martedì 30 settembre 2014

35 La crisi economica del Trecento

LA CRISI ECONOMICA DEL TRECENTO

L’epidemia di peste e il crollo demografico aggravarono la crisi economica in corso, colpendo innanzitutto l’agricoltura, il settore che dava lavoro a una percentuale variabile tra l’80 e il 90% della popolazione: la produzione agricola diminuì, perché molte terre rimasero incolte per la morte o per la fuga dei contadini, e diminuì anche il rendimento delle sementi dei cereali (grano, segala, orzo). Molti terreni agricoli finirono nel migliore dei casi col diventare pascoli, nel peggiore boschi di betulle, faggi, carpini, nocciuoli e rovi e sterpaglie, in cui si diffusero lupi, orsi e cinghiali.

Due uomini si difendono da un orso (affresco della seconda metà del XV secolo nella Villa Borromeo di Oreno, in provincia di Monza)

La diminuzione della popolazione portò anche a una forte riduzione della richiesta di prodotti artigianali, mentre il commercio all’interno dell’Europa venne ostacolato dalle misure di emergenza prese per fermare l’epidemia, in particolare la quarantena. Perciò nel Trecento in Europa si ebbe un vero e proprio tracollo economico, cioè una crisi particolarmente grave.
La crisi aggravò le tensioni esistenti tra le diverse classi sociali. Nelle campagne le condizioni di vita dei contadini peggiorarono per le carestie e l’epidemia, perciò i contadini richiesero una diminuzione dei tributi da versare, ma i nobili non volevano perdere questi tributi, in un periodo in cui la crisi economica già riduceva le loro rendite. Scoppiarono perciò rivolte (in Francia nel 1358 e poi nel 1363-1384; in Inghilterra nel 1381), in cui i contadini assalivano i nobili isolati e le loro abitazioni, distruggendo e uccidendo. Queste rivolte scoppiavano d’improvviso, senza una preparazione e un’organizzazione, perciò furono di solito facilmente soffocate dai nobili, che sterminarono i contadini ribelli: dopo la rivolta francese del 1358, i nobili massacrarono circa 20.000 contadini.

La soppressione della rivolta popolare scoppiata a Parigi nel 1358 e passata alla storia con il termine di jacquerie, in quanto Jacques Bonhomme (= Giacomo Buonuomo) era il soprannome dispregiativo dato ai contadini dai nobili (miniatura del XV secolo)

Anche nelle città, dove molti lavoratori salariati rimasero senza lavoro e diversi artigiani videro un netto peggioramento delle loro condizioni, si ebbero rivolte: a Parigi nel 1356 e nel 1382, a Siena nel 1355, a Perugia nel 1371. Il popolo richiedeva miglioramenti delle proprie condizioni di lavoro, ma anche la possibilità di partecipare al potere. A Firenze, ad esempio, i Ciompi (gli artigiani che si occupavano della cardatura, che è una delle fasi di lavorazione della lana) furono a capo di una rivolta, che scoppiò nel 1378. Ad essa parteciparono molti salariati e alcuni artigiani delle Arti minori (fabbri, calzolai, fornai e altri), che di fatto erano escluse dal potere, strettamente in mano alle Arti maggiori (medici, speziali, giudici, notai, lanaioli, setaioli, pellicciai, cambiatori). I Ciompi avanzarono una serie di richieste, come l’eliminazione dei debiti dei lavoratori giornalieri, un diverso sistema tributario (volevano che le tasse fossero basate sui beni e non sulle persone), la distribuzione di cibo e la possibilità di costituire una propria corporazione per difendere i propri interessi. Le loro richieste furono in parte accolte, ma già nel 1382 il popolo grasso di Firenze abolì la corporazione dei Ciompi.

Il lanificio, dipinto di Mirabello Cavalori del XVI secolo al Palazzo Vecchio di Firenze

A causa della crisi, il numero dei poveri aumentò moltissimo: contadini fuggiti dalle campagne per le carestie, salariati rimasti senza lavoro, bambini, anziani o donne i cui parenti erano morti, si aggiunsero a coloro che già vivevano abitualmente di elemosina, come i ciechi o i paralitici, che non potevano svolgere alcun lavoro.
Molte città organizzarono distribuzioni gratuite di cibo nei periodi di carestia. Esse permisero di evitare le rivolte, che sarebbero potute scoppiare facilmente, se in città ci fossero stati troppi abitanti senza il necessario per vivere. Queste distribuzioni però spinsero molti contadini, fuggiti dalle campagne, a rifugiarsi in città, nella speranza di ricevere assistenza. Così crebbe notevolmente il fenomeno del vagabondaggio, tant’è vero che a metà del XIV secolo vi fu, in tutta Europa, una grande fioritura di leggi repressive contro questo fenomeno. Fu facile, poi, per molti vagabondi, diventare banditi.

La distribuzione del pane ai poveri, affresco del 1441 di Domenico di Bartolo nell’ex ospedale di Santa Maria della Scala a Siena

Sorsero anche delle confraternite, cioè delle associazioni di assistenza per i poveri o i malati, come quelle di San Martino e di Orsanmichele a Firenze. Esse distribuivano cibo e denaro ai poveri. Molti nobili e borghesi finanziavano queste confraternite e alcuni lasciavano loro una parte dei propri beni in eredità: proprio in occasione della grande peste del 1348 la confraternita di Orsanmichele ottenne il privilegio di vedere riconosciuti come validi tutti i testamenti a suo favore, contro il parere contrario di altri aspiranti all’eredità.

