IL VIAGGIO DI MARCO POLO
La Via della Seta, che permetteva ai
commercianti europei più intraprendenti di giungere nell’Asia centro-orientale
per procurarsi merci preziose richieste dalle classi sociali più elevate, era
stata interrotta o resa più difficile dalla presenza di varie popolazioni
sempre in guerra. La conquista dei Mongoli di Gengis Khan delle terre
attraversate da questa rotta mercantile portò alla ripresa dei traffici
commerciali: i Mongoli, infatti, si mostrarono favorevoli ai commerci ed erano
più tolleranti nei confronti degli stranieri, di qualunque religione essi
fossero, rispetto ai Turchi che dominavano sul tratto iniziale del percorso.
Così gli europei cercarono di aggirare l’ostacolo rappresentato dai Turchi,
passando più a nord.
Dapprima la strada dell’Asia fu aperta dai
missionari, inviati dai pontefici desiderosi di conoscere le genti che vi
vivevano ed eventualmente di convertirli al Cristianesimo; missionari come
Giovanni da Pian del Carpine, un frate francescano che nel 1246 giunse fino a
Karakorum, in Mongolia, e che al suo ritorno in Europa scrisse una Storia dei Mongoli, che contribuì a
creare un’immagine favorevole de Mongoli e del meraviglioso oriente.
Missionari
francescani in Cina
Poi sulla Via della seta si misero i
mercanti, in particolare i Veneziani, che già nell’Alto Medioevo avevano fatto
della loro città un importante centro di traffici commerciali tra oriente e
occidente. I Veneziani commerciavano merci di ogni tipo: sale e generi
alimentari come grano, vino e olio; prodotti di lusso provenienti dall’Asia
(seta, avorio, spezie) e destinati a nobili, vescovi e abati dell’Europa
occidentale; materie prime (ferro, legname) e schiavi provenienti dall’Europa
occidentale e venduti sui mercati dell’Impero Bizantino e dei paesi arabi.
La
riva degli Schiavoni a Venezia (dipinto di Leandro Bassano)
I Veneziani erano formalmente sotto
dominio bizantino, ma Bisanzio non era in grado di controllare i suoi
possedimenti italiani e Venezia finì per diventare una città indipendente:
aveva un proprio capo politico e militare (il doge), che governava con un
Consiglio, di cui facevano parte i membri delle famiglie più potenti.
All’inizio del Basso Medioevo la ricchezza
di Venezia aumentò: la città godeva di forti privilegi nell’Impero Bizantino,
tra cui quello di non pagare a Bisanzio e in altri porti bizantini le tasse
sulle merci, in cambio dell’aiuto prestato dalla flotta veneziana agli
imperatori d’Oriente. Così la città lagunare fondò basi commerciali e conquistò
terre lungo le coste dell’Adriatico (Istria, Dalmazia) e del Mediterraneo
(Creta e altre isole); più tardi (XIV-XV secolo) estese i suoi domini
nell’entroterra italiano.
Veduta
di Venezia in una miniatura del Libro del Gran Khan, titolo del codice
dell’opera di Marco Polo conservato alla Bodleian Library di Oxford
All’interno della città i contrasti furono
meno forti rispetto a quanto avveniva altrove, perché le famiglie dei ricchi
mercanti riuscirono a escludere dal potere gli altri cittadini, approvando
leggi che limitavano la possibilità di entrare nel Gran Consiglio a chiunque
non facesse parte delle famiglie già presenti in esso (Serrata del Gran
Consiglio, 1297).
Ritratto
di Marco Polo da giovane in un’edizione de Il Milione pubblicata a Norimberga nel 1477
Tra i mercanti veneziani vi erano i
fratelli Matteo e Niccolò Polo, dediti a frequenti traffici con l’Oriente. Nel
1261, partiti dalla Crimea, raggiunsero il basso corso del Volga e si spinsero
fino alla corte del gran khan Kubilai in Cina. Rientrati a Venezia nel 1269,
ripartirono per l’Oriente nel novembre 1272, portando con sé il figlio di
Niccolò, Marco, che aveva 17 anni: non era un’eccezione, a quell’epoca,
portarsi dietro un ragazzo, anche se il viaggio era pericoloso, poiché
l’esperienza diretta forniva ai figli un’educazione commerciale fondamentale.
