Sport nel Medioevo: il tennis

IL TENNIS

Nell’Ars Amatoria il poeta latino Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.) consiglia alle donne che vogliano avvicinare esponenti dell’altro sesso (o farsi avvicinare da essi) un gioco che descrive in questo modo: «Le palle rimbalzano su una larga racchetta e nessuna palla deve essere mossa, se non quella che ribatterai». Il breve accenno fa pensare che un gioco simile al tennis fosse praticato già dai Romani.
Le invasioni barbariche provocarono tali sconvolgimenti che le fonti letterarie dell’epoca non descrivono alcun gioco con la palla praticato nei primi secoli del Medioevo; questo non significa che tali giochi non fossero più praticati, ma solo che chi scriveva aveva bisogno di occuparsi di contenuti di altro tipo, considerati di maggiore importanza. Gli scrittori arabi, invece, non ebbero di tali preoccupazioni e sono più generosi nel raccontarci qualcosa dei giochi con la palla che si facevano in quel periodo.
Sappiamo così che già nel V secolo in Persia e nel mondo arabo era diffuso il tchigan o ciogan. Si trattava di un gioco in cui i partecipanti, a cavallo, impugnavano una corta mazza con un’ampia curvatura finale, rifinita con corde di budello essiccate e intrecciate a mo’ di rete per colpire una piccola palla in cuoio. Viene da pensare che si tratti proprio di un gioco da praticare con delle racchette, antenate di quelle moderne. Anche l’etimologia sembra suggerire un legame forte tra lo sport praticato nell’antica Persia e quello attuale: il termine «racchetta», infatti, potrebbe derivare dall’arabo rahat, che ha il doppio significato di «svago» e di «palmo della mano».
Terra di conquista dei Mori, la Spagna conobbe nel XIII secolo la diffusione di un gioco con palla ribattuta da mazze e bastoni: la pelota. Ce ne parla un romanzo epico-cavalleresco della prima metà del Duecento, il Libro de Apolonio, che narra le gesta del nobile Apollonio, il quale, tra le sue mille avventure, viene anche sfidato alla pelota dal re Arquitrastes, in una partita che lo vede distinguersi per velocità e bravura tra gli altri giocatori.
Il romanzo accenna appena al gioco, ma le miniature dell’epoca ci forniscono maggiori dettagli, soprattutto sulla varietà degli strumenti utilizzati – mazze, bastoni, canne – e sui diversi ruoli dei giocatori: sul terreno potevano esserci più squadre o due soli contendenti, impegnati in uno scontro singolo, mentre la regola base della pelota era che la palla andava colpita con la mazza e agguantata con le mani in fase di ricezione; in alcuni casi, opposto al battitore, vi era il giocatore che gli offriva la palla a mano libera.

Miniatura francese del 1473 con due giocatori di pelota e due di scacchi

La pelota ebbe un successo enorme in epoca medievale: non era uno sport elitario e lo praticavano tutte le classi sociali, tanto che il re spagnolo Alfonso X il Saggio intervenne più volte per cercare di regolarne la pratica, per esempio intimando ai chierici non solo di non praticarlo – pena un periodo di clausura di tre anni, secondo un codice redatto nel 1265 -, ma perfino di astenersi dal guardare le partite e dal rivolgere la parola ai giocatori.
Come si spiegano tali divieti? Dalle fonti normative e letterarie si scopre che il gioco della pelota era molto partecipato e non privo di eccessi: una sentenza del 1255, emessa dal già citato re Alfonso, condannava come assassino – senza riconoscere attenuanti – un uomo che aveva ucciso un passante con una palla mal lanciata in una via molto affollata, dove era proibito giocare.
Incidenti e divieti non poterono però arginare la diffusione della pelota, che, con poche varianti, è sopravvissuta fino ai giorni nostri e che nel 1900 (sia pure in quell’unica occasione) ha avuto l’onore di essere innalzata a disciplina olimpica.

