mercoledì 25 ottobre 2017

98 La decolonizzazione


Con il termine decolonizzazione s’intende l’indipendenza di quegli Stati che nel corso degli ultimi secoli avevano prima subito la penetrazione economica europea nei loro territori e poi erano divenuti (soprattutto nell’Ottocento) colonie, ossia possedimenti veri e propri governati da una madrepatria, per lo più europea: Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Portogallo, Italia.
Fu un fenomeno assai complesso, iniziato dopo la Seconda guerra mondiale e terminato nel 1999, con la restituzione alla Cina di Macao, l’ultimo dominio coloniale portoghese in Asia; un fenomeno che si svolse in maniera diversa nei vari paesi e che, perciò, andrebbe analizzato caso per caso. In questa sede non è possibile farlo; mi limiterò ad alcune caratteristiche generali del fenomeno.
Vediamo anzitutto le tappe dell’indipendenza dei principali territori.


Già prima della Seconda guerra mondiale alcuni popoli sottomessi si erano organizzati per esigere l’indipendenza, prima spinti dalle ideologie nazionaliste, quindi da quelle marxiste; ma solo al termine del secondo conflitto mondiale le condizioni erano favorevoli all’indipendenza. In Asia sud-orientale, in particolare, l’invasione giapponese negli anni della guerra aveva creato un generale sentimento di rifiuto per il ritorno al dominio straniero, sia pure quello dei paesi occidentali. Ma poiché gli Stati europei cercarono di imporre il loro dominio con la forza, le popolazioni sottomesse risposero con guerre di liberazione, come nell’Indocina francese (1945-1954), che provocò 450.000 morti, o in Indonesia, dove Akmed Sukarno, il “padre” della nazione indonesiana, ottenne l’indipendenza dall’Olanda, proclamata nel 1945 ma ottenuta di fatto nel 1949.

Prigionieri di guerra francesi, scortati da guardie vietminh, lasciano la zona di Dien Bien Phu, dove nel 1954 si combatté una battaglia decisiva nella guerra d’Indocina

Dopo la Seconda guerra mondiale, inoltre, sia le due grandi potenze (USA e URSS), sia l’ONU si opponevano al colonialismo, che veniva criticato da molti anche negli Stati europei, sia per motivazioni morali, sia per le difficoltà economiche a mantenere le colonie: lo sviluppo delle colonie richiedeva grandi fondi e poiché questi non c’erano, le colonie erano considerate più che altro un peso economico. Perciò numerose colonie, in Asia e soprattutto in Africa (nel decennio 1956-1966), ottennero l’indipendenza pacificamente, attraverso negoziati, cioè trattative diplomatiche.

L’arco che celebra l’indipendenza del Ghana nella capitale Accra

Soltanto dove la popolazione di origine europea era molto numerosa vi furono ancora guerre di liberazione, perché i coloni si opponevano all’indipendenza: ciò accadde, ad esempio, in Kenya, in Algeria, in Madagascar, nello Zaire, nell’Africa meridionale.
In Kenya si formò il movimento clandestino dei Mau-Mau, guidato da Jomo Kenyatta (della tribù dei Kikuyu) a cui aderirono i leader di altre etnie locali, che attraverso la guerriglia e atti terroristici ostacolò il governo britannico a lungo, fino a che il movimento venne represso nel sangue.

Jomo Kenyatta in una foto del 1963 e nella statua che gli è stata dedicata a Nairobi

L’opposizione dei coloni francesi (e dei partiti di destra) all’indipendenza algerina provocò la lunga guerra d’Algeria (1954-1962). In Madagascar una rivolta viene repressa nel sangue nel 1955.

21 marzo 1962: algerini esultano per l’ottenimento dell’indipendenza

In Sudafrica, in Rhodesia (oggi Zimbabwe) e in Namibia, la minoranza di origine europea mantenne a lungo il potere, per mezzo di una legislazione di segregazione territoriale e razziale, che ebbe nell’apartheid sudafricana l’esempio più conosciuto. Apartheid (che è un termine della lingua afrikaans e significa “separazione”) designa una politica basata sul principio razzista della superiorità dei bianchi; essa riservava a costoro il controllo delle posizioni di potere politico ed economico, mentre la popolazione di colore veniva esclusa dai diritti politici e civili. Inoltre stabiliva la rigida separazione (nei luoghi pubblici, nelle scuole, nei mezzi di trasporto, nelle sale d’attesa, nelle spiagge, ecc.) tra tutte le diverse comunità razziali esistenti; in Sudafrica, in particolare, la separazione avveniva tra il 10% circa dei bianchi, il 75% di neri bantu e le altre comunità, costituite da asiatici e meticci.

