martedì 30 settembre 2014

31 Cultura, lingua, giochi e spettacoli nel Basso Medioevo

CULTURA, LINGUA, GIOCHI E SPETTACOLI NEL BASSO MEDIOEVO

Nell’Alto Medioevo la scuola pubblica, presente ai tempi dell’Impero Romano, aveva finito per scomparire in molte regioni ed erano invece nate scuole ecclesiastiche, situate vicino alle chiese, alle cattedrali e ai monasteri, fondate e controllate da sacerdoti, vescovi e abati; esse furono per secoli gli unici centri in cui si dava un’istruzione, sia pure a un numero molto ridotto di giovani.

Il monaco Esdra intento alla copiatura dei testi antichi nel suo studio, dotato di un largo scaffale per i codici (miniatura del secolo VII)

Nel Basso Medioevo vi fu una ripresa dell’istruzione, che si diffuse soprattutto nelle città. Le attività dei borghesi richiedevano infatti un certo livello di istruzione: un mercante o un artigiano doveva essere in grado di leggere, scrivere, fare i conti, tenere in ordine i libri contabili.
In tutte le città sorsero perciò scuole, di diverso tipo: vi erano scuole ecclesiastiche, come le scuole cattedrali, che ebbero un grande sviluppo, e quelle nate presso i monasteri nelle città, come le scuole domenicane; vi erano anche scuole private, aperte da maestri che accoglievano allievi a pagamento. Infine molti Comuni, per favorire lo sviluppo dell’istruzione, incominciarono a pagare i maestri e a dar loro una sede per insegnare: nacquero così le scuole pubbliche, assai frequentate nelle città più sviluppate.

Un chierico con i suoi allievi

Vi erano scuole di diversi livelli: scuole di tipo elementare, in cui si imparava a leggere, scrivere e contare; altre che fornivano una preparazione professionale ed erano riservate ai maschi; altre ancora di livello superiore. Tutte comunque erano frequentate soprattutto dai figli dei borghesi, perciò i salariati erano di solito analfabeti.
Nelle campagne l’analfabetismo rimase molto diffuso ovunque: solo una minoranza sapeva leggere e scrivere. Nell’ambiente rurale i bambini fin da piccoli aiutavano i genitori nei lavori dei campi, eseguendo i compiti più svariati, dalla raccolta di frutti nei boschi a lavori anche pesanti e pericolosi: non avevano certo la possibilità di istruirsi in una scuola. Così, come scrisse un medico del XIII secolo, i figli dei contadini nascevano bellissimi, ma nel giro di poco tempo, per il troppo lavoro e per la mancanza di igiene, diventavano brutti.
Il diffondersi dell’istruzione aumenta il numero di coloro che sanno scrivere: a volte si tratta semplicemente di persone semialfabete, cioè che sono in grado soltanto di tracciare con difficoltà il proprio nome, o qualche formula augurale di carattere sacro. Questo comporta che spesso troviamo sulle pareti delle chiese, in particolare su quelle dei santuari meta di pellegrinaggio, i nomi di chi in quel luogo si era recato e vi aveva lasciato la propria, anche se incerta, firma.
Per professioni come quella di medico o notaio era richiesta una preparazione molto vasta, che poteva essere raggiunta solo con lunghi anni di studio. A partire dall’XI secolo nacquero perciò le università (Bologna, Parigi, Oxford, Salerno), che furono i primi centri di studi superiori.

Uno studio notarile in un manoscritto del XIV secolo a Perugia

Le università nacquero come corporazioni di insegnanti o (nel caso ad esempio di Bologna) di studenti. Esse si formarono perché la condizione degli studenti (e spesso anche dei maestri), provenienti da altre città, non era sempre facile: la popolazione locale spesso mal tollerava la presenza di un gran numero di stranieri, con abitudini e comportamenti diversi; in ogni controversia i tribunali locali tendevano ad attribuire il torto agli studenti stranieri; i prezzi degli affitti erano molto alti e poteva essere difficile trovare una stanza. In questa situazione l’associarsi permetteva di difendersi meglio e dava molta più forza contrattuale, cioè una maggiore capacità di ottenere condizioni migliori: in caso di scontri con la popolazione o con l’autorità civile, un’università poteva anche decidere di trasferirsi in blocco.