Miniatura di scuola spagnola raffigurante il gioco della pelota, da un manoscritto del XIII secolo compilato sotto la direzione del re Alfonso X il Saggio

Dall’altra parte dei Pirenei, nei monasteri di Francia e Italia, già dal XII secolo si giocava alla pallacorda, o alla paume, in francese: un gioco di rimbalzi con la palla, colpita a mano aperta, da cui deriva il nome francese (che significa appunto palmo della mano). Si poteva praticare da soli, ad esempio giocando contro i muri di un chiostro o addirittura in chiesa, oppure contro uno o più avversari. Era il passatempo di preti, monaci, novizi e, salendo la gerarchia ecclesiastica, di abati e vescovi: serviva a tenersi in esercizio e a svagarsi, quando lo spirito non avesse più potuto innalzarsi in ulteriori preghiere.
In linea generale le regole dei monasteri non si opponevano alla paume, ma vigilavano sulla buona condotta dei giocatori: l’esercizio fisico era infatti ben accetto, purché non fosse praticato in promiscuità con i laici, né con un abbigliamento non confacente alla dignità ecclesiastica, ossia in camicia o addirittura in canottiera, quando si era accaldati dal gioco.

Racchetta per il gioco della paume nella versione “corta” (XVIII secolo)

La paume – giocata lunga, ossia in campo aperto con una corda tesa al centro, o corta, cioè al chiuso, in un campo limitato – presto uscì dagli ambienti ecclesiastici: cominciò ad essere giocata nelle strade e nelle piazze da persone del popolo, ma anche nei palazzi della nobiltà, sia dai signori, sia dalle dame; tutti si dilettavano a far rimbalzare le palle, chiamate éteuf e realizzate in crine o pelo di cane rivestite in cuoio.
Che la pallacorda non fosse un’esclusiva maschile, ce lo testimonia la storia di una tennista ante litteram, di nome Margot la Hennuyère. Nata alla fine del trecento a Hainaut, nell’attuale Belgio, arrivò a Parigi non ancora trentenne, intorno al 1427. Di lei Le Journal d’un bourgeois de Paris – opera di un anonimo parigino redatta nella prima metà del XV secolo – così scriveva: «Margot […] giocava alla pallacorda meglio di qualunque uomo si sia mai visto, con un dritto e un rovescio [cioè con il davanti e con il dorso della mano] molto potente e un gioco molto malizioso, molto abile, proprio come avrebbe potuto fare un uomo, ma pochi erano gli uomini che potevano batterla, solo i più potenti».

Giocatrice di jeu de paume del XIV secolo in una ricostruzione di Paul Mercuri per un’opera pubblicata a Parigi nel 1861

Alla nobiltà questo gioco piaceva talmente, che cercò di farne una prerogativa propria ed esclusiva: lunga è la lista dei sovrani francesi che lanciarono anatemi contro la paume, pur praticandola in prima persona o lasciando che la propria corte vi si dedicasse. Nel 1290 il volubile Filippo il Bello condannò la paume insieme a tutti gli svaghi da perdigiorno e ne consentì la pratica, senza eccessi, solo la domenica. Tale imposizione, però, valeva solo per il volgo: lui, il re, fu ben contento di acquisire nel 1306 il castello di Nesle, in Piccardia, dotato di un bellissimo campo da gioco!
In realtà le proibizioni non dovettero avere grande efficacia, se nel 1292 a Parigi operavano ben 13 fabbricanti di palle, a fronte di solo 8 librai.
Esasperato dall’esito incerto della Guerra dei Cent’anni, anche Carlo V di Francia emanò nell’aprile del 1369 un’ordinanza con la quale proibiva la pratica della pallacorda e di tutti gli altri passatempi che «non hanno alcuna utilità nell’esercitarsi nel mestiere delle armi». E sul fronte opposto anche l’Inghilterra bandì il gioco, la cui pratica distoglieva gli arcieri dai loro esercizi, affievolendone l’abilità e la precisione.

