La società italiana nel XIX secolo

LA SOCIETÀ ITALIANA NEL XIX SECOLO

I NOBILI

Fino al Settecento per tradizione essere nobili significa godere di titoli e privilegi stabiliti per legge, possedere grandi proprietà terriere e ricoprire i gradi più alti della carriera militare. Tra i privilegi della nobiltà vi è quello di governare un territorio, ma con la rivoluzione francese l’aristocrazia perde questo ruolo, che passa allo Stato con le sue leggi e la sua burocrazia.
Come reagiscono i nobili nei vari Stati che compongono l’Italia nell’Ottocento?
Nel nord e in Toscana una parte della nobiltà si modernizza, cercando di investire le proprie ricchezze nei nuovi settori dell’economia; spesso per far questo deve imparentarsi con la borghesia, ma ciò le permette di entrare a far parte della classe sociale che detiene il potere negli Stati moderni.
Nello Stato della Chiesa e nel Regno delle Due Sicilie, invece, ciò accade raramente: la grande maggioranza dei nobili si chiude ad ogni forma di modernizzazione, pur conservando di solito prestigio e ricchezze.
Comunque sia, i nobili formano ancora nel XIX secolo una classe sociale separata dalle altre. Lo si può vedere dalle loro abitazioni: dei grandi palazzi che devono dimostrare il prestigio della casata. I nobili possiedono un palazzo in città, per viverci in autunno e in inverno, e una villa in campagna, dove si trasferiscono alla fine della primavera. In entrambe le dimore vi sono saloni per le feste, sale da pranzo, aree per la servitù, cucine, cantine, stanze per fare il bucato o altri servizi e splendidi giardini. In queste case sontuose vivono non solo i membri della casata, ma anche uno stuolo di domestici: balie, governanti, guardarobiere, camerieri, cuochi, staffieri, giardinieri, eccetera.

Villa Widmann a Mira (Venezia): una tipica villa di campagna della nobiltà veneziana. Fu costruita all’inizio del secolo XVII e abitata da diverse famiglie di nobili

La vita quotidiana dei maschi passa nell’amministrazione del patrimonio mobiliare e immobiliare e nella pratica della propria professione (militare, o commerciale, o altro), mentre il tempo libero è dedicato alla corrispondenza, alla lettura, alla caccia, alle passeggiate a cavallo, alla vita di società e ai propri interessi personali.
Per le femmine molto tempo è impiegato per vestirsi e pettinarsi; poi l’occupazione principale è quella di sorvegliare l’andamento della casa. Le giovani imparano il cucito, il ricamo, la musica, le lingue. Le letture sono solo a carattere religioso e edificante, mentre imparano anche a tenere la corrispondenza con i membri della famiglia che si trovano lontani da casa.

Silvestro Lega, Il canto dello stornello (1867)

Sia per i maschi sia per le femmine sono frequenti le pratiche religiose: preghiere mattino e sera e messa quasi ogni giorno.
Il pranzo viene consumato tardi (tra le 15 e le 17), con una tavola imbandita e ricca di argenteria e suppellettili preziose. Vige un rigido galateo: i figli mangiano con i genitori solo ad una certa età; non possono arrivare a tavola in ritardo, o alzarsi senza il permesso del capofamiglia. Solitamente la mensa dei nobili è ricca e variata: carne, pesce, uova, salami, latticini, pasta, pane bianco, olio e vino. Infatti “essere in carne”, cioè grassi, è segno che si appartiene alla nobiltà, mentre la magrezza significa povertà.
Meno soggetti alle malattie, rispetto al popolo, anche i nobili non hanno però alti concetti di igiene e pulizia: per esempio ci si lava in camera da letto, in catinelle di porcellana, e in modo morigerato, perché si ritiene che fare il bagno sia poco salutare. Il gabinetto consiste in una seggetta con una brocca d’acqua.