La compagnia religiosa di sant’Eligio, attiva nell’assistenza ai poveri, in un dipinto italiano del XV secolo

Dopo la fine della grande epidemia di peste, l’agricoltura riprese a svilupparsi, ma furono abbandonate le terre marginali, perché la popolazione era diminuita e quindi era calata la richiesta di prodotti alimentari. Così, ad esempio, l’uomo non intervenne per impedire che il Mare del Nord occupasse circa 2.000 km² di terreno dalla Germania all’Olanda, a causa delle tempeste che sfondarono le dighe costruite nei secoli precedenti.

Un’inondazione sulle coste del Mare del Nord (illustrazione del 1634)

Dato che non era più necessario coltivare tutte le terre a grano, e anche perché si capì che la produzione cerealicola non era più molto redditizia, molti terreni furono destinati ad altri usi. Alcuni furono utilizzati per seminare prodotti non alimentari, che servivano per le attività artigianali, come il lino, da cui si ricava una fibra tessile, o il guado e la robbia, due vegetali che servivano per tingere le stoffe rispettivamente di azzurro e di rosso. Alcune regioni si specializzarono nell’allevamento di ovini, soprattutto in Inghilterra e in Spagna, dove tra il XIV e il XV secolo il numero di pecore triplicò. L’allevamento di pecore forniva la lana necessaria per l’artigianato tessile, assai sviluppato in Inghilterra. Un altro settore artigianale che si sviluppò fu quello della produzione di stoffe di cotone e di fustagni (una stoffa particolarmente resistente a base di cotone), come avvenne in Germania e in Svizzera, che venivano rifornite di materia prima importata dal Nord Africa e dal Medio Oriente dai mercanti veneziani.

La bottega di un sarto in un affresco del XV secolo

A causa della peste e delle carestie vi era mancanza di manodopera (le persone in grado di svolgere un lavoro), sia nelle campagne, sia nelle città. Per questo motivo i grandi proprietari di terre (soprattutto signori feudali, o anche ricchi borghesi, particolarmente in Italia) non potevano trovare così facilmente contadini per le loro terre e furono costretti a darle in affitto a prezzi più ridotti (anche meno della metà), oppure a farle lavorare da salariati, concedendo loro un salario maggiore di quello che normalmente veniva dato prima della crisi. Infatti contadini e salariati, se non erano soddisfatti delle loro condizioni di lavoro, potevano facilmente trovare da un’altra parte terra e lavoro, dato che la manodopera era molto richiesta.
La disponibilità di terre favorì infatti le migrazioni: ad esempio a partire dal XV secolo in Italia si stabilirono contadini croati (in Molise) e albanesi (in tutta l’Italia meridionale), in fuga dall’avanzata dei Turchi nella penisola Balcanica.
Spesso i nobili cercarono di costringere i contadini a lavorare con gli stessi salari del periodo precedente, ma di solito non ci riuscirono e tra il XIV e il XV secolo, nella maggior parte dell’Europa occidentale, si ebbe un indebolimento del sistema feudale.

Una miniatura francese del XV secolo con la scena del pagamento degli affitti; i ceti più umili ebbero molte difficoltà a pagarsi un alloggio in città nel XIV secolo

Solo nel Quattrocento si ebbe nuovamente un incremento demografico, dapprima lento, poi (soprattutto nel Cinquecento) più rapido; si ricostruirono villaggi, se ne fondarono di nuovi e le terre marginali ripresero ad essere coltivate.
Nel corso del Quattrocento si ebbe anche una ripresa economica, che si verificò in tutta Europa. In Italia fu spesso favorita anche da interventi dello Stato: a Genova, ad esempio, fu creata nel 1408 la Casa di San Giorgio, una banca di Stato, e molte città presero provvedimenti che miravano a sostenete lo sviluppo delle attività artigianali e commerciali. Le grandi città, come Milano e Firenze, si specializzarono nella produzione di lusso, tra cui in particolare la lavorazione della seta e, a Venezia, la produzione di vetri, mosaici, arazzi e oggetti in oro.
La ripresa in Italia fu però assai meno forte di quella in atto in altre regioni europee. In molte città il grande potere delle corporazioni e di ristretti gruppi di mercanti e banchieri impedì che ci fosse un rinnovamento nella produzione e nel commercio. Benché le grandi città italiane nel Cinquecento fossero ancora tra i maggiori centri economici europei, l’Italia non aveva più quella posizione di primissimo piano che aveva avuto fino all’inizio del Trecento e la sua economia presentava molti segni di debolezza: alla fine del Cinquecento per l’Italia ebbe inizio un lunghissimo periodo di declino. L’Inghilterra e le Fiandre ebbero invece un forte sviluppo economico e divennero i nuovi centri dell’economia europea.

Un moderno tappeto, copiato su un arazzo fiammingo del XV secolo, quando per il Belgio cominciò la sua epoca d’oro



34 La peste del 1348

LA PESTE DEL 1348

Per tutto il Basso Medioevo la popolazione europea continuò ad aumentare, perciò ci fu una sempre maggiore richiesta di nuove terre da coltivare e vennero abbattute molte foreste. Alla fine del Duecento però in Europa occidentale le terre più fertili erano ormai tutte coltivate e gli uomini incominciarono a coltivare anche le terre marginali, meno produttive perché dal suolo meno fertile.
Poiché la produzione non era più sufficiente per una popolazione in crescita, la denutrizione (cioè l’alimentazione insufficiente) divenne comune e a partire dal trecento nelle annate di cattivo raccolto, come il periodo tra il 1315 e il 1320, incominciarono ad esserci carestie.

