Ogni città, ogni famiglia era continuamente minacciata dalla morte. L’idea della morte divenne perciò molto più presente e familiare e anche le rappresentazioni della morte diventarono più frequenti. Esse presero soprattutto due forme: la danza macabra e il trionfo della morte.

Particolare della Danza macabra affrescata nell’abbazia di Chaise-Dieu (Francia) nel XV secolo

La danza macabra è una scena di danza, in cui la morte, rappresentata da un ballerino vestito da scheletro, guida uomini e donne di ogni classe sociale: scheletri e persone si alternano, ricordando allo spettatore che la morte viene per tutti.
Il trionfo della morte rappresenta la morte, sempre come uno scheletro, armata della falce o di un arco, con cui toglie la vita agli uomini: essa avanza tra la gente, che spesso non si accorge neppure del suo arrivo e muore prima di avere il tempo di pentirsi dei propri peccati.

Trionfo della Morte, affresco del 1485 di Giacomo Borlone de Buschis nell’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo)

Molti pensavano che le carestie e le epidemie fossero una punizione inviata da Dio per i peccati umani: gli uomini si erano allontanati dall’insegnamento di Cristo e Dio li colpiva provocandone la morte. Ovviamente è una teoria ridicola e priva di qualunque fondamento scientifico, ma essa non è del tutto scomparsa dalla mentalità umana: negli anni Ottanta del XX secolo, ad esempio, quando si scoprì l’esistenza di una nuova malattia, l’AIDS, che si trasmette attraverso i rapporti sessuali, alcuni fanatici religiosi la proposero nuovamente come spiegazione di un morbo inizialmente sconosciuto alla comunità medica.
Nel XIV secolo si pensò di organizzare grandi processioni, a cui partecipava l’intera massa dei fedeli: le reliquie più importanti venivano portate lungo le strade cittadine, mentre la gente pregava e invocava la misericordia divina. Di fatto le processioni non solo non potevano fermare la diffusione della peste, ma spesso peggioravano la situazione, in quanto favorivano il contagio tra la moltitudine di fedeli.
Si formarono nuovamente gruppi di flagellanti, che si frustavano nelle vie e nelle piazze delle città, per espiare i peccati propri e altrui e invocare il perdono di Dio.

Una processione di flagellanti in una miniatura dalle Cronache di Aegidius Li Muisis (1349)

I flagellanti e altri gruppi accusarono gli ebrei di essere responsabili della peste. Essi pensavano che gli ebrei con i loro peccati attirassero la vendetta di Dio su tutti gli uomini e che solo sterminando tutti gli ebrei o forzandoli a convertirsi, sarebbe stato possibile fermare l’epidemia.
Anche i lebbrosi furono spesso considerati responsabili delle pestilenze ed essi, come pure molti ebrei, vennero accusati di avvelenare l’acqua e di complottare per uccidere i cristiani. Già dopo le prime grandi carestie all’inizio del secolo erano scoppiati tumulti contro i lebbrosi e gli ebrei: ad esempio nel 1321, in Francia, essi erano stati accusati di aver organizzato un grande complotto per impadronirsi del potere in tutti gli Stati cristiani. In seguito a questo immaginario complotto molti ebrei e lebbrosi vennero uccisi dalla folla o giustiziati per ordine del re. I lebbrosi superstiti furono obbligati a farsi ricoverare nei lebbrosari, da cui non potevano più allontanarsi; il loro numero andò comunque diminuendo per tutto il Trecento, per motivi a noi sconosciuti, perciò i lebbrosari si svuotarono e furono trasformati in lazzaretti.

Ebrei mandati al rogo durante una pestilenza

L’epidemia di peste favorì la diffusione del culto di alcuni santi: in particolare uomini e donne si rivolgevano a san Sebastiano, per invocarne la protezione contro la peste (martirizzato dai romani a colpi di frecce, il santo sarebbe sopravvissuto al supplizio, ma avendone il corpo tutto ricoperto di pustole; queste richiamavano allora alla mente le piaghe della peste). Nel Quattrocento venne molto venerato san Rocco, vissuto nel XIV secolo: secondo la leggenda egli si sarebbe ammalato di peste e sarebbe stato guarito da un angelo. Altri santi a cui ci si rivolgeva furono san Lazzaro, sant’Adriano, sant’Antonio eremita e i santi Cosma e Damiano.

San Rocco visita gli appestati, particolare del dipinto di Jacopo Bassano (1560-1580)

Incominciò, così, a diffondersi l’immagine dell’angelo protettore della città: si pensava che ogni città fosse sotto la protezione di un angelo, a cui i fedeli si rivolgevano per pregarlo di allontanare l’epidemia e ogni altra calamità.
Nello stesso periodo si diffuse anche l’idea che ogni uomo avesse un suo angelo protettore, chiamato angelo custode, che lo proteggeva in vita e lo assisteva al momento della morte. Dopo la morte l’angelo custode e il diavolo si disputavano l’anima del morto.

L’angelo custode, dipinto del Guercino (XVII secolo)





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