martedì 27 dicembre 2016

85 Trionfo e crisi dell'economia di mercato

TRIONFO E CRISI DELL’ECONOMIA DI MERCATO

Dopo la guerra si ebbe una lenta ripresa economica, che divenne molto intensa tra il 1925 e il 1929. La ripresa accentuò le differenze esistenti all’interno dell’economia mondiale: gli USA, alcuni Paesi dell’Europa occidentale e il Giappone, che avevano già una solida base industriale, si svilupparono a un ritmo assai più rapido degli altri Paesi.

Un dirigibile Zeppelin vola su New York nel 1924: per gli USA sono anni di grande prosperità

In particolare lo sviluppo riguardò gli Stati Uniti: già nel 1914 essi erano la prima potenza economica mondiale e dopo la Grande Guerra il loro peso nell’economia e nella politica internazionali divenne tale da determinare gli avvenimenti storici futuri. I notevoli prestiti effettuati dagli USA agli Stati dell’Intesa durante il conflitto (più di 10 milioni di dollari, di cui 4.277 all’Inghilterra, 3.404 alla Francia, 1.648 all’Italia) ritornarono in patria, generando ingenti profitti che furono utilizzati per nuovi investimenti in America latina, in Canada e in Europa. Il reddito nazionale americano, che nel 1914 era di 33 miliardi di dollari, crebbe fino agli 87 miliardi del 1929; la produzione di elettricità e di acciaio raddoppiò, quella del petrolio crebbe dell’80%; l’aumento maggiore fu quello dei beni di consumo durevoli, come le auto, le case, i frigoriferi, gli apparecchi radio. Ciò nonostante la miseria era ancora presente in vasti strati della popolazione: neri, bianchi poveri del sud, disoccupati, abitanti dei bassifondi delle grandi città e, in parte, anche contadini delle pianure centrali.

Due francobolli tedeschi del 1939 commemorano il salone internazionale dell’automobile e della motocicletta. L’automobile divenne un mezzo di trasporto di massa, soprattutto negli USA, dove nel 1929 c’era un’automobile ogni cinque persone

Complessivamente si può dire che nei Paesi industrializzati dell’Europa e negli USA si sviluppò una società di massa, in cui i fenomeni non riguardavano una parte ristretta della società, come avveniva nell’Ottocento, ma potevano coinvolgere la maggioranza dei cittadini. Questo dipese da diversi fattori: l’aumento del numero delle persone istruite, che in molti Paesi industrializzati costituivano ormai la maggioranza della popolazione; l’allargamento del diritto di voto e l’adozione del suffragio universale, che in diversi Stati coinvolsero direttamente nella vita politica le masse; la radio e il cinema, che raggiungevano un pubblico molto numeroso, coinvolgendo anche gli analfabeti.

Maestri e ragazzi di una scuola americana (probabilmente privata) negli anni Venti

Negli anni Venti in molti Paesi nacquero stazioni radiofoniche, che cominciarono a trasmettere programmi di intrattenimento per il pubblico. La radio conobbe un rapido successo in tutto il mondo e divenne un mezzo di comunicazione di massa: nel 1934 vi erano già 42 milioni di apparecchi, di cui oltre 18 in Europa e quasi 20 in America settentrionale. La radio ebbe un grande successo presso tutte le classi sociali perché le trasmissioni radiofoniche potevano essere seguite da tutti. La possibilità di raggiungere un vasto pubblico non fu trascurata né dagli uomini d’affari, né dai politici: la radio venne utilizzata per la pubblicità di prodotti e per la propaganda politica, perché era in grado di influenzare l’opinione pubblica, cioè il pensiero della maggioranza dei cittadini.

Pubblicità del 1924 per una marca di apparecchi radio

Anche il cinema, che riscuoteva un ampio successo già prima della guerra, divenne uno dei divertimenti preferiti dalla popolazione e nacque una potente industria cinematografica. L’introduzione del sonoro (1929) e poi del colore (1935) offrirono nuove possibilità, ma posero anche nuovi problemi: il sonoro in particolare richiedeva una traduzione del dialogo per le pellicole straniere e quindi il ricorso al doppiaggio o all’uso di sottotitoli.
Uno degli aspetti caratteristici della società di massa fu il grande sviluppo dei consumi, favorito dal benessere degli anni della ripresa economica, fino al 1929. L’aumento dei consumi fu reso possibile dalle migliori condizioni di vita e fu perciò molto forte negli USA (per cui si parla di una società dei consumi), ma anche nei Paesi industrializzati d’Europa: un numero crescente di persone era in grado di acquistare una grande varietà di beni.