Scene di vita studentesca nel Collegio dell’Ave Maria a Parigi (da un manoscritto del XIV secolo)

Le università furono favorite e controllate dai re, che avevano bisogno di funzionari in grado di amministrare i loro regni: il re di Francia ad esempio diede all’università di Parigi un regolamento nel 1215. Alcuni re fondarono anche università, come fece Federico II a Napoli (1224).
Le università finirono per diventare i principali centri culturali e alcune di esse raggiunsero grande fama, come Bologna per gli studi di diritto e Salerno per quelli di medicina: in esse studiavano giovani provenienti da tutta l’Europa.
All’università gli insegnanti, molti dei quali erano uomini di Chiesa, tenevano corsi di diritto canonico (ossia della Chiesa) e civile, teologia (studi religiosi), medicina e arti liberali: queste ultime comprendevano le sette discipline che costituivano la base degli studi letterari (grammatica, retorica, dialettica) e scientifici (aritmetica, geometria, astronomia, musica).

Raffigurazioni della Grammatica (a sinistra) e dell’Aritmetica in un affresco dell’inizio del XV secolo a Palazzo Trinci, Foligno

I corsi duravano molti anni, di solito da sei a dodici, ed erano basati sulla lettura di testi, in particolare opere greche e latine e commenti di teologi. Seguire un corso universitario, quindi, richiedeva molte spese: per procurarsi i manoscritti, rari e costosi; per i maestri, che occorreva pagare a ogni esame; per il vitto e l’alloggio, poiché molti studenti provenivano da altre città. I corsi universitari erano perciò frequentati solo dai giovani delle famiglie ricche.
Per gran parte del Medioevo, fino almeno al XIV secolo, molti testi venivano scritti per essere cantati o almeno cantilenati, di solito con accompagnamento di musiche. È il caso, ad esempio, delle poesie che ci hanno lasciato i trovatori, poeti medievali che scrivevano in provenzale, la lingua diffusa in un ampio territorio che andava dalla costa francese sull’Atlantico, alle Alpi e ai Pirenei, ma anche oltre: i loro testi erano in realtà canzoni, che gli autori cantavano accompagnandosi con uno strumento. Di alcune di queste poesie si sono conservati anche elementi di notazione musicale, che ci permettono di ricostruire il modo in cui venivano cantate. Anche i primi poemi epici, che narravano le gesta di eroi dell’antichità o dell’Alto Medioevo, erano destinati ad essere cantati e infatti venivano chiamati Chansons de geste (canzoni delle imprese).
Poiché poesie e poemi venivano recitati a memoria, i manoscritti servivano soprattutto come aiuto per ricordare.

Un suonatore di flauto e un giocoliere in una miniatura dell’XI secolo

Anche i testi in prosa erano di solito letti ad alta voce: i manoscritti (per i quali fino al XII secolo si usava la pergamena e solo dopo la carta, ma inizialmente con scarso successo, poiché era meno resistente della pergamena) erano rari e costosi e pochi potevano permettersi una biblioteca. La lettura avveniva perciò collettivamente: qualcuno leggeva ad alta voce, mentre gli altri ascoltavano. Si trattava spesso di un lettore di professione, esperto nell’arte di recitare, capace di sottolineare i momenti drammatici e di coinvolgere gli ascoltatori: queste letture ad alta voce avevano diversi elementi del teatro.
Le università, dove insegnavano i più importanti studiosi, contribuirono a un certo sviluppo culturale e scientifico nel Basso Medioevo, che avvenne dunque soprattutto a partire dal XII secolo.
Nei primi secoli (XII-XIII) lo sviluppo si basò principalmente sulla traduzione dei testi arabi: attraverso di essi in Europa si riscoprirono conoscenze greche e latine che erano andate perdute durante l’Alto Medioevo e che gli arabi avevano invece utilizzato e arricchito.
Questo determinò progressi in diverse scienze: l’astronomia, che spesso rimase legata all’astrologia (cioè lo studio degli effetti che, secondo alcuni, i pianeti e le costellazioni avrebbero sugli uomini e sugli avvenimenti); la matematica, con la diffusione delle cifre arabe (a cominciare dal X secolo, ma soprattutto dal XII) e la conoscenza, sempre grazie alle traduzioni dall'arabo, della geometria greca di Euclide (XII secolo); la medicina, sviluppata in Italia dalla scuola di Salerno.