Illustrazione raffigurante il gioco della paume

Ordinanze e divieti vennero ovviamente ignorati, almeno in parte, se il 22 giugno 1397 il preposito [un particolare magistrato che operava al di fuori dell’ordinaria amministrazione] di Parigi dovette proibire nuovamente la pratica del jeu de paume nei giorni feriali con questa motivazione: «Poiché [per giocare] molti artigiani e altri del popolo minuto abbandonano il proprio dovere e la propria famiglia durante i giorni di lavoro, cosa che pregiudica gravemente l’ordine pubblico».
Resta il fatto che il gioco della pallacorda ebbe addirittura qualche esito tragico, persino tra personalità di alto livello. Una delle prime vittime fu lo stesso re Luigi X di Francia, l’Attaccabrighe: il 5 giugno 1316 fu stroncato da un malore, mentre partecipava a una partita di jeu de paume a Vincennes, dopo aver bevuto d’un fiato del vino ghiacciato, pur essendo molto accaldato.
Quasi due secoli dopo un altro sovrano francese, Carlo VIII, morì a soli 27 anni (il 7 aprile 1498) battendo violentemente la testa contro l’architrave in pietra di una porta, mentre correva ad assistere a una gara di jeu de paume che si teneva in una sala del castello di Amboise: l’urto causò un’emorragia cerebrale fatale ed anche l’estinzione della dinastia dei Valois, dato che Carlo VIII – abile giocatore e patito spettatore della pallacorda – non aveva eredi.

Frontespizio dell’opera Le Jeu Royal De La Paume, pubblicata a Parigi nel 1632

Le prime testimonianze della diffusione della paume in Gran Bretagna risalgono alla prima metà del Duecento: tra la ricca dote che Maria di Coucy portò in dono ad Alessandro II, re di Scozia, vi erano anche gli attrezzi necessari per il gioco. Strumenti che andarono rapidamente evolvendosi: già nel trecento non si colpiva più la palla a mani nude, ma i palmi erano protetti da guanti e corregge in cuoio e comparvero le prime, rudimentali racchette, come testimonia anche il poeta inglese Geoffrey Chaucer in un suo scritto del 1380.
Lo stesso poeta scrisse tra il 1383 e il 1385 il poema Troilus and Criseyde, in cui Pandaro, uno dei protagonisti, è un tennista abile sia nel dritto sia nel rovescio. E per restare in ambito letterario, Gargantua e Pantagruele, gli insaziabili golosi nati nella prima metà del Cinquecento dalla penna di François Rabelais, non resistevano al richiamo del tennis e vi giocavano «per farsi venire appetito». Neppure i personaggi di William Shakespeare furono immuni dal fascino di questo sport: non solo il celebre drammaturgo inglese menziona il tennis non meno di cinque volte nelle sue opere, ma sembra che egli stesso amasse praticarlo in prima persona. Nell’Enrico V si parla di un tesoro, che si rivela essere «un barile di palle da tennis» e numerosi termini tecnici legati al gioco compaiono qua e là in senso figurato, ma rivelatori della competenza del bardo per il tennis.
Il gioco della paume ebbe la sua consacrazione in Inghilterra, grazie a un illustre prigioniero di guerra francese: Carlo, duca di Orléans. Costui venne catturato dagli Inglesi il 25 ottobre 1415, durante la disfatta subita dai francesi ad Azincourt e, costretto a passare lunghi anni nelle carceri del castello di Wingfield, per mantenere forti il corpo e lo spirito praticò ogni giorno questo sport, che in Inghilterra cominciarono a chiamare tennis, anzi, real tennis, perché giocato dai reali e dai nobili. Il termine tennis deriva dalla storpiatura dell’espressione francese usata dal giocatore al momento della battuta: «Tenez!», ossia «Prendete!».