Giacomo Favretto, Dopo il bagno (1884): probabilmente la scena è da immaginarsi in una casa borghese (la figura della serva non sarebbe logica in una casa popolare), ma non era tanto dissimile da ciò che si poteva vedere in una casa nobiliare

Anche per i nobili l’aspettativa di vita è bassa; la mortalità infantile è molto frequente e numerose donne muoiono di parto.
Nelle relazioni familiari l’autorità del capofamiglia è indiscussa; costui prende tutte le decisioni, gli si devono obbedienza e rispetto, raramente egli ha gesti d’affetto verso i figli, che gli danno del lei o del voi. Le madri raramente allattano i figli, infatti è molto diffuso l’uso del baliatico. Le figlie vengono educate completamente in casa da un precettore privato; anche i figli maschi vengono educati da un precettore, ma ad una certa età continuano la loro istruzione in collegi religiosi o militari, per poi andare all’università, quasi sempre per conseguirvi una laurea in legge.
La vita sociale avviene tra ricevimenti, balli, battute di caccia, teatri; ma sono soprattutto i salotti privati i luoghi in cui si fanno incontri, si discute, si mostra le proprie capacità.

Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Matilde (1883)

La vita dei nobili, come si è detto, è separata da quella degli altri, ma anche invidiata; lo dimostra il fatto che i borghesi arricchiti vogliono vivere come i nobili e tendono a sposarsi con loro, per acquisire il loro titolo.

A CORTE: I SAVOIA

I Savoia erano la più antica dinastia regnante d' Europa. Essi furono tra i protagonisti del Risorgimento italiano, a partire da Carlo Alberto, re del Regno di Sardegna.
Carlo Alberto aveva una personalità ombrosa: era pessimista, tormentato dall'ansia religiosa e desideroso di raggiungere la perfezione dello spirito a danno del corpo; per questo mangiava poco cibo e insipido, dormiva poco e su una brandina di ferro, portava il cilicio e non aveva alcuno svago.

Carlo Alberto ritorna in Piemonte nel 1814 dopo la spedizione in Spagna, dipinto di Horace Vernet del 1834

Sempre più magro e consunto, impose al figlio (il futuro Vittorio Emanuele II) un'educazione rigida, tutta fatta di studio e preghiera.
Doveva alzarsi alle cinque e mezza del mattino; dopo essersi lavato e vestito, doveva studiare fino alle otto; poi faceva la colazione e subito dopo equitazione, disegno, calligrafia, scherma, ginnastica e ancora studio, messe e preghiere. Vedeva poco i genitori: una breve visita alla madre e un colloquio con il padre due o tre volte a settimana. Ma Vittorio Emanuele era molto diverso dal padre: dimostrò presto scarsa inclinazione allo studio, poco interesse per i libri e per la religione.
Una volta cresciuto, dimostrò di amare i cavalli, le donne, i cibi sostanziosi e il vino: la regina Vittoria lo riteneva strano e rozzo e dall'aspetto selvaggio.
L'unico interesse giovanile che dimostrò a corte fu la partecipazione al ballo delle “tote”, cioè le signorine della nobiltà: queste, quando compivano i 18 anni, facevano il loro ingresso in società con un ballo che durava 12 ore e che serviva alle madri per combinare i matrimoni delle figlie.
La vita del giovane principe si svolse tra cacce e cavalcate, odiati ricevimenti a corte e un matrimonio noioso con una cugina.

Vittorio Emanuele II a caccia in Valle d’Aosta

Partecipò alla Prima guerra d'indipendenza, dove fu lievemente ferito, ma non approvava la guerra all'Austria, si considerava amico degli Asburgo, odiava i milanesi, giudicava l'indipendenza e l'unità dell'Italia un delirio dei rivoluzionari e considerava la concessione dello Statuto Albertino la rovina della monarchia. Ciò nonostante, toccò a lui diventare il primo re del Regno d'Italia nel 1861.
Quando la capitale del nuovo stato divenne Firenze, i torinesi si ribellarono per molti giorni: nei disordini ci furono 50 morti e 104 feriti. Anche per Vittorio Emanuele II lasciare Torino fu un trauma, ma a Firenze si trovò bene: usciva a passeggio da solo e in abiti civili, o andava a cavalcare e a cacciare nella sua riserva.
Quando Roma divenne la capitale del regno, egli se ne allontanava volentieri, perché non gli piaceva. Vittorio Emanuele II morì nel 1878 e gli successe il figlio Umberto I, la cui moglie, Margherita, fu abile nel creare per se stessa un personaggio pubblico che piacesse al popolo: infatti quando visitava le diverse città italiane, si vestiva con i costumi locali; con la gente si comportava semplicemente; faceva opere di beneficenza, accarezzando e baciando bambini e orfani. Si creò così la leggenda di una regina bellissima e di una monarchia amica del popolo.