I Polo
in viaggio con una carovana di cammelli (dall’Atlante catalano del 1375)
Dopo un viaggio di 30 mesi attraverso
l’Anatolia, la Mesopotamia, la Persia, il Pamir, il Turkestan Orientale e il
deserto del Gobi, giunsero a Khanbalik (la “Città del Khan”, ossia Pechino),
recando doni e messaggi da parte di papa Gregorio IX.
Niccolò
e Matteo Polo consegnano al gran khan i doni del papa (dal Livre des Merveilles
du Monde, XV secolo)
Conquistata la fiducia del gran khan Kubilai,
il giovane Marco svolse importanti missioni diplomatiche e commerciali, che gli
permisero di conoscere gran parte dell’Oriente, studiandone nei particolari i
costumi e le civiltà.
I
festeggiamenti offerti dal gran khan a Khanbalik (dal Livre des Merveilles du
Monde, XV secolo)
Marco Polo fu subito colpito dalla
differenza esistente tra le città europee e quelle cinesi: se in Europa le
città contavano soltanto alcune migliaia di abitanti e, escluse le cattedrali e
i palazzi dell’autorità pubblica, non vi erano edifici monumentali, in Cina i
centri urbani arrivavano anche a milioni di persone, che vivevano fra giardini
stupendi e deliziose pagode. Khanbalik era sfolgorante e meravigliosa: Kubilai
ne aveva fatto il simbolo della potenza imperiale, impiegando somme enormi e
quantità esorbitanti di contadini, tolti alla terra e costretti a lavori
forzati per l’abbellimento della capitale. Marco Polo rimase abbagliato
dall’impianto urbanistico regolare della città, traboccante di quartieri per
artigiani e mercanti, di complessi religiosi e zone residenziali, di vaste e
superbe architetture che sovrastavano le porte cittadine. La ricchezza della
capitale attraeva ogni giorno frotte di commercianti e tonnellate di mercanzie:
perle, gioielli, sete per le fabbriche di tessuti, generi di consumo di ogni
specie. Merce che veniva pagata con banconote di vario taglio, garantite dal
sigillo di Kubilai ed emesse dalla banca imperiale, fatte con materiale lavorato
dalla corteccia del gelso.
Miniatura
dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)
Oltre a Pechino, Marco Polo visitò altre
città cinesi. Come Hangzhou (o Quinsai), innervata di strade e canali che
scorrevano fra più di un milione e mezzo di case e ville, che avevano giardini
fiabeschi e statue e sculture deliziose, e che sorgevano tra templi sontuosi e
monasteri imponenti. I viali di Hangzhou disponevano di un congegno di
drenaggio delle acque piovane e luccicavano per le pietre e i mattoni con cui
erano lastricati. Nei quartieri dei medici e degli astrologi si insegnava a
leggere e scrivere; in ogni piazza si poteva trovare qualunque mercanzia
(verdura e frutta, pesche gialle e bianche, pere, riso, spezie, particolarmente
il pepe, carni di capriolo, cervo, daino, lepre, coniglio, pernice, fagiano,
anatra, oca, capponi, pollame di ogni tipo e anche cane); nelle macellerie si
reperivano tranci di vitello, bue, capretto e agnello e nelle pescherie pesci
di mare e di lago, ingrassati dall’immondizia metropolitana gettata in acqua.
Al pianoterra degli edifici sorgevano gioiellerie, vinerie e drogherie, mentre
ai piani alti si trovavano le dimore di persone pacifiche ed educate, prive di
invidie, rispettose delle donne.
