CULTURA, LINGUA, GIOCHI E SPETTACOLI NEL
BASSO MEDIOEVO
Nell’Alto Medioevo la scuola pubblica,
presente ai tempi dell’Impero Romano, aveva finito per scomparire in molte
regioni ed erano invece nate scuole ecclesiastiche, situate vicino alle chiese,
alle cattedrali e ai monasteri, fondate e controllate da sacerdoti, vescovi e
abati; esse furono per secoli gli unici centri in cui si dava un’istruzione,
sia pure a un numero molto ridotto di giovani.
Il
monaco Esdra intento alla copiatura dei testi antichi nel suo studio, dotato di
un largo scaffale per i codici (miniatura del secolo VII)
Nel Basso Medioevo vi fu una ripresa
dell’istruzione, che si diffuse soprattutto nelle città. Le attività dei
borghesi richiedevano infatti un certo livello di istruzione: un mercante o un
artigiano doveva essere in grado di leggere, scrivere, fare i conti, tenere in
ordine i libri contabili.
In tutte le città sorsero perciò scuole,
di diverso tipo: vi erano scuole ecclesiastiche, come le scuole cattedrali, che
ebbero un grande sviluppo, e quelle nate presso i monasteri nelle città, come
le scuole domenicane; vi erano anche scuole private, aperte da maestri che accoglievano
allievi a pagamento. Infine molti Comuni, per favorire lo sviluppo
dell’istruzione, incominciarono a pagare i maestri e a dar loro una sede per
insegnare: nacquero così le scuole pubbliche, assai frequentate nelle città più
sviluppate.
Un chierico
con i suoi allievi
Vi erano scuole di diversi livelli: scuole
di tipo elementare, in cui si imparava a leggere, scrivere e contare; altre che
fornivano una preparazione professionale ed erano riservate ai maschi; altre
ancora di livello superiore. Tutte comunque erano frequentate soprattutto dai
figli dei borghesi, perciò i salariati erano di solito analfabeti.
Nelle campagne l’analfabetismo rimase
molto diffuso ovunque: solo una minoranza sapeva leggere e scrivere.
Nell’ambiente rurale i bambini fin da piccoli aiutavano i genitori nei lavori
dei campi, eseguendo i compiti più svariati, dalla raccolta di frutti nei
boschi a lavori anche pesanti e pericolosi: non avevano certo la possibilità di
istruirsi in una scuola. Così, come scrisse un medico del XIII secolo, i figli
dei contadini nascevano bellissimi, ma nel giro di poco tempo, per il troppo
lavoro e per la mancanza di igiene, diventavano brutti.
Il diffondersi dell’istruzione aumenta il
numero di coloro che sanno scrivere: a volte si tratta semplicemente di persone
semialfabete, cioè che sono in grado soltanto di tracciare con difficoltà il
proprio nome, o qualche formula augurale di carattere sacro. Questo comporta
che spesso troviamo sulle pareti delle chiese, in particolare su quelle dei
santuari meta di pellegrinaggio, i nomi di chi in quel luogo si era recato e vi
aveva lasciato la propria, anche se incerta, firma.
Per professioni come quella di medico o
notaio era richiesta una preparazione molto vasta, che poteva essere raggiunta
solo con lunghi anni di studio. A partire dall’XI secolo nacquero perciò le
università (Bologna, Parigi, Oxford, Salerno), che furono i primi centri di
studi superiori.
Uno
studio notarile in un manoscritto del XIV secolo a Perugia
Le università nacquero come corporazioni
di insegnanti o (nel caso ad esempio di Bologna) di studenti. Esse si formarono
perché la condizione degli studenti (e spesso anche dei maestri), provenienti
da altre città, non era sempre facile: la popolazione locale spesso mal
tollerava la presenza di un gran numero di stranieri, con abitudini e
comportamenti diversi; in ogni controversia i tribunali locali tendevano ad
attribuire il torto agli studenti stranieri; i prezzi degli affitti erano molto
alti e poteva essere difficile trovare una stanza. In questa situazione
l’associarsi permetteva di difendersi meglio e dava molta più forza contrattuale,
cioè una maggiore capacità di ottenere condizioni migliori: in caso di scontri
con la popolazione o con l’autorità civile, un’università poteva anche decidere
di trasferirsi in blocco.