Il re Umberto I e la moglie Margherita nel 1899

Anche Umberto I voleva creare il mito del sovrano popolare, amante dei suoi sudditi e da essi devotamente ricambiato. Ma era un mito falso, come si vide alla fine del secolo, quando il re fece sparare con i cannoni sulla folla inerme che manifestava a Milano contro il carovita, provocando circa 100 morti e migliaia di feriti.
Il 29 luglio 1900, per vendicare quei morti, l'anarchico Gaetano Bresci uccise Umberto I con tre colpi di revolver.

Il regicidio di Umberto I in una cartolina dell’epoca

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IL CLERO

Nell'800 oltre ai comuni sacerdoti, ai vescovi, e ai cardinali, il clero comprendeva anche eremiti e cappellani (cioè sacerdoti in un oratorio o in un istituto), abati e preti senza cure d'anime (cioè senza una parrocchia).

Cappellano militare nella Spedizione dei Mille

Costoro erano riconoscibili per la barba incolta, la veste poco curata, il bastone da pellegrino e la cassetta per le elemosine; erano però figure destinate nel corso del secolo a scomparire, perché la chiesa avviò una riforma del clero che cambiò di molto le cose. A cominciare dalla formazione teologica, che avveniva sempre più nei seminari capaci di dare a chi voleva fare il prete la giusta preparazione.

Gaetano Chierici, La questua

Nell'800 si sceglieva di diventare sacerdoti per motivi diversi da quelli che avvenivano prima. Infatti se fino al 700 si sceglieva il sacerdozio per strategie della famiglia e per avere i privilegi sociali e economici, nel 800 si sceglieva la carriera ecclesiastica perché si voleva impegnarsi nel fare del bene alla società.
Questo cambiamento nella scelta del sacerdozio fa si che il numero dei sacerdoti si dimezza soprattutto dopo il 1848, anche perché il livello di vita dei parroci era piuttosto modesto, simile a quello dei maestri elementari.
Una figura tipica del “sacerdote impegnato” fu Don Giovanni Bosco che fondò nel 1846 nella periferia di Torino il primo oratorio, di San Francesco di Sales, o oratorio salesiano.
Questi oratori si diffusero rapidamente perché erano rivolti principalmente ai giovani delle classi popolari, ai quali si offriva un luogo controllato di socializzazione, in contrasto alla perdita dei valori tradizionali che stava avvenendo con il diffondersi dell'industrializzazione.

Don Giovanni Bosco

Negli stessi anni agisce Giuseppe Cottolengo che nel 1862 fondò la piccola casa della divina provvidenza che accoglieva i malati poveri respinti dagli ospedali (e più tardi gli handicappati più gravi).
Bisogna dire, però, che la chiesa nell'800 fu liberale solo per un breve periodo (attorno al 1848) e che la sua apertura al sociale (le scuole di Don Bosco e l'ospedale di Cottolengo) contrastava con il nuovo stato italiano, che si riteneva l'unico organismo che doveva occuparsi dei problemi vari della società.
Infatti i rapporti tra il papa e lo stato laico furono difficili, in particolare quando Roma venne conquistata e divenne la capitale del Regno d'Italia mentre al papa venne lasciato solo il Vaticano.
Ma la Roma ecclesiastica nel 1870 era ancora potente, avendo 206 conventi tra maschili e femminili, 350 chiese, 250 oratori, una sessantina di parrocchie e circa 8000 religiosi.

Il papa lava i piedi ai poveri di Roma (incisione del XIX secolo)