Miniatura
dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)
Tutto sembrava perfetto e ordinato, ma a
Marco Polo non sfuggì l’odio, sommesso però generalizzato, che si poteva
leggere negli occhi delle persone, soprattutto quando per strada incrociavano
le sentinelle e i soldati mongoli, ritenuti degli intrusi, degli occupanti
illeciti, che avevano privato i Cinesi della loro legittima dinastia.
Viaggiando in lungo e in largo per le
province cinesi, Marco Polo memorizzò tutto quanto lo colpì, in positivo e in
negativo, di luoghi e persone: il sistema viario perfettamente organizzato, con
le stazioni, dislocate a distanze regolari, per il riposo dei viandanti e il
cambio della cavalcature. I collegamenti fluviali, necessari per percorrere le
enormi distanze dell’impero, costruiti anch’essi ricorrendo al lavoro forzato
di milioni di Cinesi, come il “Grande Canale” costruito tra il VI e il VII
secolo, ma rimaneggiato tra XIII e XIV, che con i suoi 1794 chilometri di
lunghezza collegava Pechino a Hangzhou ed era il corso artificiale più lungo
del pianeta. E ancora le giravolte delle fontane, o i 15 chilometri di un
viadotto adorno di statue leonine e di balaustre finemente scolpite, su cui
potevano transitare dieci cavalli affiancati, o le case e le botteghe in legno
costruite sui ponti che scavalcavano i grandi corsi d’acqua, come il Fiume
Azzurro.
Miniatura
dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)
Vide regioni ricche di garofano aromatico
e di cannella, di zenzero e di pesci lacustri, di perle pescate nei laghi, di
turchese estratto dalle montagne, di coccodrilli che infestavano le paludi, ma
da cui si estraeva un fiele ritenuto efficace per curare i morsi dei cani, le
malattie dei bambini e le difficoltà delle puerpere nel partorire.
Conobbe popolazioni che avevano l’usanza
di decorare la dentatura inferiore e superiore con un rivestimento dorato.
Conobbe la morigeratezza delle Cinesi di buona famiglia, che non partecipavano
a feste e balli, evitavano le baldorie e i discorsi spinti, non parlavano mai a
sproposito e uscivano di tanto in tanto (per andare a pregare nel tempio o in
visita ai parenti) accompagnate solo dalle madri e sempre con lo sguardo basso.
Ma conobbe anche mariti o padri che offrivano per un incontro sessuale le mogli
e le figlie agli stranieri di passaggio, perché ciò avrebbe aumentato i
raccolti e portato felicità nelle famiglie; o genti che consideravano adatta al
matrimonio quella ragazza che avesse avuto più rapporti sessuali; o dame di
piacere, che si riconoscevano di lontano per i profumi intensi che usavano e
che, colte ed esperte, intrattenevano i clienti non solo con carezze e
lusinghe, ma anche con parole adatte a ciascun uomo.
Marco
Polo ritratto da Giovanni Antonio da Varese in una sala di Palazzo Farnese a
Caprarola (XVI secolo)
Nel 1290, quindici anni dopo il loro
arrivo a Khanbalik, i Polo decisero che era giunto il momento del rimpatrio.
Chiedere al gran khan il congedo, prima che egli lo avesse decretato, era
rischioso, perché il sovrano poteva offendersi e reagire anche con il taglio
della testa. Perciò bisognava che si offrisse un’occasione propizia e questa
venne nel 1291, quando Kubilai chiese ai Polo di accompagnare la principessa
Kokacin in sposa a un re persiano, che voleva imparentarsi con il gran khan.
I
fratelli Polo ricevono dal gran khan una tavola d’oro come salvacondotto per il
loro viaggio di ritorno
Nel 1292 i Polo salparono dal porto di
Quanzhou con 14 navi e, approdati dopo 18 mesi di navigazione in Persia,
consegnarono la principessa non al re che l’aveva richiesta, dato che nel
frattempo era morto, ma al suo successore.