Ippocrate e Galeno, grandi medici dell’antichità, in un affresco del Duomo di Anagni, a riprova dell’alto concetto in cui erano tenute nel Medioevo tali figure di scienziati

La lingua di cultura in tutta l’Europa occidentale continuò a essere il latino, ma esso era usato soprattutto per scrivere: solo poche persone con un’istruzione superiore lo usavano per discutere tra di loro. Il latino utilizzato nel Medioevo non rispettava sempre né la pronuncia, né la costruzione della frase latina e conteneva numerose parole prese dalle lingue locali, e quindi diverse da regione a regione. Vi erano perciò alcune differenze tra il latino usato ad esempio in Italia e quello usato in Inghilterra, ma esse non erano tanto grandi da rendere difficile la comprensione: in Europa il latino rimaneva una lingua universale, conosciuta ovunque da tutte le persone con un alto livello di istruzione. La Chiesa lo usava come unica lingua e nell’Europa occidentale la messa venne sempre recitata in latino.
Il popolo parlava altre lingue, derivate dal latino (nell’Europa sud-occidentale), dall’antico slavo (nell’Europa orientale) o dall’antico germanico (nell’Europa centro-settentrionale). Esse erano chiamate volgari (da volgo, cioè popolo) ed erano utilizzate anche dai sacerdoti nelle prediche, che altrimenti sarebbero state incomprensibili alla maggioranza dei fedeli. In Italia ad esempio dal latino si formarono i diversi dialetti italiani (come il toscano e il veneto, il siciliano e il calabrese), i dialetti sardi (che costituiscono una lingua a sé), il ladino-friulano e il ladino-dolomitico e, ai confini con l’attuale Francia, l’occitano e il franco-provenzale: tutte queste diverse lingue sono ancora oggi parlate.

Capolettera miniato con un mercante che scrive a una donna (manoscritto del 1385)

I volgari cominciarono ad essere scritti perlopiù solo dopo l’anno Mille, inizialmente per riportare testimonianze o nei testamenti, poi per le opere di poesia e infine per altri testi letterari. I testi scientifici e religiosi rimasero a lungo scritti solo in latino, ma tra i primi manoscritti in volgare, che comparvero in Europa tra il XII e il XIII secolo, vi erano molti testi biblici: traduzioni e adattamenti di alcuni libri della Bibbia, come il Cantico dei Cantici o i Salmi e anche romanzi in versi di argomento biblico, come il Romanzo di Dio e di sua madre, di Ermanno di Valenciennes.
A partire da Trecento alcuni volgari regionali si imposero sugli altri, divenendo i modelli delle lingue nazionali: in Francia si impose il francese di Parigi, che era la capitale dello Stato; in Italia il toscano di Firenze, che era la lingua usata dai più importanti scrittori italiano del secolo (Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio).

Miniatura del XV secolo per una novella dal Decameron (Tofano e Ghita) di Giovanni Boccaccio

La cultura di un popolo si esprime anche attraverso i suoi giochi e i suoi spettacoli: ad essi si dedicavano uomini e donne del Medioevo, esattamente come era avvenuto nell’Età antica, e di essi troviamo traccia nei poemi e nei racconti, nelle cronache e nei dipinti.
Tra gli spettacoli più noti e diffusi del Medioevo ci sono i combattimenti di cavalieri, che, con cavalli poderosi, armature sfavillanti e vestiti preziosi, si sfidano nei tornei (in campo aperto), nelle giostre (in campo chiuso e quindi più vicini agli spettatori), nell’anello (in cui si doveva centrare con la punta della lancia un anello sospeso) e nella quintana (consistente nel colpire con la lancia un bersaglio che gira su stesso, evitando il contraccolpo del braccio ruotante). Spettacoli che si diffondono in tutta Europa a partire dal XII secolo e che sono a volte estremamente pericolosi: nel 1239 in un torneo combattuto vicino a Colonia muoiono 60 cavalieri partecipanti, secondo altri cronisti addirittura 80.