La distribuzione del cibo a Firenze in tempo di carestia (miniatura del Maestro del Biadaiolo, XIV secolo)

Il XIV secolo fu un periodo di crisi anche per il commercio: in Europa si verificò una mancanza di metalli preziosi, per cui divenne insufficiente la quantità di denaro in circolazione; inoltre gli scambi con l’Oriente divennero più difficili, perché l’impero dei Mongoli si divise e intere regioni furono devastate dalle guerre.
La crisi del commercio e l’impoverimento di una parte della popolazione scatenarono una crisi nell’artigianato, perché diminuì la richiesta di prodotti artigianali: ad esempio la produzione di tessuti a Firenze passò da circa 100.000 pezze a 70-80.000 nel 1336-1338.
La crisi colpì anche il mondo dell’alta finanza, in particolare a Firenze, città in cui avevano sede banche che erano divenute delle vere e proprie multinazionali: dotate di capitali enormi, in grado di prestare denaro ai re di tutta Europa (in cambio di privilegi che permettevano di arricchirsi ulteriormente), molte banche fiorentine e di altre città italiane cominciarono a fallire una dopo l’altra, dato che i sovrani non erano in grado di restituire le somme di denaro che avevano ricevuto in prestito.
Questa recessione (cioè crisi) economica ebbe effetti su tutte le attività lavorative e provocò un impoverimento della popolazione e un generale peggioramento delle condizioni di vita.

Il pagamento dei salariati del Comune di Siena in una biccherna, opera della bottega di Sano di Pietro (XV secolo)

A metà del Trecento in Asia si verificò un’epidemia di peste: questa malattia viene trasmessa all’uomo dalle pulci, che vivono sugli uomini e sui topi e che con il loro morso iniettano nel sangue un batterio (Yersinia pestis, dal nome di Alexandre Yersin, che lo scoprì nel 1894), un piccolissimo organismo invisibile a occhio nudo. La peste aveva già colpito nell’Età antica numerose volte e anche all’inizio dell’Alto Medioevo vi erano state delle epidemie (a Roma nel 590), che poi però erano cessate, anche perché i traffici si erano molto ridotti e quindi i contatti tra regioni lontane erano scarsi. Nel XIV secolo, invece, le grandi navi che attraversavano i mari erano un ambiente di vita adatto per i ratti, come pure i caravanserragli, i luoghi di sosta per le carovane di commercianti e per i pellegrini che si recavano in Asia.
In queste condizioni la malattia poté trasmettersi dall’Asia fino all’Europa: dalla Cina (1333) giunse alla Persia e alle coste del Mar Nero (1347), poi in Sicilia, a Messina, e da qui si propagò in tutta l’Europa occidentale, dove imperversò dal 1348 al 1351. Viene comunemente chiamata Peste Nera ed era insieme peste polmonare e peste bubbonica: i bubboni erano dei gonfiori che si manifestavano in varie parti del corpo. La maggior parte degli infettati moriva nel giro di tre giorni.

Ammalati di peste bubbonica (illustrazione del 1411 dalla Bibbia di Toggenburg)

In Europa i frequenti spostamenti dei mercanti e degli eserciti portarono a una rapida diffusione della malattia da una regione all’altra. Poiché nessuno ne conosceva le cause, furono escogitati rimedi praticamente inutili, se non addirittura dannosi: misture, cataplasmi, aromi, amuleti contenenti arsenico, stagno o mercurio, veleno di vipere, rospi o scorpioni, chele di granchio, limatura di zoccoli di cavallo, impiastri contenenti grasso di anatra, miele, trementina, fuliggine, melassa, tuorli d’uovo e olio di scorpione, e così via.
Inoltre, poiché non si sapeva in che modo la peste si trasmetteva, non era possibile prendere le precauzioni necessarie per evitare il contagio e a volte si finiva con il peggiorare la situazione. Ad esempio, quando la malattia si diffondeva in una zona, molti scappavano per sfuggire alla morte; alcuni però erano già stati contagiati e, spostandosi, diffondevano l’epidemia.

Vittime della Peste Nera negli Annales di Gilles le Muisit (XIV secolo)

Il contagio fu favorito anche dalle condizioni igieniche scadenti: i parassiti del corpo umano, come le pulci e i pidocchi, erano molto diffusi, perché in Europa vi era una scarsa abitudine all’igiene personale. La popolazione europea era in parte denutrita ed era completamente priva degli anticorpi, cioè delle difese naturali contro la peste, poiché non vi erano state epidemie da molti secoli. Proprio la scomparsa della peste da molti secoli fece sì che i medici fossero completamente inesperti su come curare il morbo. Perciò, ovunque arrivasse, la peste faceva strage: complessivamente, tra il 1348 e il 1352 l’epidemia provocò in Europa la morte di 30 milioni di individui su circa 100 milioni di abitanti, spopolando intere regioni e cancellando moltissimi villaggi, abbandonati dai pochi superstiti.

