LA PESTE DEL 1348
Per tutto il Basso Medioevo la popolazione
europea continuò ad aumentare, perciò ci fu una sempre maggiore richiesta di
nuove terre da coltivare e vennero abbattute molte foreste. Alla fine del
Duecento però in Europa occidentale le terre più fertili erano ormai tutte
coltivate e gli uomini incominciarono a coltivare anche le terre marginali,
meno produttive perché dal suolo meno fertile.
Poiché la produzione non era più
sufficiente per una popolazione in crescita, la denutrizione (cioè
l’alimentazione insufficiente) divenne comune e a partire dal trecento nelle
annate di cattivo raccolto, come il periodo tra il 1315 e il 1320,
incominciarono ad esserci carestie.
La
distribuzione del cibo a Firenze in tempo di carestia (miniatura del Maestro
del Biadaiolo, XIV secolo)
Il XIV secolo fu un periodo di crisi anche
per il commercio: in Europa si verificò una mancanza di metalli preziosi, per
cui divenne insufficiente la quantità di denaro in circolazione; inoltre gli
scambi con l’Oriente divennero più difficili, perché l’impero dei Mongoli si
divise e intere regioni furono devastate dalle guerre.
La crisi del commercio e l’impoverimento
di una parte della popolazione scatenarono una crisi nell’artigianato, perché
diminuì la richiesta di prodotti artigianali: ad esempio la produzione di
tessuti a Firenze passò da circa 100.000 pezze a 70-80.000 nel 1336-1338.
La crisi colpì anche il mondo dell’alta
finanza, in particolare a Firenze, città in cui avevano sede banche che erano
divenute delle vere e proprie multinazionali: dotate di capitali enormi, in
grado di prestare denaro ai re di tutta Europa (in cambio di privilegi che
permettevano di arricchirsi ulteriormente), molte banche fiorentine e di altre
città italiane cominciarono a fallire una dopo l’altra, dato che i sovrani non
erano in grado di restituire le somme di denaro che avevano ricevuto in
prestito.
Questa recessione (cioè crisi) economica
ebbe effetti su tutte le attività lavorative e provocò un impoverimento della
popolazione e un generale peggioramento delle condizioni di vita.
Il
pagamento dei salariati del Comune di Siena in una biccherna, opera della
bottega di Sano di Pietro (XV secolo)
A metà del Trecento in Asia si verificò
un’epidemia di peste: questa malattia viene trasmessa all’uomo dalle pulci, che
vivono sugli uomini e sui topi e che con il loro morso iniettano nel sangue un
batterio (Yersinia pestis, dal nome di Alexandre Yersin, che lo scoprì nel 1894),
un piccolissimo organismo invisibile a occhio nudo. La peste aveva già colpito
nell’Età antica numerose volte e anche all’inizio dell’Alto Medioevo vi erano
state delle epidemie (a Roma nel 590), che poi però erano cessate, anche perché
i traffici si erano molto ridotti e quindi i contatti tra regioni lontane erano
scarsi. Nel XIV secolo, invece, le grandi navi che attraversavano i mari erano
un ambiente di vita adatto per i ratti, come pure i caravanserragli, i luoghi
di sosta per le carovane di commercianti e per i pellegrini che si recavano in
Asia.
In queste condizioni la malattia poté
trasmettersi dall’Asia fino all’Europa: dalla Cina (1333) giunse alla Persia e
alle coste del Mar Nero (1347), poi in Sicilia, a Messina, e da qui si propagò
in tutta l’Europa occidentale, dove imperversò dal 1348 al 1351. Viene
comunemente chiamata Peste Nera ed era insieme peste polmonare e peste
bubbonica: i bubboni erano dei gonfiori che si manifestavano in varie parti del
corpo. La maggior parte degli infettati moriva nel giro di tre giorni.
Ammalati
di peste bubbonica (illustrazione del 1411 dalla Bibbia di Toggenburg)
In Europa i frequenti spostamenti dei
mercanti e degli eserciti portarono a una rapida diffusione della malattia da
una regione all’altra. Poiché nessuno ne conosceva le cause, furono escogitati
rimedi praticamente inutili, se non addirittura dannosi: misture, cataplasmi,
aromi, amuleti contenenti arsenico, stagno o mercurio, veleno di vipere, rospi
o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, impiastri
contenenti grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli
d’uovo e olio di scorpione, e così via.
Inoltre, poiché non si sapeva in che modo
la peste si trasmetteva, non era possibile prendere le precauzioni necessarie
per evitare il contagio e a volte si finiva con il peggiorare la situazione. Ad
esempio, quando la malattia si diffondeva in una zona, molti scappavano per
sfuggire alla morte; alcuni però erano già stati contagiati e, spostandosi,
diffondevano l’epidemia.