Un torneo in Francia da Le Livre des Tournois (1488) appartenuto al re di Napoli Renato d’Angiò

Giochi violenti si diffondono nelle città già nell’XI secolo (ma erano praticati anche prima): è il caso degli scontri a sassate, che dilagano ovunque e si praticano per secoli. A Perugia un momento del “gioco” è addirittura riservato ai bambini. Altri scontri vengono effettuati con i pugni, o con i bastoni: è il caso del mazzascudo, in cui i partecipanti si affrontano con mazze di legno, protetti da scudi, anch’essi in legno, e da elmi metallici.
All’aperto vengono effettuati anche giochi con gli animali, non solo nella forma del palio con i cavalli, ma anche in vere e proprie partite di caccia da farsi in città: i tori sono i protagonisti principali di questo tipo di spettacolo (a metà del Duecento era già praticata a Venezia una caccia ai tori), ma altri animali vengono impiegati in numerosi Comuni italiani.

Una rievocazione ai giorni nostri degli scontri del mazzascudo a Pisa

Ampiamente usata era la palla, che serviva per giochi diversi: fin dal XII secolo nella Francia settentrionale e in Cornovaglia si giocava la soule, un mix di calcio e rugby, molto violento, che si poteva giocare anche tra duecento partecipanti. Veniva giocato in spazi che potevano includere anche fossati, ruscelli, boschi, stagni o zone paludose, infatti le cronache dell’epoca narrano che nel corso di una partita in Francia 40 uomini annegarono in una palude. Altrettanto violenti erano i giochi praticati dai Vichinghi, dai Britanni e dai Fiorentini, che nel XIII secolo inventarono il calcio fiorentino, disputato da due squadre di solito composte da 27 uomini e giocato ovunque fosse possibile (nell’inverno 1490 anche sull’Arno ghiacciato). Dal XIII secolo si cominciò a giocare a pallacorda (una specie di tennis), un gioco per cui vennero costruite vere e proprie sale e che cambiò nel tempo, divenendo via via più complesso.

Il gioco del calcio in Piazza Santa Maria Novella, dipinto di Giovanni Stradano del 1562-72

Tra i giochi da tavolo i dadi erano senza dubbio uno dei più diffusi e vantavano una lunga tradizione: già gli antichi Romani giocavano a dadi. Sappiamo che esistevano regole precise per la loro produzione: ad esempio che essi dovevano avere gli spigoli arrotondati e che non dovevano essere né troppo pesanti, né troppo leggeri, per evitare che si potesse imbrogliare. I dadi venivano usati per giochi molto diversi: variavano il numero di dadi usati, il numero di giocatori, l’obiettivo del gioco stesso, la durata della partita.
Gli scacchi arrivarono nell’Europa occidentale nel X secolo. Probabilmente furono introdotti dagli Arabi, ma potrebbero anche essere stati portati dai Variaghi (i Vichinghi che commerciavano in Russia). Inizialmente era un gioco per aristocratici, tanto che un letterato spagnolo vissuto attorno al 1100 scrive in un suo trattato che un nobile deve sapere, tra le altre cose, giocare a scacchi. I pezzi si modificarono nel tempo, adattandosi alla realtà europea: il carro divenne la torre, l’elefante diventò il giudice o il vescovo, per poi passare ad essere chiamato alfiere o matto, il visir divenne la regina. Le regole cambiarono anch’esse e assunsero la forma attuale solo alla fine del Medioevo. Le scacchiere che ci sono rimaste sono oggetti di grande valore, realizzate in materiali pregiati, ma il gioco non era diffuso solo tra la nobiltà e sono stati ritrovati anche pezzi intagliati nel legno.