Malati di peste bubbonica in una miniatura del XV secolo

Dopo la grande epidemia del 1348 la peste rimase endemica in Europa, cioè continuò a ripresentarsi un po’ ovunque e con cadenza pressoché decennale, fino all’epidemia che colpì Marsiglia (in Francia) nel 1720-21.
Le varie pestilenze che colpirono l’Europa dalla metà del Trecento in poi, introdussero nella storia un concetto che a noi oggi sembra naturale: quello che, in caso di epidemie, spetta all’autorità pubblica che governa una città o uno Stato il compito di occuparsi delle misure preventive e di gestire le emergenze. L’Italia fu, allora, la regione europea che per prima si occupò di gestire l’epidemia di peste, con una serie di ordinanze e regolamenti che furono per tre secoli un punto di riferimento per il resto dell’Europa.
Già nel 1348 a Venezia, Firenze e Pistoia si decretò la profondità delle sepolture, affinché l’aria non venisse corrotta da cadaveri seppelliti frettolosamente. Si vietò qualunque contatto tra una città e l’altra; venne proibita l’introduzione di stoffe provenienti da una zona contagiata (in caso contrario esse sarebbero state bruciate sulla pubblica piazza); si presero misure sul modo di macellare e di vendere le carni. Questi provvedimenti, però, non evitarono il contagio.

Incisione ottocentesca di Luigi Sabatelli, raffigurante la peste del 1348 a Firenze; tra i personaggi raffigurati c’è Giovanni Boccaccio (a sinistra) che descrisse la peste nelle prime pagine del Decameron

La prima misura che si rivelò in parte efficace fu quella di imporre una quarantena, cioè un periodo di isolamento di quaranta giorni, a chi arrivava da un’altra città, per verificare che non fosse malato (Ragusa, 1377).
Inoltre i malati di peste vennero isolati in edifici chiamati lazzaretti, in origine riservati ai lebbrosi: Venezia fu la prima città (nel 1423) a dotarsi di un lazzaretto permanente, seguita in pochi anni da Padova, Vicenza, Brescia e Treviso.

Illustrazione raffigurante il lazzaretto vecchio di Venezia, costruito nel 1423

Nel XV secolo in numerose città furono creati degli uffici di sanità, o degli organismi che dovevano occuparsi delle emergenze legate all’epidemia di peste: a Firenze nel 1448, a Mantova nel 1463, a Venezia nel 1478 se ne assunse l’incarico l’ente per il monopolio del sale e nel 1486 un apposito Magistrato della Sanità.
Le calamità del Trecento e in particolare la peste non provocarono soltanto una forte diminuzione della popolazione: essi portarono a mutamenti nella mentalità e nel modo di vedere la vita e la morte.
Prima del Trecento le rappresentazioni della morte (ad esempio nella pittura e nella scultura) non erano molto frequenti, perché per i cristiani la morte non è la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova vita. Nel Trecento la morte divenne invece una realtà molto più frequente e temuta: la peste poteva uccidere in un solo giorno (peste polmonare, attraverso contagio diretto) e le epidemie provocavano vere e proprie stragi. Ogni città, ogni famiglia era continuamente minacciata dalla morte. L’idea della morte divenne perciò molto più presente e familiare e anche le rappresentazioni della morte diventarono più frequenti. Esse presero soprattutto due forme: la danza macabra e il trionfo della morte.

Particolare della Danza macabra affrescata nell’abbazia di Chaise-Dieu (Francia) nel XV secolo

La danza macabra è una scena di danza, in cui la morte, rappresentata da un ballerino vestito da scheletro, guida uomini e donne di ogni classe sociale: scheletri e persone si alternano, ricordando allo spettatore che la morte viene per tutti.
Il trionfo della morte rappresenta la morte, sempre come uno scheletro, armata della falce o di un arco, con cui toglie la vita agli uomini: essa avanza tra la gente, che spesso non si accorge neppure del suo arrivo e muore prima di avere il tempo di pentirsi dei propri peccati.

Trionfo della Morte, affresco del 1485 di Giacomo Borlone de Buschis nell’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo)

Molti pensavano che le carestie e le epidemie fossero una punizione inviata da Dio per i peccati umani: gli uomini si erano allontanati dall’insegnamento di Cristo e Dio li colpiva provocandone la morte. Ovviamente è una teoria ridicola e priva di qualunque fondamento scientifico, ma essa non è del tutto scomparsa dalla mentalità umana: negli anni Ottanta del XX secolo, ad esempio, quando si scoprì l’esistenza di una nuova malattia, l’AIDS, che si trasmette attraverso i rapporti sessuali, alcuni fanatici religiosi la proposero nuovamente come spiegazione di un morbo inizialmente sconosciuto alla comunità medica.
Nel XIV secolo si pensò di organizzare grandi processioni, a cui partecipava l’intera massa dei fedeli: le reliquie più importanti venivano portate lungo le strade cittadine, mentre la gente pregava e invocava la misericordia divina. Di fatto le processioni non solo non potevano fermare la diffusione della peste, ma spesso peggioravano la situazione, in quanto favorivano il contagio tra la moltitudine di fedeli.
Si formarono nuovamente gruppi di flagellanti, che si frustavano nelle vie e nelle piazze delle città, per espiare i peccati propri e altrui e invocare il perdono di Dio.

Una processione di flagellanti in una miniatura dalle Cronache di Aegidius Li Muisis (1349)

I flagellanti e altri gruppi accusarono gli ebrei di essere responsabili della peste. Essi pensavano che gli ebrei con i loro peccati attirassero la vendetta di Dio su tutti gli uomini e che solo sterminando tutti gli ebrei o forzandoli a convertirsi, sarebbe stato possibile fermare l’epidemia.
Anche i lebbrosi furono spesso considerati responsabili delle pestilenze ed essi, come pure molti ebrei, vennero accusati di avvelenare l’acqua e di complottare per uccidere i cristiani. Già dopo le prime grandi carestie all’inizio del secolo erano scoppiati tumulti contro i lebbrosi e gli ebrei: ad esempio nel 1321, in Francia, essi erano stati accusati di aver organizzato un grande complotto per impadronirsi del potere in tutti gli Stati cristiani. In seguito a questo immaginario complotto molti ebrei e lebbrosi vennero uccisi dalla folla o giustiziati per ordine del re. I lebbrosi superstiti furono obbligati a farsi ricoverare nei lebbrosari, da cui non potevano più allontanarsi; il loro numero andò comunque diminuendo per tutto il Trecento, per motivi a noi sconosciuti, perciò i lebbrosari si svuotarono e furono trasformati in lazzaretti.