Scene
di vita studentesca nel Collegio dell’Ave Maria a Parigi (da un manoscritto del
XIV secolo)
Le università furono favorite e
controllate dai re, che avevano bisogno di funzionari in grado di amministrare
i loro regni: il re di Francia ad esempio diede all’università di Parigi un
regolamento nel 1215. Alcuni re fondarono anche università, come fece Federico
II a Napoli (1224).
Le università finirono per diventare i
principali centri culturali e alcune di esse raggiunsero grande fama, come
Bologna per gli studi di diritto e Salerno per quelli di medicina: in esse
studiavano giovani provenienti da tutta l’Europa.
All’università gli insegnanti, molti dei
quali erano uomini di Chiesa, tenevano corsi di diritto canonico (ossia della
Chiesa) e civile, teologia (studi religiosi), medicina e arti liberali: queste
ultime comprendevano le sette discipline che costituivano la base degli studi
letterari (grammatica, retorica, dialettica) e scientifici (aritmetica,
geometria, astronomia, musica).
Raffigurazioni
della Grammatica (a sinistra) e dell’Aritmetica in un affresco dell’inizio del
XV secolo a Palazzo Trinci, Foligno
I corsi duravano molti anni, di solito da
sei a dodici, ed erano basati sulla lettura di testi, in particolare opere
greche e latine e commenti di teologi. Seguire un corso universitario, quindi,
richiedeva molte spese: per procurarsi i manoscritti, rari e costosi; per i
maestri, che occorreva pagare a ogni esame; per il vitto e l’alloggio, poiché
molti studenti provenivano da altre città. I corsi universitari erano perciò
frequentati solo dai giovani delle famiglie ricche.
Per gran parte del Medioevo, fino almeno
al XIV secolo, molti testi venivano scritti per essere cantati o almeno
cantilenati, di solito con accompagnamento di musiche. È il caso, ad esempio,
delle poesie che ci hanno lasciato i trovatori, poeti medievali che scrivevano
in provenzale, la lingua diffusa in un ampio territorio che andava dalla costa
francese sull’Atlantico, alle Alpi e ai Pirenei, ma anche oltre: i loro testi
erano in realtà canzoni, che gli autori cantavano accompagnandosi con uno
strumento. Di alcune di queste poesie si sono conservati anche elementi di
notazione musicale, che ci permettono di ricostruire il modo in cui venivano
cantate. Anche i primi poemi epici, che narravano le gesta di eroi dell’antichità
o dell’Alto Medioevo, erano destinati ad essere cantati e infatti venivano
chiamati Chansons de geste (canzoni
delle imprese).
Poiché poesie e poemi venivano recitati a
memoria, i manoscritti servivano soprattutto come aiuto per ricordare.
Un
suonatore di flauto e un giocoliere in una miniatura dell’XI secolo
Anche i testi in prosa erano di solito
letti ad alta voce: i manoscritti (per i quali fino al XII secolo si usava la
pergamena e solo dopo la carta, ma inizialmente con scarso successo, poiché era
meno resistente della pergamena) erano rari e costosi e pochi potevano
permettersi una biblioteca. La lettura avveniva perciò collettivamente:
qualcuno leggeva ad alta voce, mentre gli altri ascoltavano. Si trattava spesso
di un lettore di professione, esperto nell’arte di recitare, capace di
sottolineare i momenti drammatici e di coinvolgere gli ascoltatori: queste
letture ad alta voce avevano diversi elementi del teatro.
Le università, dove insegnavano i più
importanti studiosi, contribuirono a un certo sviluppo culturale e scientifico
nel Basso Medioevo, che avvenne dunque soprattutto a partire dal XII secolo.
Nei primi secoli (XII-XIII) lo sviluppo si
basò principalmente sulla traduzione dei testi arabi: attraverso di essi in
Europa si riscoprirono conoscenze greche e latine che erano andate perdute
durante l’Alto Medioevo e che gli arabi avevano invece utilizzato e arricchito.