Un cristiano e un musulmano giocano a scacchi sotto una tenda (miniatura del XIII secolo)

Le carte da gioco arrivarono solo nel XIV secolo e non sappiamo quale sia la loro origine. Inizialmente erano usate solo dalle classi superiori e ci sono rimasti mazzi di carte molto raffinati, come i tarocchi dei Visconti (l’invenzione quattrocentesca dei tarocchi è discussa: forse sono stati proprio i Visconti di Milano, oppure gli Este di Ferrara), ma con il tempo il loro uso si diffuse anche nelle classi sociali inferiori; le carte medioevali erano più lunghe e meno larghe delle carte che si usano oggi e ne esistevano forme molto diverse. I simboli francesi (cuori, picche, quadri, fiori) finirono per imporsi sugli altri (denari, spade, bastoni, coppe; sul significato di questi semi esistono solo ipotesi, la più accreditata della quali fa riferimento alla divisione della società in quattro classi: commercianti, guerrieri, contadini e sacerdoti). I modi di giocare, inizialmente molto semplici, cambiarono molto e si arricchirono in continuazione, man mano che le carte diventavano un gioco apprezzato da un pubblico sempre più vasto.

Alcuni dei tarocchi creati da Antonio Cicognara e Bonifacio Bembo nel XV secolo per i Visconti di Milano

I giochi erano ampiamente diffusi tra i nobili: i testi medievali rappresentano spesso nobili intenti a sfidarsi nei tornei o a giocare a scacchi, a dadi, a carte, alla pallacorda. Ma tutte le classi sociali si dedicavano a questi e altri divertimenti: sia la borghesia, che tendeva a imitare la nobiltà, sia il popolo. Normalmente si giocava con uomini della stessa condizione sociale: era difficile che persone di classi diverse giocassero insieme. Sicuramente gli uomini praticavano più delle donne questi giochi, anche se le donne non ne erano escluse: ai giochi all’aperto, che prevedevano scontri tra fazioni (per esempio tra quartieri di una città), le donne partecipavano solo come spettatrici.
Di solito nel gioco c’era una posta, il palio, che poteva essere una piccola somma di denaro, ma, nel caso di re e nobili, poteva essere anche molto consistente.
Le autorità spesso intervennero per proibire giochi e spettacoli: la Chiesa vietava i giochi da tavolo a tutti gli ecclesiastici; alcuni re, come san Luigi di Francia, e Comuni misero fuori legge diversi giochi, in particolare quello dei dadi. Tutti i giochi infatti erano considerati perdite di tempo: per la Chiesa distraevano gli uomini dal pensiero di Dio, per le autorità civili toglievano tempo alle attività utili. Inoltre i giochi provocavano spesso liti e contrasti. Gli spettacoli come i tornei o gli scontri a sassate erano ovviamente condannati per la violenza, ma a volte anche per l’ostentazione di ricchezza che i cavalieri esibivano nei tornei e nelle giostre. La condanna della Chiesa arrivò a negare la sepoltura in terra consacrata al cavaliere che fosse morto durante un torneo. Queste proibizioni ebbero però scarsa fortuna, come dimostra il fatto stesso che vennero ripetute molte volte. Anche gli uomini di Chiesa si dedicavano spesso al gioco, come mostrano numerose testimonianze.

Capolettera miniato con un uomo che gioca a palla in un manoscritto del XIII secolo

Di fronte al fallimento di queste proibizioni, le autorità civili decisero spesso di creare case da gioco che controllavano e su cui imponevano pesanti tasse: il gioco divenne così un sistema per finanziare lo Stato.
Per contro anche la Chiesa non aveva nulla da ridire sui giocattoli per bambini, che spesso erano ritenuti oggetti essenziali per il corretto sviluppo dell’infanzia e per l’educazione. Sono numerosissimi i reperti archeologici di giocattoli di tutti i tipi: dalla bambola (per entrambi i sessi), al fischietto, dal modello di mulino a vento alla barchetta munita di un foro per legarci una corda così da poterla tirare in un fosso o un canale, dal cavaliere in miniatura al cavallo-bastone con cui far finta di galoppare, dai trampoli al carretto in legno da trascinare nel cortile della fattoria. Perché i giocattoli si usavano in tutte le classi sociali.

Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di fanciulli. Pur essendo del 1560, il dipinto rende bene l’idea dei giochi fanciulleschi anche nel Medioevo

APPROFONDIMENTI (li trovi nella barra a destra):
- Sport nel Medioevo: gli antenati del calcio
- Sport nel Medioevo: il golf (e il polo)
- Sport nel Medioevo: il tennis




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