Moda femminile negli USA negli anni Venti

L’aumento dei consumi fu stimolato dalle industrie, attraverso la pubblicità. Essa veniva trasmessa soprattutto dalla radio, tanto che negli USA le stazioni radiofoniche erano tutte finanziate dalla pubblicità. Anche il cinema contribuì all’aumento dei consumi, perché proponeva stili di vita e mode, che il pubblico cercava di imitare. La pubblicità contribuì a cambiare la mentalità: essa creava nuovi bisogni, convincendo le persone ad acquistare prodotti di cui fino ad allora ignoravano l’esistenza; nello stesso tempo imponeva mode e quindi spingeva a rinnovare frequentemente alcuni tipi di prodotti, ad esempio i capi di vestiario.

Un’attrice del cinema muto pubblicizza negli anni Venti dei prodotti per il trucco femminile

Negli USA il passaggio alla società dei consumi fu facilitato anche dalla possibilità di acquistare a rate molti beni, come l’automobile e la radio, e dal costo contenuto di molti prodotti, dovuto alla produzione in serie (i prodotti venivano fabbricati secondo le stesse modalità e quindi erano identici gli uni agli altri) e all’impiego della cosiddetta taylorizzazione, cioè un sistema di lavoro basato sulla catena di montaggio, per cui l’operaio svolgeva la sua mansione, limitandosi a una serie di gesti, sempre gli stessi, ed evitando così perdite di tempo, con conseguenze di non poco conto sulla sua sanità mentale. Il fenomeno di questa meccanizzazione del lavoro, che rende insopportabile la vita nelle fabbriche, venne mirabilmente rappresentato nel 1936 da Charlie Chaplin, nel suo film Tempi moderni.

Una sequenza di fotogrammi da Tempi moderni di Charlie Chaplin, capolavoro dell’epoca

L’aumento dei consumi ebbe conseguenze negative sull’ambiente, perché comportava spreco di materie prime e produzione di rifiuti. Il problema però si impose all’attenzione dell’opinione pubblica solo nella seconda metà del secolo.
La crescita economica e il grande aumento dei consumi si interruppero nel 1929, quando negli USA scoppiò la più grave crisi del secolo, quella che viene chiamata la Grande Depressione. Essa ebbe il suo inizio evidente il 24 ottobre, quando la Borsa di New York crollò vorticosamente: fu il “giovedì nero” di Wall Street, che vide la discesa improvvisa dei prezzi, il nervosismo degli speculatori finanziari (coloro che avevano guadagnato somme enormi, comperando le azioni delle industrie a un certo prezzo e rivendendole poi a un prezzo maggiore) e addirittura il suicidio in poche ore degli undici tra i più noti speculatori statunitensi.

Prima pagina di un giornale americano del 24 ottobre 1929 con la notizia del panico a Wall Street

Causa essenziale di questa crisi fu, come per molte delle crisi precedenti, un eccesso di produzione: l’offerta di beni era superiore alla richiesta. Molti produttori (aziende agricole, imprese edilizie, industrie) si trovarono in difficoltà, non riuscendo a vendere i loro prodotti, perciò fecero ricorso alle banche e licenziarono alcuni dipendenti. L’aumento della disoccupazione portò a un’ulteriore diminuzione dei consumi e a un aggravarsi della crisi: molte imprese dovettero chiudere e le banche che avevano prestato loro denaro fallirono, mentre il valore delle azioni crollava.