Questo determinò progressi in diverse
scienze: l’astronomia, che spesso rimase legata all’astrologia (cioè lo studio
degli effetti che, secondo alcuni, i pianeti e le costellazioni avrebbero sugli
uomini e sugli avvenimenti); la matematica, con la diffusione delle cifre arabe
(a cominciare dal X secolo, ma soprattutto dal XII) e la conoscenza, sempre
grazie alle traduzioni dall'arabo, della geometria greca di Euclide (XII
secolo); la medicina, sviluppata in Italia dalla scuola di Salerno.
Ippocrate
e Galeno, grandi medici dell’antichità, in un affresco del Duomo di Anagni, a
riprova dell’alto concetto in cui erano tenute nel Medioevo tali figure di
scienziati
La lingua di cultura in tutta l’Europa
occidentale continuò a essere il latino, ma esso era usato soprattutto per
scrivere: solo poche persone con un’istruzione superiore lo usavano per
discutere tra di loro. Il latino utilizzato nel Medioevo non rispettava sempre
né la pronuncia, né la costruzione della frase latina e conteneva numerose
parole prese dalle lingue locali, e quindi diverse da regione a regione. Vi
erano perciò alcune differenze tra il latino usato ad esempio in Italia e
quello usato in Inghilterra, ma esse non erano tanto grandi da rendere
difficile la comprensione: in Europa il latino rimaneva una lingua universale,
conosciuta ovunque da tutte le persone con un alto livello di istruzione. La Chiesa
lo usava come unica lingua e nell’Europa occidentale la messa venne sempre
recitata in latino.
Il popolo parlava altre lingue, derivate
dal latino (nell’Europa sud-occidentale), dall’antico slavo (nell’Europa
orientale) o dall’antico germanico (nell’Europa centro-settentrionale). Esse
erano chiamate volgari (da volgo, cioè popolo) ed erano utilizzate anche dai
sacerdoti nelle prediche, che altrimenti sarebbero state incomprensibili alla
maggioranza dei fedeli. In Italia ad esempio dal latino si formarono i diversi
dialetti italiani (come il toscano e il veneto, il siciliano e il calabrese), i
dialetti sardi (che costituiscono una lingua a sé), il ladino-friulano e il
ladino-dolomitico e, ai confini con l’attuale Francia, l’occitano e il
franco-provenzale: tutte queste diverse lingue sono ancora oggi parlate.
Capolettera
miniato con un mercante che scrive a una donna (manoscritto del 1385)
I volgari cominciarono ad essere scritti
perlopiù solo dopo l’anno Mille, inizialmente per riportare testimonianze o nei
testamenti, poi per le opere di poesia e infine per altri testi letterari. I
testi scientifici e religiosi rimasero a lungo scritti solo in latino, ma tra i
primi manoscritti in volgare, che comparvero in Europa tra il XII e il XIII
secolo, vi erano molti testi biblici: traduzioni e adattamenti di alcuni libri
della Bibbia, come il Cantico dei Cantici
o i Salmi e anche romanzi in versi di
argomento biblico, come il Romanzo di Dio
e di sua madre, di Ermanno di Valenciennes.
A partire da Trecento alcuni volgari
regionali si imposero sugli altri, divenendo i modelli delle lingue nazionali:
in Francia si impose il francese di Parigi, che era la capitale dello Stato; in
Italia il toscano di Firenze, che era la lingua usata dai più importanti
scrittori italiano del secolo (Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni
Boccaccio).
Miniatura
del XV secolo per una novella dal Decameron (Tofano e Ghita) di Giovanni
Boccaccio
La cultura di un popolo si esprime anche
attraverso i suoi giochi e i suoi spettacoli: ad essi si dedicavano uomini e
donne del Medioevo, esattamente come era avvenuto nell’Età antica, e di essi
troviamo traccia nei poemi e nei racconti, nelle cronache e nei dipinti.
Tra gli spettacoli più noti e diffusi del
Medioevo ci sono i combattimenti di cavalieri, che, con cavalli poderosi,
armature sfavillanti e vestiti preziosi, si sfidano nei tornei (in campo
aperto), nelle giostre (in campo chiuso e quindi più vicini agli spettatori),
nell’anello (in cui si doveva centrare con la punta della lancia un anello
sospeso) e nella quintana (consistente nel colpire con la lancia un bersaglio
che gira su stesso, evitando il contraccolpo del braccio ruotante). Spettacoli
che si diffondono in tutta Europa a partire dal XII secolo e che sono a volte
estremamente pericolosi: nel 1239 in un torneo combattuto vicino a Colonia
muoiono 60 cavalieri partecipanti, secondo altri cronisti addirittura 80.