Vittime
della Peste Nera negli Annales di Gilles le Muisit (XIV secolo)
Il contagio fu favorito anche dalle
condizioni igieniche scadenti: i parassiti del corpo umano, come le pulci e i
pidocchi, erano molto diffusi, perché in Europa vi era una scarsa abitudine
all’igiene personale. La popolazione europea era in parte denutrita ed era completamente
priva degli anticorpi, cioè delle difese naturali contro la peste, poiché non
vi erano state epidemie da molti secoli. Proprio la scomparsa della peste da
molti secoli fece sì che i medici fossero completamente inesperti su come
curare il morbo. Perciò, ovunque arrivasse, la peste faceva strage:
complessivamente, tra il 1348 e il 1352 l’epidemia provocò in Europa la morte
di 30 milioni di individui su circa 100 milioni di abitanti, spopolando intere
regioni e cancellando moltissimi villaggi, abbandonati dai pochi superstiti.
Malati
di peste bubbonica in una miniatura del XV secolo
Dopo la grande epidemia del 1348 la peste
rimase endemica in Europa, cioè continuò a ripresentarsi un po’ ovunque e con
cadenza pressoché decennale, fino all’epidemia che colpì Marsiglia (in Francia)
nel 1720-21.
Le varie pestilenze che colpirono l’Europa
dalla metà del Trecento in poi, introdussero nella storia un concetto che a noi
oggi sembra naturale: quello che, in caso di epidemie, spetta all’autorità
pubblica che governa una città o uno Stato il compito di occuparsi delle misure
preventive e di gestire le emergenze. L’Italia fu, allora, la regione europea
che per prima si occupò di gestire l’epidemia di peste, con una serie di
ordinanze e regolamenti che furono per tre secoli un punto di riferimento per
il resto dell’Europa.
Già nel 1348 a Venezia, Firenze e Pistoia
si decretò la profondità delle sepolture, affinché l’aria non venisse corrotta
da cadaveri seppelliti frettolosamente. Si vietò qualunque contatto tra una
città e l’altra; venne proibita l’introduzione di stoffe provenienti da una
zona contagiata (in caso contrario esse sarebbero state bruciate sulla pubblica
piazza); si presero misure sul modo di macellare e di vendere le carni. Questi
provvedimenti, però, non evitarono il contagio.
Incisione
ottocentesca di Luigi Sabatelli, raffigurante la peste del 1348 a Firenze; tra
i personaggi raffigurati c’è Giovanni Boccaccio (a sinistra) che descrisse la
peste nelle prime pagine del Decameron
La prima misura che si rivelò in parte
efficace fu quella di imporre una quarantena, cioè un periodo di isolamento di
quaranta giorni, a chi arrivava da un’altra città, per verificare che non fosse
malato (Ragusa, 1377).
Inoltre i malati di peste vennero isolati
in edifici chiamati lazzaretti, in origine riservati ai lebbrosi: Venezia fu la
prima città (nel 1423) a dotarsi di un lazzaretto permanente, seguita in pochi
anni da Padova, Vicenza, Brescia e Treviso.
Illustrazione
raffigurante il lazzaretto vecchio di Venezia, costruito nel 1423
Nel XV secolo in numerose città furono
creati degli uffici di sanità, o degli organismi che dovevano occuparsi delle
emergenze legate all’epidemia di peste: a Firenze nel 1448, a Mantova nel 1463,
a Venezia nel 1478 se ne assunse l’incarico l’ente per il monopolio del sale e
nel 1486 un apposito Magistrato della Sanità.
Le calamità del Trecento e in particolare
la peste non provocarono soltanto una forte diminuzione della popolazione: essi
portarono a mutamenti nella mentalità e nel modo di vedere la vita e la morte.
Prima del Trecento le rappresentazioni
della morte (ad esempio nella pittura e nella scultura) non erano molto
frequenti, perché per i cristiani la morte non è la fine di tutto, ma l’inizio
di una nuova vita. Nel Trecento la morte divenne invece una realtà molto più
frequente e temuta: la peste poteva uccidere in un solo giorno (peste
polmonare, attraverso contagio diretto) e le epidemie provocavano vere e
proprie stragi. Ogni città, ogni famiglia era continuamente minacciata dalla
morte. L’idea della morte divenne perciò molto più presente e familiare e anche
le rappresentazioni della morte diventarono più frequenti. Esse presero
soprattutto due forme: la danza macabra e il trionfo della morte.
Particolare della Danza macabra
affrescata nell’abbazia di Chaise-Dieu (Francia) nel XV secolo
La danza macabra è una scena di danza, in
cui la morte, rappresentata da un ballerino vestito da scheletro, guida uomini
e donne di ogni classe sociale: scheletri e persone si alternano, ricordando
allo spettatore che la morte viene per tutti.