Ebrei mandati al rogo durante una pestilenza

L’epidemia di peste favorì la diffusione del culto di alcuni santi: in particolare uomini e donne si rivolgevano a san Sebastiano, per invocarne la protezione contro la peste (martirizzato dai romani a colpi di frecce, il santo sarebbe sopravvissuto al supplizio, ma avendone il corpo tutto ricoperto di pustole; queste richiamavano allora alla mente le piaghe della peste). Nel Quattrocento venne molto venerato san Rocco, vissuto nel XIV secolo: secondo la leggenda egli si sarebbe ammalato di peste e sarebbe stato guarito da un angelo. Altri santi a cui ci si rivolgeva furono san Lazzaro, sant’Adriano, sant’Antonio eremita e i santi Cosma e Damiano.

San Rocco visita gli appestati, particolare del dipinto di Jacopo Bassano (1560-1580)

Incominciò, così, a diffondersi l’immagine dell’angelo protettore della città: si pensava che ogni città fosse sotto la protezione di un angelo, a cui i fedeli si rivolgevano per pregarlo di allontanare l’epidemia e ogni altra calamità.
Nello stesso periodo si diffuse anche l’idea che ogni uomo avesse un suo angelo protettore, chiamato angelo custode, che lo proteggeva in vita e lo assisteva al momento della morte. Dopo la morte l’angelo custode e il diavolo si disputavano l’anima del morto.

L’angelo custode, dipinto del Guercino (XVII secolo)





33 Il viaggio di Marco Polo

IL VIAGGIO DI MARCO POLO

La Via della Seta, che permetteva ai commercianti europei più intraprendenti di giungere nell’Asia centro-orientale per procurarsi merci preziose richieste dalle classi sociali più elevate, era stata interrotta o resa più difficile dalla presenza di varie popolazioni sempre in guerra. La conquista dei Mongoli di Gengis Khan delle terre attraversate da questa rotta mercantile portò alla ripresa dei traffici commerciali: i Mongoli, infatti, si mostrarono favorevoli ai commerci ed erano più tolleranti nei confronti degli stranieri, di qualunque religione essi fossero, rispetto ai Turchi che dominavano sul tratto iniziale del percorso. Così gli europei cercarono di aggirare l’ostacolo rappresentato dai Turchi, passando più a nord.
Dapprima la strada dell’Asia fu aperta dai missionari, inviati dai pontefici desiderosi di conoscere le genti che vi vivevano ed eventualmente di convertirli al Cristianesimo; missionari come Giovanni da Pian del Carpine, un frate francescano che nel 1246 giunse fino a Karakorum, in Mongolia, e che al suo ritorno in Europa scrisse una Storia dei Mongoli, che contribuì a creare un’immagine favorevole de Mongoli e del meraviglioso oriente.

Missionari francescani in Cina

Poi sulla Via della seta si misero i mercanti, in particolare i Veneziani, che già nell’Alto Medioevo avevano fatto della loro città un importante centro di traffici commerciali tra oriente e occidente. I Veneziani commerciavano merci di ogni tipo: sale e generi alimentari come grano, vino e olio; prodotti di lusso provenienti dall’Asia (seta, avorio, spezie) e destinati a nobili, vescovi e abati dell’Europa occidentale; materie prime (ferro, legname) e schiavi provenienti dall’Europa occidentale e venduti sui mercati dell’Impero Bizantino e dei paesi arabi.

La riva degli Schiavoni a Venezia (dipinto di Leandro Bassano)

I Veneziani erano formalmente sotto dominio bizantino, ma Bisanzio non era in grado di controllare i suoi possedimenti italiani e Venezia finì per diventare una città indipendente: aveva un proprio capo politico e militare (il doge), che governava con un Consiglio, di cui facevano parte i membri delle famiglie più potenti.
All’inizio del Basso Medioevo la ricchezza di Venezia aumentò: la città godeva di forti privilegi nell’Impero Bizantino, tra cui quello di non pagare a Bisanzio e in altri porti bizantini le tasse sulle merci, in cambio dell’aiuto prestato dalla flotta veneziana agli imperatori d’Oriente. Così la città lagunare fondò basi commerciali e conquistò terre lungo le coste dell’Adriatico (Istria, Dalmazia) e del Mediterraneo (Creta e altre isole); più tardi (XIV-XV secolo) estese i suoi domini nell’entroterra italiano.

Veduta di Venezia in una miniatura del Libro del Gran Khan, titolo del codice dell’opera di Marco Polo conservato alla Bodleian Library di Oxford

All’interno della città i contrasti furono meno forti rispetto a quanto avveniva altrove, perché le famiglie dei ricchi mercanti riuscirono a escludere dal potere gli altri cittadini, approvando leggi che limitavano la possibilità di entrare nel Gran Consiglio a chiunque non facesse parte delle famiglie già presenti in esso (Serrata del Gran Consiglio, 1297).