Un torneo
in Francia da Le
Livre des Tournois (1488) appartenuto al
re di Napoli Renato d’Angiò
Giochi violenti si diffondono nelle città già
nell’XI secolo (ma erano praticati anche prima): è il caso degli scontri a
sassate, che dilagano ovunque e si praticano per secoli. A Perugia un momento
del “gioco” è addirittura riservato ai bambini. Altri scontri vengono
effettuati con i pugni, o con i bastoni: è il caso del mazzascudo, in cui i
partecipanti si affrontano con mazze di legno, protetti da scudi, anch’essi in
legno, e da elmi metallici.
All’aperto vengono effettuati anche giochi
con gli animali, non solo nella forma del palio con i cavalli, ma anche in vere
e proprie partite di caccia da farsi in città: i tori sono i protagonisti
principali di questo tipo di spettacolo (a metà del Duecento era già praticata
a Venezia una caccia ai tori), ma altri animali vengono impiegati in numerosi
Comuni italiani.
Una rievocazione
ai giorni nostri degli scontri del mazzascudo a Pisa
Ampiamente usata era la palla, che serviva
per giochi diversi: fin dal XII secolo nella Francia settentrionale e in
Cornovaglia si giocava la soule, un
mix di calcio e rugby, molto violento, che si poteva giocare anche tra duecento
partecipanti. Veniva giocato in spazi che potevano includere anche fossati,
ruscelli, boschi, stagni o zone paludose, infatti le cronache dell’epoca
narrano che nel corso di una partita in Francia 40 uomini annegarono in una
palude. Altrettanto violenti erano i giochi praticati dai Vichinghi, dai
Britanni e dai Fiorentini, che nel XIII secolo inventarono il calcio
fiorentino, disputato da due squadre di solito composte da 27 uomini e giocato
ovunque fosse possibile (nell’inverno 1490 anche sull’Arno ghiacciato). Dal
XIII secolo si cominciò a giocare a pallacorda (una specie di tennis), un gioco
per cui vennero costruite vere e proprie sale e che cambiò nel tempo, divenendo
via via più complesso.
Tra i giochi da tavolo i dadi erano senza
dubbio uno dei più diffusi e vantavano una lunga tradizione: già gli antichi
Romani giocavano a dadi. Sappiamo che esistevano regole precise per la loro
produzione: ad esempio che essi dovevano avere gli spigoli arrotondati e che
non dovevano essere né troppo pesanti, né troppo leggeri, per evitare che si
potesse imbrogliare. I dadi venivano usati per giochi molto diversi: variavano
il numero di dadi usati, il numero di giocatori, l’obiettivo del gioco stesso,
la durata della partita.
Gli scacchi arrivarono nell’Europa
occidentale nel X secolo. Probabilmente furono introdotti dagli Arabi, ma
potrebbero anche essere stati portati dai Variaghi (i Vichinghi che
commerciavano in Russia). Inizialmente era un gioco per aristocratici, tanto
che un letterato spagnolo vissuto attorno al 1100 scrive in un suo trattato che
un nobile deve sapere, tra le altre cose, giocare a scacchi. I pezzi si
modificarono nel tempo, adattandosi alla realtà europea: il carro divenne la
torre, l’elefante diventò il giudice o il vescovo, per poi passare ad essere
chiamato alfiere o matto, il visir divenne la regina. Le regole cambiarono
anch’esse e assunsero la forma attuale solo alla fine del Medioevo. Le scacchiere
che ci sono rimaste sono oggetti di grande valore, realizzate in materiali
pregiati, ma il gioco non era diffuso solo tra la nobiltà e sono stati
ritrovati anche pezzi intagliati nel legno.