Una baraccopoli del tempo della Grande Depressione

Per spiegare a un livello più generale questa crisi, si può affermare che la causa di essa va ricercata in quella che uno studioso americano, John Kenneth Galbraith, chiama «la cattiva distribuzione dei redditi». Al momento della crisi il 5% della popolazione assorbiva oltre un terzo del reddito nazionale; il capitalismo non si era accontentato di un ragionevole profitto, ma aveva voluto guadagnare sempre di più; nelle fabbriche la produttività era aumentata negli anni Venti del 43%, mentre i salari erano rimasti sostanzialmente fermi. Ciò aveva concentrato nelle mani del capitalismo somme talmente enormi, da provocare un massiccio reinvestimento in altre fabbriche: cosicché la produzione era cresciuta paurosamente, mentre il mercato rimaneva ristretto e incapace di assorbirla. Perciò, mentre nuove case, nuove automobili, nuovi manufatti rimanevano invenduti, dato che coloro che avrebbero dovuto acquistarli non avevano i mezzi per farlo, la ricchezza diventava lo strumento per la girandola viziosa e artificiosa della speculazione in borsa. Inoltre il progresso tecnologico aveva eliminato una parte notevole della mano d’opera, aumentando di conseguenza la restrizione del mercato; incapaci di creare nuovi posti di lavoro o di aumentare i salari, gli industriali non avevano ascoltato altro che il loro cieco egoismo.

La Borsa di New York il 24 ottobre 1929

Le importazioni da parte degli USA si ridussero bruscamente, colpendo le altre economie e trasformando la crisi in un fenomeno mondiale. Per difendere le proprie industrie, quasi tutti gli Stati imposero tariffe doganali protezionistiche, provocando il crollo del commercio mondiale. A risentirne maggiormente furono i Paesi che avevano debiti di guerra con gli Stati Uniti, come la Francia.
La crisi, intensissima soprattutto nel periodo 1929-1933, portò a una disoccupazione massiccia (12 milioni di disoccupati solo negli USA nel 1932), a una miseria estrema e favorì il formarsi di governi dittatoriali in Europa.

Marcia di disoccupati in Francia negli Trenta

La Grande Depressione rese evidente la necessità di interventi dello Stato per regolare l’economia ed evitare crisi devastanti: perciò tutti i governi, sia quelli totalitari (URSS, Italia), sia quelli democratici, avviarono politiche economiche tese a uscire dalla crisi, favorire lo sviluppo e alleviare la miseria. Si ebbe quindi il passaggio da un’economia di mercato, in cui lo Stato non interviene, se non in misura minima, per regolare la vita economica, a un’economia mista, in cui lo Stato interviene per controllare e regolare le attività produttive: si parla perciò di fine dello Stato liberale. Spesso furono proprio gli interventi dello Stato, come il New Deal (nuovo corso), lanciato dal presidente Roosevelt negli USA, a favorire il superamento della crisi.

A destra il 31° presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, l’artefice del New Deal; a sinistra il manifesto per il film “The Little Foxes” (in italiano “Piccole volpi”) di William Wyler, del 1941, uno dei film culto del New Deal, centrato sull’avidità e l’immoralità del mondo degli affari

Non sempre gli interventi statali sono efficaci nel miglioramento delle condizioni di vita. Diamo uno sguardo, per esempio, al fenomeno del proibizionismo negli USA. Con questo termine si intende il tentativo di combattere l’alcolismo, proibendo entro i confini statunitensi la fabbricazione, la vendita e il trasporto a scopo di consumo dei liquori. Il divieto era il risultato finale di una serie di iniziative sorte in numerosi Stati fin dalla prima metà del XIX secolo e promosse da varie associazioni e da diverse Chiese; negli USA un emendamento della costituzione (il XVIII, del gennaio 1919) segnò l’inizio dell’epoca del proibizionismo. L’esperimento non ebbe un esito felice: provocò, infatti, il contrabbando su vasta scala, la vendita clandestina di liquori e il rigoglio della malavita; il gangsterismo (anche di origine italiana e mafiosa; il gangster più famoso fu Al Capone, figlio di due immigrati italiani) dedito al contrabbando e allo spaccio assunse nel decennio 1920-1930 proporzioni preoccupanti. Il commercio clandestino privò i consumatori di ogni garanzia sulla qualità delle bevande e numerosi furono i casi di avvelenamento. Nel dicembre 1933 un altro emendamento costituzionale abrogò la legislazione proibizionista.

A sinistra un agente distrugge botti di birra nel 1920; a destra la gente festeggia a New York la fine del proibizionismo nel 1933





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