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LA BORGHESIA

Nell'Ottocento la borghesia è un gruppo eterogeneo composto da molte figure sociali: medici e avvocati, imprenditori dell'industria che sta nascendo, banchieri, impiegati, commercianti, insegnanti, artigiani e piccoli proprietari terrieri, ma anche grandi industriali e persone che lavorano nel mondo dell'alta finanza.
Questo gruppo sociale così diversificato è portatore di idee che si affermano progressivamente durante il secolo. Nella vita familiare si nota una netta separazione dei ruoli tra maschi e femmine: alla donna spetta l'educazione di figli e la cura della casa e fin da piccola viene educata in modo diverso dai fratelli. La sessualità è regolata da una morale rigida, che punta sull'astinenza e sulla moderazione.
La vita pubblica e sociale è incentrata sull'autocontrollo dei propri sentimenti; infatti la vita pubblica deve essere ben distinta da quella privata e familiare. Ciò si riflette persino nelle abitazioni dei borghesi, le quali hanno due centri simbolici diversi: la camera da letto per la sfera intima e privata e il salotto per quella esteriore e pubblica. Infatti gli spazi familiari hanno un arredamento modesto e disadorno (le camere da letto sono quasi del tutto prive di arredi), mentre il salotto deve mostrare lo status della famiglia, anche quando la sua capacità economica è modesta: deve perciò essere arredato con il divano, i quadri, le stampe, gli orologi da parete, il pianoforte.

Adriano Cecioni, Interno con figura (1867)

Interno di casa borghese del XIX secolo

Nel salotto si svolge la gran parte della vita sociale del borghese, che ama organizzare feste per gli amici e i vicini di casa, che sono anch'essi dei borghesi; infatti alla fine dell'Ottocento gli spazi urbani si differenziano sempre più in quartieri divisi per classe sociale.
Nel salotto le donne possono dimostrare agli altri la loro bravura nella cura della casa e nella preparazione di dolci prelibati; la loro vita è quasi tutta racchiusa tra le pareti domestiche, mentre i maschi possono uscire spesso di casa per andare nei caffè, nei circoli del gioco delle carte, o in locali dove si danno spettacoli di varietà e attrazioni varie.

Giuseppe De Nittis, A teatro (1883): il teatro, in particolare quello d’opera, è un luogo pubblico, che vede da un certo momento in poi una larga partecipazione femminile, sia nobiliare sia borghese

I borghesi si accostano nel corso dell'Ottocento a due diverse attività per il tempo libero, che i nobili conoscevano da secoli e che per le classi lavoratrici rimasero invece sconosciuti fino al tempo del fascismo: la villeggiatura e lo sport.
La villeggiatura estiva si pratica quasi esclusivamente in località di mare, mentre la villeggiatura in montagna si afferma solo alla fine dell'Ottocento.
Le villeggiature al mare hanno inizialmente uno scopo terapeutico per chi soffre di malattie o disturbi curabili con esposizione al sole o all'aria marina. Nascono così le prime colonie marittime per ragazzi e poi le grandi infrastrutture per adulti: stabilimenti balneari, pontili, pensioni, alberghi, ville. A fare la villeggiatura sono soprattutto i borghesi di grandi città come Milano, Roma e Bologna, che possono usufruire di una rete ferroviaria in espansione.
Lo sport per i borghesi è più un gioco che un'attività ginnica. Nell'Italia dopo l'unificazione sono di moda gli sport importati dall'Inghilterra: il tennis, l'equitazione, il cricket, il football. A fine Ottocento si diffondono presso i giovani borghesi (e anche i nobili) la bicicletta e l'automobilismo; alla fine del secolo ci sono in circolazione circa 100.000 biciclette, usate anche dalle donne e simbolo privilegiato di modernità.

Un manifesto ottocentesco illustra le varie possibilità offerte dalla bicicletta alle donne

Le pratiche sportive sono appannaggio esclusivo dei borghesi, tanto è vero che le classi popolari le considerano passatempi immorali; loro preferiscono occuparsi della vita politica, anche perché hanno numerose richieste da fare al nuovo stato che raramente si occupa di loro.

Winslow Homer, La partita a croquet (1866)

IL POPOLO NELLE CAMPAGNE E NELLE CITTÀ

Nell’Ottocento l’Italia era divisa in tanti Stati (solo nel 1861 riuscì a unirsi in un unico Regno), ma, ciò nonostante, se si studiano le condizioni di vita del popolo (cioè la maggioranza degli italiani), si possono notare numerosi elementi comuni alle varie parti d’Italia.
Innanzitutto nel secolo XIX vi fu nel nostro Paese una forte crescita demografica: essa fu dovuta più a un calo della mortalità, che a un aumento delle nascite. Comunque, anche se le epidemie di peste si diradarono, rimasero diffuse malattie come il tifo, la tubercolosi, il gozzo, il cretinismo e la pellagra.
L’Italia era un Paese quasi esclusivamente agricolo da Nord a Sud e ogni carestia aveva ancora effetti molto pesanti nella popolazione, che reagiva ovunque allo stesso modo: facendo scoppiare rivolte, dandosi al vagabondaggio, o rubando ciò che si poteva trovare nelle campagne. Tali fenomeni minacciavano di estendersi anche a borghi e città.