Un cartello in 3 lingue annuncia che la spiaggia di Durban (Sudafrica) è riservata solo alle persone di razza bianca (foto del 1989)

La separazione era anche di tipo territoriale: a ciascun gruppo razziale furono assegnate aree ben delimitate; per circolare fuori di esse era necessario un lasciapassare; nelle aree urbane si formarono quartieri ghetto, vere riserve di manodopera proletaria priva di qualsiasi tutela.

Giovani minatori in Sudafrica nel 1988

In Sudafrica il regime di apartheid resistette fino al 1989 (formalmente fino al 1994), quando il presidente F. W. De Klerk fece i primi passi per uscire da una situazione che era ormai internazionalmente condannata: nel 1990 venne scarcerato Nelson Mandela, il leader del partito ANC (African National Congress), condannato alla prigione fin dal 1964.

Nelson Mandela (1918-2013)

Nel decenni della decolonizzazione una data importante è il 1955. In quell’anno a Bandung (in Indonesia) si tenne una Conferenza, di cui furono protagonisti la Cina, l’India, l’Indonesia e l’Egitto. Questi Stati e gli altri 25 che parteciparono alla Conferenza proclamarono la necessità di creare un’unità del mondo afro-asiatico, affinché ogni Paese potesse superare le proprie debolezze, affermare la propria personalità, difendere i propri interessi e non quelli dei paesi dominanti, essere liberi di scegliere i propri amici e alleati internazionali. La posizione emersa a Bandung viene chiamata del “non-allineamento” e divenne la bandiera della maggior parte degli Stati del Terzo mondo: questa posizione condannava tutte le forme di oppressione coloniale (nel Manifesto programmatico della Conferenza si legge che «il colonialismo in tutte le sue manifestazioni è un male a cui si deve porre fine al più presto» e che  «la dominazione e lo sfruttamento sono in contraddizione con la carta delle Nazioni Unite e sono di ostacolo allo sviluppo della pace e della cooperazione mondiale») e proponeva i Paesi non allineati come un nuovo soggetto della politica internazionale, distinto dai blocchi che si erano riuniti intorno a Usa e URSS.

Da sinistra: Shri Jawaharlal Nehru (India), Kwame Nkrumah (Ghana), Gamal Abdel Nasser (Egitto), Sukarno (Indonesia) e Josip Broz Tito (Jugoslavia); 5 leader della Conferenza di Bandung

Il non-allineamento non fu mai accettato di buon grado dagli Stati Uniti, che vi vedevano l’espandersi dell’influenza comunista o comunque di ideologie sovversive, contrarie ai propri interessi. Per questo si accrebbe l’attivismo – ufficiale e ufficioso – di varie agenzie americane governative o non governative, che elaborarono programmi rivolti a settori politici, economici e sociali dei Paesi del terzo Mondo che avevano intrapreso la strada della colonizzazione.

Chou En-lai (capo di governo cinese e capo della delegazione cinese a Bandung) e Dwight Eisenhower (presidente americano al tempo della Conferenza)

Se è complesso il fenomeno della decolonizzazione, non fu semplice il quadro che emerse in seguito alla conquista dell’indipendenza delle ex colonie. In estrema sintesi si può che:
1- la decolonizzazione non portò sempre alla formazione di nuovi Stati pacificati e democratici;
2- la fine del colonialismo ottocentesco dà origine a una nuova forma di colonialismo, detta neo-colonialismo;
3- si manifesta chiaramente il problema del sottosviluppo, causato dal colonialismo e divenuto anche dopo la decolonizzazione un grave limite per la crescita delle ex colonie, in particolare quelle africane.

Marcia a Washington per il primo African Liberation Day (1972): come per tanti altri fatti della storia recente, anche per i problemi della decolonizzazione l’opinione pubblica mondiale riuscì a suscitare dibattiti e interventi governativi

Per quanto riguardo il primo punto, le motivazioni furono molteplici. I nuovi Stati nati in Africa e in Asia avevano confini che non rispettavano le differenze nazionali, poiché erano il retaggio degli interessi coloniali europei e seguivano ancora le divisioni astratte fatte nell’Ottocento (ad esempio nel Congresso di Berlino del 1884-1885), quando l’Europa aveva consolidato il possesso dei territori africani e asiatici.
Vi furono di conseguenza nuove guerre per il possesso di territori rivendicati da più Stati o per confini non definiti.
Uno dei principali fu quello, tuttora irrisolto, tra India e Pakistan, i due Stati nati nel 1947 dalla colonia inglese dell’India: il Pakistan riunì le regioni a maggioranza musulmana, l’India quelle a maggioranza induista. Vi fu però un conflitto per il controllo del Kashmir, una regione abitata in prevalenza da musulmani, ma il cui maharajah (sovrano) scelse l’unione all’India. Dalla guerra del 1947 l’India controlla la parte meridionale, più fertile, del Kashmir, il Pakistan quello settentrionale. Entrambi gli Stati però rivendicano il possesso di tutta la regione e tale contrasto portò ad altre due guerre (1965 e 1971).