Il trionfo della morte rappresenta la
morte, sempre come uno scheletro, armata della falce o di un arco, con cui
toglie la vita agli uomini: essa avanza tra la gente, che spesso non si accorge
neppure del suo arrivo e muore prima di avere il tempo di pentirsi dei propri
peccati.
Trionfo
della Morte, affresco del 1485 di Giacomo Borlone de Buschis nell’Oratorio dei
Disciplini di Clusone (Bergamo)
Molti pensavano che le carestie e le
epidemie fossero una punizione inviata da Dio per i peccati umani: gli uomini
si erano allontanati dall’insegnamento di Cristo e Dio li colpiva provocandone
la morte. Ovviamente è una teoria ridicola e priva di qualunque fondamento
scientifico, ma essa non è del tutto scomparsa dalla mentalità umana: negli
anni Ottanta del XX secolo, ad esempio, quando si scoprì l’esistenza di una
nuova malattia, l’AIDS, che si trasmette attraverso i rapporti sessuali, alcuni
fanatici religiosi la proposero nuovamente come spiegazione di un morbo
inizialmente sconosciuto alla comunità medica.
Nel XIV secolo si pensò di organizzare
grandi processioni, a cui partecipava l’intera massa dei fedeli: le reliquie
più importanti venivano portate lungo le strade cittadine, mentre la gente
pregava e invocava la misericordia divina. Di fatto le processioni non solo non
potevano fermare la diffusione della peste, ma spesso peggioravano la
situazione, in quanto favorivano il contagio tra la moltitudine di fedeli.
Si formarono nuovamente gruppi di
flagellanti, che si frustavano nelle vie e nelle piazze delle città, per
espiare i peccati propri e altrui e invocare il perdono di Dio.
Una
processione di flagellanti in una miniatura dalle Cronache di Aegidius Li
Muisis (1349)
I flagellanti e altri gruppi accusarono
gli ebrei di essere responsabili della peste. Essi pensavano che gli ebrei con
i loro peccati attirassero la vendetta di Dio su tutti gli uomini e che solo
sterminando tutti gli ebrei o forzandoli a convertirsi, sarebbe stato possibile
fermare l’epidemia.
Anche i lebbrosi furono spesso considerati
responsabili delle pestilenze ed essi, come pure molti ebrei, vennero accusati
di avvelenare l’acqua e di complottare per uccidere i cristiani. Già dopo le
prime grandi carestie all’inizio del secolo erano scoppiati tumulti contro i
lebbrosi e gli ebrei: ad esempio nel 1321, in Francia, essi erano stati
accusati di aver organizzato un grande complotto per impadronirsi del potere in
tutti gli Stati cristiani. In seguito a questo immaginario complotto molti
ebrei e lebbrosi vennero uccisi dalla folla o giustiziati per ordine del re. I
lebbrosi superstiti furono obbligati a farsi ricoverare nei lebbrosari, da cui
non potevano più allontanarsi; il loro numero andò comunque diminuendo per
tutto il Trecento, per motivi a noi sconosciuti, perciò i lebbrosari si
svuotarono e furono trasformati in lazzaretti.
Ebrei
mandati al rogo durante una pestilenza
L’epidemia di peste favorì la diffusione
del culto di alcuni santi: in particolare uomini e donne si rivolgevano a san
Sebastiano, per invocarne la protezione contro la peste (martirizzato dai
romani a colpi di frecce, il santo sarebbe sopravvissuto al supplizio, ma
avendone il corpo tutto ricoperto di pustole; queste richiamavano allora alla
mente le piaghe della peste). Nel Quattrocento venne molto venerato san Rocco,
vissuto nel XIV secolo: secondo la leggenda egli si sarebbe ammalato di peste e
sarebbe stato guarito da un angelo. Altri santi a cui ci si rivolgeva furono san
Lazzaro, sant’Adriano, sant’Antonio eremita e i santi Cosma e Damiano.
San Rocco visita
gli appestati, particolare del dipinto di
Jacopo Bassano (1560-1580)
Incominciò, così, a diffondersi l’immagine
dell’angelo protettore della città: si pensava che ogni città fosse sotto la
protezione di un angelo, a cui i fedeli si rivolgevano per pregarlo di
allontanare l’epidemia e ogni altra calamità.
Nello stesso periodo si diffuse anche
l’idea che ogni uomo avesse un suo angelo protettore, chiamato angelo custode,
che lo proteggeva in vita e lo assisteva al momento della morte. Dopo la morte
l’angelo custode e il diavolo si disputavano l’anima del morto.
L’angelo
custode, dipinto del Guercino (XVII secolo)
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