Un cristiano
e un musulmano giocano a scacchi sotto una tenda (miniatura del XIII secolo)
Le carte da gioco arrivarono solo nel XIV
secolo e non sappiamo quale sia la loro origine. Inizialmente erano usate solo
dalle classi superiori e ci sono rimasti mazzi di carte molto raffinati, come i
tarocchi dei Visconti (l’invenzione quattrocentesca dei tarocchi è discussa:
forse sono stati proprio i Visconti di Milano, oppure gli Este di Ferrara), ma
con il tempo il loro uso si diffuse anche nelle classi sociali inferiori; le
carte medioevali erano più lunghe e meno larghe delle carte che si usano oggi e
ne esistevano forme molto diverse. I simboli francesi (cuori, picche, quadri,
fiori) finirono per imporsi sugli altri (denari, spade, bastoni, coppe; sul
significato di questi semi esistono solo ipotesi, la più accreditata della
quali fa riferimento alla divisione della società in quattro classi:
commercianti, guerrieri, contadini e sacerdoti). I modi di giocare,
inizialmente molto semplici, cambiarono molto e si arricchirono in
continuazione, man mano che le carte diventavano un gioco apprezzato da un
pubblico sempre più vasto.
Alcuni
dei tarocchi creati da Antonio Cicognara e Bonifacio Bembo nel XV secolo per i
Visconti di Milano
I giochi erano ampiamente diffusi tra i
nobili: i testi medievali rappresentano spesso nobili intenti a sfidarsi nei
tornei o a giocare a scacchi, a dadi, a carte, alla pallacorda. Ma tutte le
classi sociali si dedicavano a questi e altri divertimenti: sia la borghesia,
che tendeva a imitare la nobiltà, sia il popolo. Normalmente si giocava con
uomini della stessa condizione sociale: era difficile che persone di classi
diverse giocassero insieme. Sicuramente gli uomini praticavano più delle donne
questi giochi, anche se le donne non ne erano escluse: ai giochi all’aperto,
che prevedevano scontri tra fazioni (per esempio tra quartieri di una città),
le donne partecipavano solo come spettatrici.
Di solito nel gioco c’era una posta, il
palio, che poteva essere una piccola somma di denaro, ma, nel caso di re e
nobili, poteva essere anche molto consistente.
Le autorità spesso intervennero per
proibire giochi e spettacoli: la Chiesa vietava i giochi da tavolo a tutti gli
ecclesiastici; alcuni re, come san Luigi di Francia, e Comuni misero fuori
legge diversi giochi, in particolare quello dei dadi. Tutti i giochi infatti
erano considerati perdite di tempo: per la Chiesa distraevano gli uomini dal
pensiero di Dio, per le autorità civili toglievano tempo alle attività utili.
Inoltre i giochi provocavano spesso liti e contrasti. Gli spettacoli come i
tornei o gli scontri a sassate erano ovviamente condannati per la violenza, ma
a volte anche per l’ostentazione di ricchezza che i cavalieri esibivano nei
tornei e nelle giostre. La condanna della Chiesa arrivò a negare la sepoltura
in terra consacrata al cavaliere che fosse morto durante un torneo. Queste
proibizioni ebbero però scarsa fortuna, come dimostra il fatto stesso che
vennero ripetute molte volte. Anche gli uomini di Chiesa si dedicavano spesso
al gioco, come mostrano numerose testimonianze.
Capolettera
miniato con un uomo che gioca a palla in un manoscritto del XIII secolo
Di fronte al fallimento di queste
proibizioni, le autorità civili decisero spesso di creare case da gioco che
controllavano e su cui imponevano pesanti tasse: il gioco divenne così un
sistema per finanziare lo Stato.
Per contro anche la Chiesa non aveva nulla
da ridire sui giocattoli per bambini, che spesso erano ritenuti oggetti
essenziali per il corretto sviluppo dell’infanzia e per l’educazione. Sono numerosissimi
i reperti archeologici di giocattoli di tutti i tipi: dalla bambola (per
entrambi i sessi), al fischietto, dal modello di mulino a vento alla barchetta
munita di un foro per legarci una corda così da poterla tirare in un fosso o un
canale, dal cavaliere in miniatura al cavallo-bastone con cui far finta di
galoppare, dai trampoli al carretto in legno da trascinare nel cortile della
fattoria. Perché i giocattoli si usavano in tutte le classi sociali.
Pieter
Bruegel il Vecchio, Giochi di fanciulli. Pur essendo del 1560, il dipinto rende
bene l’idea dei giochi fanciulleschi anche nel Medioevo
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