Ancor oggi il Kashmir è soggetto a tensioni, che sfociano periodicamente in scontri e tafferugli per le strade della regione pattugliate dalla polizia

Altre guerre interne ai nuovi Stati nati dalla decolonizzazione furono provocate dagli interessi economici degli Stati europei o degli Usa: fu ad esempio il caso della ribellione del Katanga, la regione del Congo più ricca di risorse minerarie (1960-1963), che portò all’assassinio di Patrice Lumumba, il primo ministro democraticamente eletto del Congo belga che aveva da poco ottenuto l’indipendenza. Lumumba venne ucciso da mercenari bianchi e il nuovo Stato passò nelle mani del generale Mobutu, sostenuto da Belgio e Usa, dando vita a una dittatura che gli permise di arricchirsi enormemente con denaro dello Stato e di calpestare tutti i diritti umani nel suo Paese, che volle ribattezzare Zaire.

A sinistra Patrice Lumumba poco prima di essere ucciso dai secessionisti del Katanga; a destra Mobutu. Il primo è divenuto eroe nazionale e simbolo universale di libertà, il secondo archetipo del dittatore africano

Un altro elemento importante nei postumi della decolonizzazione fu il fatto che essa produsse in alcuni casi delle spietate dittature militari o civili, spesso sul modello degli Stati comunisti, o proprio in opposizione ai modelli comunisti che si cercava di instaurare. Ad esempio in Indonesia, dove il capo carismatico della lotta per l’indipendenza Akmed Sukarno, sempre più legato al Partito comunista locale, e per questo avversato dagli Stati Uniti, non riuscì a controllare l’opposizione delle forze armate, che nel 1965 compirono un colpo di Stato militare, guidate dal generale Suharto, cui seguì una sanguinosa repressione contro i comunisti e la minoranza cinese, che provocò più di 500.000 vittime.
O, per fare un altro esempio, in Cambogia, legata alla Cina, dove i Khmer rossi, guidati da Pol Pot, instaurarono un regime apertamente terroristico, responsabile del genocidio di alcuni milioni di cambogiani (il numero esatto è sconosciuto, ma secondo alcuni si arriva sino a 3.300.000 persone), in nome di un comunismo «puro e duro», che avrebbe dovuto dar vita a una società di uguali e felici su questa terra.

Il genocida Pol Pot e una dei milioni di vittime dei khmer rossi in Cambogia

Per quanto riguarda il secondo punto più sopra indicato, cioè la nascita di quello che viene chiamato neocolonialismo, va detto che la fine del dominio formale delle potenze europee o di quella statunitense negli Stati africani e asiatici comportò dei nuovi legami di subordinazione, che vedevano le ricchezze nazionali ancora sfruttate a vantaggio del capitalismo europeo-americano o di una ristretta classe dominante locale, legata (mediante corruzione e alleanze militari) al capitalismo delle ex metropoli coloniali.

Una vignetta satirica inglese sul neocolonialismo

Infine, la decolonizzazione rese evidente un concetto e un fatto, quello del sottosviluppo, che interessò (e ancora interessa) soprattutto l’Africa. Il sottosviluppo non è solo povertà economica, ma anche incapacità di controllare i fenomeni nuovi che si registrano dopo il secondo conflitto mondiale: l’apertura delle economie dei vari paesi al commercio internazionale e agli investimenti stranieri, il forte inurbamento, la gestione del potere da parte di ristrette classi locali, pronte a farsi corrompere e a chiedere di essere corrotte.
Così, per descrivere il sottosviluppo si usano questi elementi: la bassa produttività agricola e industriale, l’esiguo reddito pro capite, il forte incremento demografico, gli alti indici di mortalità infantile, deficit alimentare, debito estero, analfabetismo, la carenza di servizi e infrastrutture, la dipendenza dalle esportazioni di materie prime. Tant’è che se per misurare il grado di sviluppo di uno Stato si usava inizialmente il PIL (prodotto interno lordo), dal 1990 si è passati all’indice di sviluppo umano (ISU, o HDI, acronimo per Human Development Index), che tiene conto della media del PIL pro capite (espresso in «dollari internazionali», cioè in termini di parità di potere d’acquisto), della speranza di vita alla nascita e del livello medio d’istruzione.

Rifugiati congolesi in Burundi (2012): le condizioni di sottosviluppo in cui versano ancora numerose popolazione africane, sono la causa di gravi problemi che segnano il nostro tempo






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