Giovanni Fattori, La raccolta del fieno in Maremma (1867-1870)

La povertà nell’alimentazione del popolo accumunava le diverse parti dell’Italia: il mais era l’alimento fondamentale in Lombardia, dove al mattino si faceva colazione con pane (di granoturco, segale e miglio) bagnato in acqua salata e condito con olio. Pranzo e cena consistevano in polenta di mais condita con olio di semi o con lardo, fagioli o cavoli e un po’ di formaggio.
La carne era praticamente assente dalle tavole dei contadini, tranne a Natale, quando si mangiava un brodo di carne ricavato cuocendo qualche osso di maiale o di vacca.
Anche nelle città i poveri mangiavano come i contadini: la sola differenza è che a Milano il mais era sostituito dal frumento.
A Roma la colazione consisteva in pane, frutta, formaggio e un po’ di carne salata. A pranzo si mangiava minestra con lardo, pane, formaggio e frutta; a cena un po’ di insalata con pane e vino.
A Napoli la borghesia cenava spesso con i maccheroni, che comparivano nella mensa degli artigiani e del popolo solo in occasione di feste; nel resto dell’anno si mangiava frutta e verdura, qualche volta d’estate un po’ di carne ovina, d’inverno un soffritto di carne suina.

Una fabbrica di maccheroni a Napoli (fine ’800-inizi ’900)

La carne bovina costava troppo e il popolo poteva permettersi solo le parti meno pregiate. Lo stesso vale per il pesce, tranne il baccalà e le alici salate, più frequenti.
In montagna il pasto era integrato con le castagne, mentre un po’ dappertutto nel corso del secolo si andò diffondendo la coltivazione e il consumo di patate.
Anche nelle abitazioni le condizioni erano comuni: sia per i contadini, sia per gli artigiani e il popolo delle città le abitazioni erano miserevoli. Le case erano abitate da moltissime persone per stanza, la rete fognaria era inesistente, l’acqua nei pozzi era contaminata da liquami vari, le strade erano strette e non areate, piene di umidità e di sporcizia. Tutto ciò aumentava la possibilità di contagi e malattie, anche in città portuali come Genova o Napoli.

In questo dipinto di Gaetano Chierici (di cui non so né il titolo né la data) si vede con ricchezza di dettagli le condizioni di una casa delle classi meno abbienti

Il lavoro era disagevole non solo in campagna, ma anche in città: qui i lavoratori di imprese tessili e manifatturiere erano sottopagati e sfruttati. Si faceva spesso ricorso al lavoro di donne e bambini, non tutelati e pagati pochissimo. In Lombardia negli anni ’40 vi erano 54.000 bambini tra i 6 e i 14 anni impiegati negli opifici. In Piemonte su 40.000 lavoratori nel campo della seta 36.000 erano donne, la metà delle quali aveva meno di 14 anni.
In generale il lavoro nelle prime industrie italiane si svolgeva in condizioni pessime: in ambienti con poca luce, il che provocava danni alla vista, con scarso ricambio d’aria, con un caldo eccessivo nelle fabbriche di maioliche o con danni agli occhi nelle fabbriche di vetro.
Le condizioni di vita dei contadini e del popolo in città erano, dunque, molto brutte; questo spiega perché la partecipazione al Risorgimento italiano di queste classi sociali sia stata complessivamente quasi inesistente.

Federico Zandomeneghi, I poveri sui gradini del convento d’Aracoeli (1872)

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I BAMBINI E I GIOVANI

Il concetto d’infanzia nacque verso la fine del Settecento e solo nelle classi più alte; prima di allora i bambini non avevano caratteristiche ed esigenze proprie, infatti erano trattati come dei “piccoli adulti”. Così continuarono ad essere trattati presso le classi povere, per le quali un figlio poteva essere un costo aggiuntivo e quindi nascere indesiderato: la diffusa pratica dell’aborto o dell’esposizione (ossia l’abbandono davanti a una chiesa o a un monastero) testimonia la minaccia rappresentata dall’arrivo di un figlio per una famiglia povera, o per una donna non sposata, condannata all’emarginazione. Anche nelle famiglie borghesi la nascita di un bambino era a volte indesiderata.