Ritratto di Marco Polo da giovane in un’edizione de Il Milione pubblicata a Norimberga nel 1477

Tra i mercanti veneziani vi erano i fratelli Matteo e Niccolò Polo, dediti a frequenti traffici con l’Oriente. Nel 1261, partiti dalla Crimea, raggiunsero il basso corso del Volga e si spinsero fino alla corte del gran khan Kubilai in Cina. Rientrati a Venezia nel 1269, ripartirono per l’Oriente nel novembre 1272, portando con sé il figlio di Niccolò, Marco, che aveva 17 anni: non era un’eccezione, a quell’epoca, portarsi dietro un ragazzo, anche se il viaggio era pericoloso, poiché l’esperienza diretta forniva ai figli un’educazione commerciale fondamentale.

I Polo in viaggio con una carovana di cammelli (dall’Atlante catalano del 1375)

Dopo un viaggio di 30 mesi attraverso l’Anatolia, la Mesopotamia, la Persia, il Pamir, il Turkestan Orientale e il deserto del Gobi, giunsero a Khanbalik (la “Città del Khan”, ossia Pechino), recando doni e messaggi da parte di papa Gregorio IX.

Niccolò e Matteo Polo consegnano al gran khan i doni del papa (dal Livre des Merveilles du Monde, XV secolo)

Conquistata la fiducia del gran khan Kubilai, il giovane Marco svolse importanti missioni diplomatiche e commerciali, che gli permisero di conoscere gran parte dell’Oriente, studiandone nei particolari i costumi e le civiltà.

I festeggiamenti offerti dal gran khan a Khanbalik (dal Livre des Merveilles du Monde, XV secolo)

Marco Polo fu subito colpito dalla differenza esistente tra le città europee e quelle cinesi: se in Europa le città contavano soltanto alcune migliaia di abitanti e, escluse le cattedrali e i palazzi dell’autorità pubblica, non vi erano edifici monumentali, in Cina i centri urbani arrivavano anche a milioni di persone, che vivevano fra giardini stupendi e deliziose pagode. Khanbalik era sfolgorante e meravigliosa: Kubilai ne aveva fatto il simbolo della potenza imperiale, impiegando somme enormi e quantità esorbitanti di contadini, tolti alla terra e costretti a lavori forzati per l’abbellimento della capitale. Marco Polo rimase abbagliato dall’impianto urbanistico regolare della città, traboccante di quartieri per artigiani e mercanti, di complessi religiosi e zone residenziali, di vaste e superbe architetture che sovrastavano le porte cittadine. La ricchezza della capitale attraeva ogni giorno frotte di commercianti e tonnellate di mercanzie: perle, gioielli, sete per le fabbriche di tessuti, generi di consumo di ogni specie. Merce che veniva pagata con banconote di vario taglio, garantite dal sigillo di Kubilai ed emesse dalla banca imperiale, fatte con materiale lavorato dalla corteccia del gelso.

Miniatura dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)

Oltre a Pechino, Marco Polo visitò altre città cinesi. Come Hangzhou (o Quinsai), innervata di strade e canali che scorrevano fra più di un milione e mezzo di case e ville, che avevano giardini fiabeschi e statue e sculture deliziose, e che sorgevano tra templi sontuosi e monasteri imponenti. I viali di Hangzhou disponevano di un congegno di drenaggio delle acque piovane e luccicavano per le pietre e i mattoni con cui erano lastricati. Nei quartieri dei medici e degli astrologi si insegnava a leggere e scrivere; in ogni piazza si poteva trovare qualunque mercanzia (verdura e frutta, pesche gialle e bianche, pere, riso, spezie, particolarmente il pepe, carni di capriolo, cervo, daino, lepre, coniglio, pernice, fagiano, anatra, oca, capponi, pollame di ogni tipo e anche cane); nelle macellerie si reperivano tranci di vitello, bue, capretto e agnello e nelle pescherie pesci di mare e di lago, ingrassati dall’immondizia metropolitana gettata in acqua. Al pianoterra degli edifici sorgevano gioiellerie, vinerie e drogherie, mentre ai piani alti si trovavano le dimore di persone pacifiche ed educate, prive di invidie, rispettose delle donne.

Miniatura dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)

Tutto sembrava perfetto e ordinato, ma a Marco Polo non sfuggì l’odio, sommesso però generalizzato, che si poteva leggere negli occhi delle persone, soprattutto quando per strada incrociavano le sentinelle e i soldati mongoli, ritenuti degli intrusi, degli occupanti illeciti, che avevano privato i Cinesi della loro legittima dinastia.
Viaggiando in lungo e in largo per le province cinesi, Marco Polo memorizzò tutto quanto lo colpì, in positivo e in negativo, di luoghi e persone: il sistema viario perfettamente organizzato, con le stazioni, dislocate a distanze regolari, per il riposo dei viandanti e il cambio della cavalcature. I collegamenti fluviali, necessari per percorrere le enormi distanze dell’impero, costruiti anch’essi ricorrendo al lavoro forzato di milioni di Cinesi, come il “Grande Canale” costruito tra il VI e il VII secolo, ma rimaneggiato tra XIII e XIV, che con i suoi 1794 chilometri di lunghezza collegava Pechino a Hangzhou ed era il corso artificiale più lungo del pianeta. E ancora le giravolte delle fontane, o i 15 chilometri di un viadotto adorno di statue leonine e di balaustre finemente scolpite, su cui potevano transitare dieci cavalli affiancati, o le case e le botteghe in legno costruite sui ponti che scavalcavano i grandi corsi d’acqua, come il Fiume Azzurro.