Miniatura raffigurante Carlo di Valois-Orléans durante la prigionia intento a scrivere versi (tardo secolo XV)

Tornato in libertà, dopo oltre vent’anni di prigionia, Carlo nutriva ancora una grossa passione per la paume, nonostante il suo spirito fosse spezzato dalla malinconia data dalla sensazione del tempo perduto; scrisse infatti questi versi: «Tanto ho giocato con l’età / alla paume che eccomi qua / a quarantacinque anni».
Tra il XV e il XVI secolo il tennis impazzava su entrambe le sponde della Manica, anche se siamo ancora lontani dallo sport che conosciamo oggi. Per esempio, a quei tempi i giocatori potevano affrontarsi in una stessa partita con attrezzi differenti. Il 31 gennaio del 1506, alla presenza del re inglese Enrico VIII, si sfidarono Filippo, principe di Castiglia, e il marchese di Dorset: il primo utilizzava una racchetta, mentre il nobile inglese preferì indossare il tradizionale guanto. In molti ambienti la racchetta fu considerata uno strumento per deboli e per donne, che sminuiva il valore del giocatore, come mette in evidenza un dialogo di Erasmo da Rotterdam del 1522. Al primo giocatore che propone l’uso della racchetta «per sudare di meno» e fare meno fatica, il secondo risponde: «No, lasciamo la rete ai pescatori. Usare la mano è più corretto». La corte inglese e quella francese, comunque, sembravano fare a gara nello sfoggiare abilità e passione per questa pratica sportiva, una passione incarnata in particolare da Enrico VIII d’Inghilterra e Francesco I di Francia.
Anche a detta degli avversari e non solo secondo gli adoranti letterati di corte, il sovrano francese era «il più forte giocatore dei suoi tempi» di paume couvert, ossia praticata al chiuso, come nei due campi che lo stesso Francesco fece realizzare nel palazzo del Louvre, mentre incaricò gli architetti di installare nel castello di Fontainebleau un ampio campo en plein air, così da potersi tenere in allenamento tutto l’anno. Per garantirsi gli attrezzi migliori, il re mise sotto la propria ala protettrice la corporazione dei fabbricanti di racchette (i maîtres paumiers), che godevano di privilegi speciali, tutelati da un editto promulgato nel 1537. Far parte di tale corporazione era un grande onore, tanto che per accedervi si doveva superare un severo esame.
Neppure in viaggio Francesco I volle rinunciare al piacere della pallacorda e arrivò a far costruire un campo da gioco sul vascello reale La Grande Françoise, un gigante dei mari di 100 metri di lunghezza e oltre 2.000 tonnellate di stazza, che in quanto a lusso e comfort aveva poco da invidiare alle moderne navi da crociera. Costruita nel 1520 nei cantieri presso Le Havre, la nave, però, non prese mai il mare aperto: colpa del suo peso eccessivo e dell’impossibilità di manovrarla.

Due disegni ricostruttivi di una possibile Grande Françoise

Enrico VIII, rivale del re di Francia, non poteva certo essergli da meno. Infatti volle anche lui un campo da tennis sul Great Henry, il suo vascello personale, e fece realizzare, sia al coperto sia all’aperto, campi da gioco in vari siti: Richmond, Wycombe, Woodstock, Windsor, Whitehall – considerato all’epoca il più grande della cristianità – e Westminster. In questo modo, ovunque gli affari di stato lo portassero, il sovrano aveva un luogo dove dedicarsi al suo sport preferito.
Capitava spesso, del resto, che politica e tennis si mescolassero. Nel 1522, quando l’imperatore Carlo V visitò Londra, Enrico VIII giocò in doppio con lui 11 game, sfidando il principe d’Orange e il marchese di Brandeburgo, alleati in quella circostanza: la sfida si concluse con un diplomatico pareggio.