Illustrazione del 1883, quando i bambini cominciano ad avere nelle classi sociali più ricche una certa considerazione della loro età

Nell’Ottocento era ancora diffuso il baliatico, anche se sempre meno nel corso del secolo nelle famiglie più ricche, mentre era quasi una necessità per le donne impiegate in lavori fuori casa. Appena nati i bambini venivano mandati in campagna da una balia per circa due anni, durante i quali le visite della madre (e ancor più del padre) erano assai scarse; di solito avvenivano solo per controllare che il figlio non fosse trascurato e per pagare la balia.
Dopo il periodo del baliatico i bambini tornavano nelle loro case, dove vedevano i genitori quasi come due sconosciuti.

Tre immagini di balie di fine ’800 o inizio ’900 (nella foto a destra la balia è con la madre)

A questo punto i genitori cominciavano ad occuparsi direttamente del figlio: il ruolo del padre è dominante e indiscutibile. Egli non si perde in rassicurazioni o tenerezze, ma «avvezza alla vita», per esempio con abluzioni con l’acqua fredda, con prove per vincere la paura, o con lunghe passeggiate (magari in montagna) durante le quali al figlio è proibito lamentarsi per la fame, la sete o la stanchezza.
Il padre non fa coccole al bambino, non lo tratta alla pari, non gli permette nemmeno di fare troppe domande, perché ciò intaccherebbe la sua autorità. Anche ridere con il figlio era un segno di debolezza. L’educazione del fanciullo è, quindi, la preparazione alle dure prove dell’età adulta: per esempio alla morte. Del resto in quell’epoca la metà della popolazione moriva sotto i vent’anni e la mortalità infantile era ancora molto frequente. Malattie, morte, tombe e cimiteri popolavano i libri di testo per le scuole elementari di fine Ottocento e i racconti di morti eroiche dovevano preparare all’estremo sacrificio gli animi dei futuri cittadini.

Lezione in una scuola dell’Ottocento

Se la condizione del bambino non è ancora pienamente riconosciuta, l’Ottocento è sicuramente il secolo dei giovani: furono loro, infatti, i responsabili delle diverse rivoluzioni e di tanti fatti storici, come Napoleone Bonaparte, o come il protagonista del romanzo di Ugo Foscolo, Jacopo Ortis, un giovane che combatte (come il suo autore) contro conformismi e convenzioni, affermando a prezzo della vita la propria libertà e l’integrità degli ideali in cui crede: la purezza morale, lo slancio verso qualcosa di elevato ed anche la passione amorosa.
Formati dalle idee di Giuseppe Mazzini e dall’educazione ricevuta a scuola, specialmente il liceo classico con la sua cultura latina e greca, che ispirava sentimenti antitirannici e invitava al martirio (infatti si diceva che «dulce et decorum est pro patria mori», ossia è dolce e dignitoso morire per la patria), i giovani furono determinanti nelle vicende del Risorgimento italiano. Dalle 5 giornate di Milano alla difesa della Repubblica di Venezia, dalla Prima guerra d’indipendenza (in particolare con le battaglie di Curtatone e Montanara, che furono un sacrificio collettivo degli studenti pisani che vi parteciparono e permisero la vittoria dell’esercito piemontese) all’impresa dei Mille di Garibaldi (che però coinvolse anche adulti)). Tutti questi avvenimenti esaltarono il generoso ardimento, il vigore fisico e morale e persino la scapestrata avventatezza dei giovani, grazie ai quali si raggiunse l’unità e l’indipendenza dell’Italia.
Sul finire del secolo, infine, il mito della spontanea e pura partecipazione dei giovani al Risorgimento venne creato dal libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, che divenne un romanzo di formazione per moltissimi ragazzi.