I
Polo arrivano a Hormuz, nel Golfo Persico (dal Livre des Merveilles du Monde,
XV secolo)
I Polo soggiornarono in Persia fino al
febbraio 1294, poi ripartirono per Venezia, passando per via terra da
Trebisonda sul Mar Nero, Costantinopoli e Negroponte, cioè l’isola greca di
Eubea. Giunsero a casa nel 1295, dopo quattro anni di viaggio e diciassette
passati in territori lontanissimi. Si raccontava (ma è una pura leggenda), che
quando giunsero nella città lagunare, dove tutti li credevano morti da tempo,
fossero vestiti di stracci e dall’andatura e dall’aspetto somigliassero a dei
Tartari, cioè a dei Mongoli: nemmeno i familiari credevano alle loro storie,
finché, invitati a un banchetto, i tre mercanti non si presentarono
magnificamente vestiti con abiti di raso, damasco e velluto, e Marco fece
cadere dagli stracci che indossava all’arrivo una grande quantità di pietre
preziose.
L’isola
al largo di Quesmaturan, abitata nel racconto di Marco Polo solo da uomini
impegnati a commerciare (dal Livre des Merveilles du Monde)
Nella realtà la fortuna dei Polo era più
modesta di quanto si cominciò a favoleggiare, sebbene la famiglia sia andata ad
abitare in una casa (di cui non resta traccia) vicino al Ponte di Rialto, nel
cuore della città: da alcuni documenti sappiamo che era una grande casa a più
piani, con un grande “portego” (ossia un salone), dodici stanze, una cucina e,
nel cortile, un pozzo e una latrina, utilizzati in comune.
Matteo e Niccolò vissero ancora qualche
anno (morirono entrambi nei primi anni del Trecento, secondo altre fonti
Niccolò morì prima del 1300), mentre Marco sposò la nobildonna Donata Badoer,
da cui ebbe tre figlie, e proseguì per molti anni l’attività mercantile.
Pochi anni dopo il suo ritorno fu
catturato in uno degli scontri navali tra Venezia e Genova, frequenti in quegli
anni, e venne rinchiuso nelle carceri genovesi, da cui uscì nel 1299. Nei mesi
di prigionia dettò a Rustichello da Pisa, un letterato compagno di carcere, il
libro che noi oggi chiamiamo Il Milione,
ma che nei codici più antichi ha altri titoli, come La descrizione del mondo, o simili.
Miniatura
dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)
Il libro è in parte una descrizione
geografica dei luoghi visitati da Marco, in parte un resoconto storico. Procede
con una impostazione oggettiva e reale, ma anche fresca e vivace, che mostra
concretamente le novità e le meraviglie viste o apprese da marco in quell’Asia,
che i suoi contemporanei popolavano di mostri e di portenti.
Miniatura
dal Livre des Merveilles du Monde (XV secolo)
Rustichello scrisse i ricordi di Marco
nella lingua d’oil, un francese antico che non solo vantava un’illustre
tradizione letteraria, ma che era anche la parlata più diffusa allora e
permetteva di raggiungere un pubblico internazionale, vasto e diversificato. Il
libro ebbe una fortuna eccezionale, soprattutto presso i mercanti e gli
scienziati (geografi, cartografi, etnologi); venne divulgato e riassunto in
molti modi e in molte lingue (latino, toscano, veneto e così via), a
testimonianza del suo successo. Il testo originario è andato perduto e noi oggi
non sappiamo come fosse, dato che gli oltre 130 codici che ce lo tramandano
sono molto diversi uno dall’altro; sappiamo però che è una mirabile sintesi di
scienza e di avventura umana, tra le più significative della civiltà del
Medioevo.
Marco Polo morì nella sua casa veneziana
l'8 gennaio del 1324 all'età di quasi settant'anni.
Ritratto
di Marco Polo da vecchio
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