Francesco I e Enrico VIII

Sappiamo che Enrico VIII possedeva sette racchette – altrettanti capolavori dei migliori artigiani dell’epoca -  e sembra che tenesse più ad esse che alle sue consorti: vuole infatti la tradizione che il re stesse giocando a tennis all’Hampton Court Palace, quando gli giunse la notizia dell’esecuzione di Anna Bolena, la sua seconda moglie. La quale era stata arrestata il 2 maggio 1536, proprio mentre stava assistendo a una partita di real tennis; e sembra che ella si sia lamentata con le guardie che la scortavano in prigione, sostenendo che, se avessero aspettato la fine della partita, avrebbe sicuramente vinto la scommessa riguardo al vincitore.
Nel tennis dell’epoca non vi era la sola componente sportiva, ma vi rientrava, soprattutto in Inghilterra, anche l’azzardo: giocatori e spettatori scommettevano sull’esito della partita e il complesso sistema di assegnazione dell’handicap allo scopo di rendere la sfida più avvincente, mentre il punteggio seguiva una logica simile all’attuale calcolando i punti in quindici, trenta, quarantacinque e quindi doppio vantaggio per chiudere il game. In molti casi il perdente non usciva dal campo solo appesantito dalla sconfitta, ma anche alleggerito di ingenti somme di denaro.
Dal padre Francesco I, il re francese Enrico II non ereditò soltanto il regno, ma anche la passione per il tennis, che volle a sua volte trasmettere al figlio, il futuro Carlo IX, al quale regalò la sua prima racchetta appena fu in grado di camminare, come testimoniano alcuni ritratti d’epoca.

Carlo IX bambino con una racchetta in mano

Proprio Carlo, nel 1571, sancì la nascita della prima corporazione dei professionisti della pallacorda. Quanto a Enrico II, invece, egli amava il rischio e «di bianco vestito, con farsetto e cappello di paglia, giocava con ardore», preferendo il gioco sotto rete, in presenza della bella moglie, Caterina de’ Medici. Il suo campo preferito era quello di Fontainebleau: a differenza di altre sale dedicate al tennis – nella sola Parigi alcune fonti parlano di oltre 1.800 impianti, ma forse la cifra è esagerata – questa era dotata di un alto soffitto, che permetteva di effettuare pallonetti.

Il principe James duca di York (che diverrà Giacomo II re d’Inghilterra dal 1685 al 1688) come giocatore di tennis

Caterina, comunque, non dovette aspettare di arrivare alla corte francese per godere dello spettacolo del tennis: anche nell’Italia rinascimentale questo sport era assai apprezzato, dal volgo come dai nobili, e le più ricche casate della Penisola vi si dedicavano, spesso accendendo forti rivalità, come quella che contrappose più volte Medici, Sforza ed Estensi. Baldassarre Castiglione non poteva esimere il perfetto cortigiano dall’impugnare la racchetta. Nella sua opera Il Cortegiano, pubblicata nel 1528, leggiamo infatti: «Ancor nobile esercizio e convenientissimo a uom di Corte è il gioco di palla, nel quale molto si vede la disposizione del corpo e la prestezza e discioltura di ogni membro».
A un italiano spetta anche un importante primato nella storia del tennis: fu infatti il lombardo Antonio Scaino da salò, nel 1555, a codificarne per la prima volta le regole nel Trattato del giuoco della palla, redatto mentre era ospite alla corte estense di Ferrara, dove poteva ammirare il duca Alfonso II scendere sul campo da gioco quasi ogni giorno. Nella sua opera Scaino parla diffusamente delle differenti tipologie di palle utilizzate, classifica i diversi terreni, descrive l’eterogeneità di guanti e racchette utilizzate e la varietà delle tecniche e delle strategie di gioco. Meno di cinquant’anni più tardi questa grande varietà fu ridotta a standard ne l’Ordonnance du Royal Jeu de La Paume, pubblicata nel 1599 da un certo Forbet: si tratta del primo regolamento ufficiale stilato per il tennis, un passo ineluttabile e definitivo verso lo sport che tuttora si pratica.

Frontespizio dell’opera di Antonio Scaino



(Testo adattato da un articolo di Roberto Roveda con la collaborazione di Francesca Saporiti, pubblicato sul numero 222 di Medioevo – Un passato da riscoprire, luglio 2015)



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