Edmondo De Amicis e la copertina di un’edizione di “Cuore”, il suo romanzo più famoso

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LE DONNE

Nel XIX secolo le donne, secondo i borghesi, dovevano essere virtuose, sensibili, caste, fedeli e disposte al sacrificio. Anche la Chiesa esaltava la loro passività e ubbidienza, la loro capacità di accettare le infedeltà dei loro mariti e il loro ruolo di madri; inoltre dovevano difendere la cristianità dalla modernità.
Così pure il primo codice dell'Italia unitaria, il codice di Pisanelli, riconosceva che l'opinione dell'uomo conta di più di quella della donna: essa infatti è sottomessa alla volontà del marito e non ha alcun diritto, né civile né politico.
Nella realtà l'analfabetismo femminile era assai superiore a quello maschile, e se una donna sapeva leggere, bisognava controllare ciò che leggeva, perché poteva essere pericoloso e portarle a sognare una realtà diversa: per questo erano incoraggiate le letture devozionali e religiose.

Francesco Hayez, Ritratto di Matilde Branca (1851)

Nelle relazioni familiari la sottomissione al maschio era regola comune, fosse egli il padre o il marito. Anche gli spazi domestici erano diversificati, per non parlare di quelli extra-domestici: vi erano luoghi pubblici ai quali le donne non erano ammesse.
Nella sfera dell'intimità c'era una forte passività e soggezione: prive di educazione sessuale e abituate a concepire il sesso come una cosa peccaminosa, le donne subivano la volontà dell'uomo e accettavano i rapporti sessuali come un dovere coniugale allo scopo di procreare.
Quanto alla possibilità di lavorare, vi erano concezioni diverse a seconda del ceto sociale di appartenenza. Per le donne della nobiltà il lavoro era disonorevole; solo rimanendo in casa la loro onorabilità era salva. Se alcune di loro da giovani andavano a studiare in un istituto fuori casa, erano rigorosamente separate dai maschi. Una volta cresciute tutta la loro vita era confinata in ambito domestico e in attività quali la cura della casa, il ricamo, lo studio del pianoforte.

Giovanni Fattori, La scolarina (1893)

Il matrimonio era combinato dalla famiglia per scopi sociali e economici e raramente la scelta del coniuge era libera. Dopo le nozze, la vita di una donna era segnata da numerose gravidanze: spesso i figli erano allevati da una balia e poi venivano mandati in un collegio, anche per creare un certo distacco tra madri e figli.
Le donne del ceto medio, invece, soprattutto verso la fine dell'Ottocento, non erano estranee al mondo del lavoro, particolarmente nel settore del commercio e dei servizi pubblici e privati. Con l'introduzione dell'obbligo scolastico molte donne diventano maestre, tanto che già a metà degli anni Novanta sono il 65% dell'intero corpo insegnante.
Per le donne dei ceti poveri rurali il lavoro è una necessità. Un contadino sceglieva come sposa una donna non solo capace di fare figli, ma anche di lavorare. Per una contadina la vita era durissima; infatti lavorava in casa, nei campi e anche in settori extra-agricoli, come la filatura e la tessitura. Nei campi svolgevano anche i lavori più pesanti, che non interrompevano neanche durante le numerose gravidanze; ciò procurava frequentemente aborti e molti figli nascevano con malformazioni e le conseguenze sulla salute delle donne erano gravi.

Giovanni Fattori, Le macchiaiole (1866 circa)

Lo sviluppo delle manifatture nel corso dell'Ottocento spinse molte contadine ad abbandonare i campi per le fabbriche, soprattutto tessili e dell'abbigliamento. Anche se le donne erano pagate meno degli uomini e spesso lavoravano solo fino al matrimonio o alla nascita del primo figlio, nel corso del secolo aumentò progressivamente la presenza femminile nelle industrie.
Anche le donne dei ceti poveri urbani trovano occupazione nelle manifatture; esse inoltre lavorano nel piccolo commercio, in attività a domicilio e in aziende familiari. Aumentano notevolmente le serve, soprattutto immigrate dalla campagna, povere e analfabete. Numerose sono anche le prostitute che lavorano nei bordelli o per strada; sono sia immigrate dalla campagna, sia figlie di artigiani in difficoltà economiche.
Malgrado questa situazione complessiva niente affatto felice, nel corso dell'Ottocento si possono trovare alcuni casi di emancipazione della condizione femminile.
Nei ceti alti alcune donne si conquistano un proprio spazio, gestendo i salotti aristocratici, dove possono discutere di politica e di cultura assieme agli uomini.
Inoltre il Risorgimento permise a molte donne di emancipare la loro condizione, sia assistendo i feriti nei campi di battaglia, sia partecipando attivamente alle proteste in città, alle barricate, alle insurrezioni urbane che scoppiarono nel corso del secolo.
Infine va ricordata l'importanza di alcune donne dei ceti popolari: mondine delle risaie, operaie e lavoratrici a domicilio diventano protagoniste a fine Ottocento di episodi di protesta sociale, che le fanno uscire dal ruolo di sudditanza a cui erano abituate e dà loro una nuova consapevolezza di sé.