Miniatura dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)

Vide regioni ricche di garofano aromatico e di cannella, di zenzero e di pesci lacustri, di perle pescate nei laghi, di turchese estratto dalle montagne, di coccodrilli che infestavano le paludi, ma da cui si estraeva un fiele ritenuto efficace per curare i morsi dei cani, le malattie dei bambini e le difficoltà delle puerpere nel partorire.
Conobbe popolazioni che avevano l’usanza di decorare la dentatura inferiore e superiore con un rivestimento dorato. Conobbe la morigeratezza delle Cinesi di buona famiglia, che non partecipavano a feste e balli, evitavano le baldorie e i discorsi spinti, non parlavano mai a sproposito e uscivano di tanto in tanto (per andare a pregare nel tempio o in visita ai parenti) accompagnate solo dalle madri e sempre con lo sguardo basso. Ma conobbe anche mariti o padri che offrivano per un incontro sessuale le mogli e le figlie agli stranieri di passaggio, perché ciò avrebbe aumentato i raccolti e portato felicità nelle famiglie; o genti che consideravano adatta al matrimonio quella ragazza che avesse avuto più rapporti sessuali; o dame di piacere, che si riconoscevano di lontano per i profumi intensi che usavano e che, colte ed esperte, intrattenevano i clienti non solo con carezze e lusinghe, ma anche con parole adatte a ciascun uomo.

Marco Polo ritratto da Giovanni Antonio da Varese in una sala di Palazzo Farnese a Caprarola (XVI secolo)

Nel 1290, quindici anni dopo il loro arrivo a Khanbalik, i Polo decisero che era giunto il momento del rimpatrio. Chiedere al gran khan il congedo, prima che egli lo avesse decretato, era rischioso, perché il sovrano poteva offendersi e reagire anche con il taglio della testa. Perciò bisognava che si offrisse un’occasione propizia e questa venne nel 1291, quando Kubilai chiese ai Polo di accompagnare la principessa Kokacin in sposa a un re persiano, che voleva imparentarsi con il gran khan.

I fratelli Polo ricevono dal gran khan una tavola d’oro come salvacondotto per il loro viaggio di ritorno

Nel 1292 i Polo salparono dal porto di Quanzhou con 14 navi e, approdati dopo 18 mesi di navigazione in Persia, consegnarono la principessa non al re che l’aveva richiesta, dato che nel frattempo era morto, ma al suo successore.

I Polo arrivano a Hormuz, nel Golfo Persico (dal Livre des Merveilles du Monde, XV secolo)

I Polo soggiornarono in Persia fino al febbraio 1294, poi ripartirono per Venezia, passando per via terra da Trebisonda sul Mar Nero, Costantinopoli e Negroponte, cioè l’isola greca di Eubea. Giunsero a casa nel 1295, dopo quattro anni di viaggio e diciassette passati in territori lontanissimi. Si raccontava (ma è una pura leggenda), che quando giunsero nella città lagunare, dove tutti li credevano morti da tempo, fossero vestiti di stracci e dall’andatura e dall’aspetto somigliassero a dei Tartari, cioè a dei Mongoli: nemmeno i familiari credevano alle loro storie, finché, invitati a un banchetto, i tre mercanti non si presentarono magnificamente vestiti con abiti di raso, damasco e velluto, e Marco fece cadere dagli stracci che indossava all’arrivo una grande quantità di pietre preziose.

L’isola al largo di Quesmaturan, abitata nel racconto di Marco Polo solo da uomini impegnati a commerciare (dal Livre des Merveilles du Monde)

Nella realtà la fortuna dei Polo era più modesta di quanto si cominciò a favoleggiare, sebbene la famiglia sia andata ad abitare in una casa (di cui non resta traccia) vicino al Ponte di Rialto, nel cuore della città: da alcuni documenti sappiamo che era una grande casa a più piani, con un grande “portego” (ossia un salone), dodici stanze, una cucina e, nel cortile, un pozzo e una latrina, utilizzati in comune.
Matteo e Niccolò vissero ancora qualche anno (morirono entrambi nei primi anni del Trecento, secondo altre fonti Niccolò morì prima del 1300), mentre Marco sposò la nobildonna Donata Badoer, da cui ebbe tre figlie, e proseguì per molti anni l’attività mercantile.
Pochi anni dopo il suo ritorno fu catturato in uno degli scontri navali tra Venezia e Genova, frequenti in quegli anni, e venne rinchiuso nelle carceri genovesi, da cui uscì nel 1299. Nei mesi di prigionia dettò a Rustichello da Pisa, un letterato compagno di carcere, il libro che noi oggi chiamiamo Il Milione, ma che nei codici più antichi ha altri titoli, come La descrizione del mondo, o simili.

Miniatura dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)

Il libro è in parte una descrizione geografica dei luoghi visitati da Marco, in parte un resoconto storico. Procede con una impostazione oggettiva e reale, ma anche fresca e vivace, che mostra concretamente le novità e le meraviglie viste o apprese da marco in quell’Asia, che i suoi contemporanei popolavano di mostri e di portenti.

Miniatura dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)

Rustichello scrisse i ricordi di Marco nella lingua d’oil, un francese antico che non solo vantava un’illustre tradizione letteraria, ma che era anche la parlata più diffusa allora e permetteva di raggiungere un pubblico internazionale, vasto e diversificato. Il libro ebbe una fortuna eccezionale, soprattutto presso i mercanti e gli scienziati (geografi, cartografi, etnologi); venne divulgato e riassunto in molti modi e in molte lingue (latino, toscano, veneto e così via), a testimonianza del suo successo. Il testo originario è andato perduto e noi oggi non sappiamo come fosse, dato che gli oltre 130 codici che ce lo tramandano sono molto diversi uno dall’altro; sappiamo però che è una mirabile sintesi di scienza e di avventura umana, tra le più significative della civiltà del Medioevo.
Marco Polo morì nella sua casa veneziana l'8 gennaio del 1324 all'età di quasi settant'anni.