Angelo Morbelli, Per 80 centesimi (1893-1895)

IMPRENDITORI E OPERAI

È vero che le prime industrie italiane (manifatture nel settore della lana) sono nate in Piemonte, già nel XVIII secolo, ma solo negli ultimi anni dell'Ottocento in Italia ci fu una vera e propria industrializzazione; ancora nel 1861, quando ci fu l'unificazione, il nostro Paese era sostanzialmente agricolo. Infatti i primi operai erano contadini, che spesso lavoravano nelle fabbriche, solo dopo essersi dedicati al lavoro nei campi.
Dal 1880 in poi, sorsero industrie meccaniche e siderurgiche, ma quasi solo al Nord (in particolare a Torino a Milano), dove troviamo le prime grandi famiglie di industriali: i Pirelli nel settore della gomma; i Florio che producevano liquori e in seguito tonno in scatola; gli Ansaldo nel settore meccanico, con la produzione di locomotive; i Falck nel settore siderurgico, che si specializzò nella produzione di acciaio; i Breda nel settore metalmeccanico, che producevano locomotive e macchinari agricoli.

Adolf von Menzel, La fonderia (1875)

Costoro e altri crearono le condizioni economiche, che trasformarono la vita quotidiana di ogni ceto sociale: un esempio significativo è dato dal primo esperimento di illuminazione elettrica (al posto di quella a gas) che avvenne a Milano in occasione dell'esposizione del 1881. Un altro esempio importante fu la nascita della FIAT a Torino nel 1899.
Industrie italiane importanti sorsero nel settore tessile: in esse lavoravano molte donne e fanciulli (più di un quarto del totale), pagati pochissimo, meno dei maschi adulti che comunque erano ampiamente sfruttati, e costretti a turni di lavoro che arrivavano alle 12 ore al giorno (nelle industrie della seta si arrivava anche a 16 ore diurne).
Nelle industrie metallurgiche le condizioni degli operai erano leggermente migliori, ma perché i più elementari diritti dei lavoratori fossero riconosciuti e rispettati, furono necessarie numerose leggi.
Nel 1883 venne approvata una legge contro gli infortuni sul lavoro, con un'assicurazione volontaria. Nel 1886 fu vietato il lavoro ai minori di 9 anni venne posto il limite dei 15 anni per i lavori pericolosi e particolarmente insalubri.

Bambina in un cotonificio statunitense nel 1908: all’inizio del secolo XX il lavoro minorile non era ancora del tutto tutelato

Nel 1898 l'assicurazione contro gli infortuni divenne obbligatoria e all'inizio del '900 fu tutelato il lavoro femminile.

Fernand Cormon, La fucina (1893)

Le gravi condizioni lavorative spinsero gli operai verso due reazioni diverse: l'emigrazione o la protesta.
Gli emigranti erano prevalentemente uomini adulti, spesso analfabeti, col passare degli anni soprattutto meridionali, abituati a lavori duri e manuali (in particolare contadini). All'inizio emigravano in altri Paesi europei, poi nelle Americhe.
La protesta si esprimeva principalmente con rivolte e scioperi, finché si formarono delle associazioni, le camere del lavoro, che erano simili ai sindacati che si sono formati in seguito.
Le camere del lavoro (la prima sorse a Milano nel 1891) furono fondamentali nella formazione delle masse lavoratrici: erano centri di consulenza e di collegamento per i lavoratori e svolsero importanti studi sull'occupazione e sui salari. Sempre più a favore degli operai col passare degli anni, a un certo punto furono in alcuni casi sciolte per decisione del governo.

Robert Koehler, Lo sciopero (1886)

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1 commento:

  1. Questo articolo mi è sembrato molto interessante perché fa capire la società italiana del XIX dal punto di vista di tutte le classi sociali.

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