Ritratto di Marco Polo da vecchio



32 Africa e Asia nel Basso Medioevo: i Mongoli di Gengis Khan

AFRICA E ASIA NEL BASSO MEDIOEVO: I MONGOLI DI GENGIS KHAN

Nei secoli che in Europa costituiscono il Basso Medioevo, la crisi del Califfato favorì la formazione nell’Africa settentrionale di Stati musulmani autonomi: molti territori passarono sotto dinastie locali, come i Fatimidi in Egitto, gli Almoravidi e poi gli Almohadi in Marocco.
Anche nell’Africa sub-sahariana si svilupparono diversi Stati, tra cui quello del Mali (XIII-XIV secolo) e quello del Kanem-Bornu (XI-XVI secolo). Essi ebbero numerosi contatti con il mondo arabo, per cui al loro interno la religione prevalente era quella musulmana. La loro esistenza era invece sconosciuta in Europa.

Sculture in bronzo della cultura Ife (Nigeria) del XII-XV secolo

Si conosceva, invece, almeno in parte, ciò che accadeva nell’Asia occidentale e in quella centrale, che erano abitate da popolazioni musulmane. Qui si estendeva il vasto regno dei Turchi Selgiuchidi, che aveva il suo centro in Persia.
L’India, divisa in tanti Stati, fu più volte invasa da condottieri musulmani, provenienti dall’Asia centrale. Essi vi fondarono diversi regni, il principale dei quali fu il sultanato di Delhi: nel XIII secolo il sultanato comprendeva tutta l’India settentrionale, dalla valle dell’Indo a quella del Gange. In questi Stati molti indiani furono costretti a convertirsi all’Islam e la religione musulmana si affermò in tutta la penisola, accanto all’Induismo, mentre il Buddhismo scompariva (XI secolo).

Il mausoleo a New Delhi di Ghiyath al-Din Tughlaq, il fondatore della dinastia turca che regnò sul Sultanato di Delhi nel XIV secolo

Nel sud dell’India si alternarono diversi regni, come quello dei Chola (dalla metà del IX secolo al XIII secolo): sotto il loro governo l’India meridionale conobbe il periodo del massimo fulgore in campo artistico e questo proprio perché i re Chola volevano rendere ben visibile il loro potere.

Il tempio di Shiva Nataraja a Chidambaram è un esempio dell’arte Chola (XII-XIII secolo)

Il più vasto e potente Stato dell’Asia e del mondo intero era, come nei secoli precedenti, la Cina. Nonostante alcuni periodi di crisi e di lotte interne, sotto le dinastie che seguirono i Tang, essa rimase uno Stato molto sviluppato. Nel 1154, sotto i Song, in Cina fu introdotta, cinquecento prima dell’Europa, la carta-moneta, ossia biglietti di carta che sostituivano le monete metalliche, ma ne avevano lo stesso valore, che era garantito dallo Stato; nel 1260 l’uso della carta-moneta fu reso obbligatorio.

Donne che stirano panni di seta, pittura del XII secolo della dinastia Song

In questi secoli si affermò anche la potenza del Giappone, dove si formò nel XII secolo una classe di guerrieri, i bushi, che in Europa sono noti con il termine di samurai.
Altri regni furono fondati dai popoli seminomadi dell’Asia centrale. Il più importante fu quello dei Mongoli: guidati da un guerriero di nome Temujin, i Mongoli riuscirono a superare le divisioni tra clan che contraddistinguevano gli abitanti della regione a nord della Cina e a unirsi in un unico popolo. Diedero a Temujin l’appellativo di Gengis Khan (che significa “sovrano oceanico”) e sotto la sua guida dal 1206 al 1227 conquistarono un vasto impero, come non era esistito neanche al tempo di Alessandro Magno o dei Romani. Esso comprendeva tutte le terre che andavano dalla Cina settentrionale fino alla Russia meridionale e anche l’Europa orientale, fino a Vienna e all’Adriatico, fu devastata dalle loro scorrerie.

Cavalieri mongoli all’inseguimento del nemico sconfitto (miniatura persiana del XIV secolo)

Alla morte di Gengis Khan l’impero venne diviso tra i suoi successori, che conquistarono nuovi territori: l’intera Cina, dove fondarono una nuova dinastia, gli Yuan; la Persia; gran parte della Russia, dove i principati esistenti (Mosca, Kiev, Suzdal) vennero sottomessi e per secoli rimasero sotto il dominio mongolo o dovettero pagare un tributo.
Le incursioni dei Mongoli provocarono distruzioni enormi in tutta l’Asia e nell’Europa orientale, ma il loro impero favorì la sicurezza delle vie commerciali che passavano per l’Asia centrale: per un lungo periodo (tra il XIII e il XIV secolo) carovane di mercanti, come quella dell’italiano Marco Polo, poterono attraversare tutta l’Asia centrale con le loro merci, lungo quella che viene chiamata “la via della seta”.

Nobile a cavallo, pittura di Qian Xuan (dinastia Yuan, 1290)

APPROFONDIMENTO (lo trovi tra le pagine nella barra di destra):
Gengis Khan: da nomade a imperatore