L’ITALIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
La seconda metà dell’Ottocento e l’inizio
del Novecento furono per l’Italia un periodo di profonde trasformazioni
politiche, economiche, sociali e demografiche.
Negli anni ’80 incominciò un vero e
proprio sviluppo industriale. Esso fu reso possibile dalla diminuzione dei
costi di trasporto, grazie alla costruzione di una rete ferroviaria nazionale
(da 2.200 km nel 1862 a 8.000 nel 1875) e dagli investimenti sia statali, sia
privati, italiani e stranieri. Oltre a investire direttamente nella creazione
di industrie, lo Stato fornì sovvenzioni (= aiuti in denaro) ai costruttori
navali, affinché utilizzassero acciaio di produzione italiana, e alle compagnie
marittime, affinché acquistassero battelli dai cantieri italiani.
Dopo le industrie tessili, in Italia si
affermarono anche l’industria siderurgica (cioè del ferro e dell’acciaio) e
quella meccanica. Lo sviluppo industriale portò a una crescita delle attività
finanziarie e favorì anche un certo rinnovamento dell’agricoltura: si ebbe
perciò un aumento della produzione e i capitali disponibili in tutti i settori
permisero un’accelerazione dello sviluppo, cioè una crescita economica più
rapida.
I
sovrani d’Italia in visita all’impianto idroelettrico di Vizzola-Ticino nel
1901 (disegno di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere)
L’Italia rimase uno dei Paesi poveri
dell’Europa, ma le regioni nord-occidentali ridussero il divario che le
separava dall’Europa industrializzata. Non così le regioni meridionali, dove
non vi uno sviluppo industriale: perciò l’industrializzazione accentuò le
differenze tra il Nord e il Sud.
Lo sviluppo delle industrie aumentò il
numero di operai e favorì la nascita di organizzazioni sindacali e politiche,
che si ispiravano alle idee socialiste e anarchiche. Venne fondato il Partito
Operaio (1882), che poi confluì nel Partito dei lavoratori italiani (1892,
divenuto in seguito Partito Socialista). Comparvero anche i primi giornali
socialisti, come l’Avanti! (1896).
Nacquero le Camere del lavoro, che riunivano i lavoratori iscritti al sindacato
in un territorio e si occupavano delle vertenze sindacali: esse divennero i
centri delle lotte sociali di fine secolo.
Un
manifesto pubblicitario per il giornale socialista Avanti! del 1896
Si ebbero perciò numerose manifestazioni
operaie e contadine, nelle città e nelle campagne, tra cui il movimento dei
Fasci siciliani, che raggiunse il massimo sviluppo nel 1893 a causa della crisi
che aveva investito l’industria dello zolfo e l’esportazione degli agrumi, due
settori fondamentali per l’economia dell’isola. Durante i grandi scioperi
operai di Milano del 1898 l’esercito sparò sulla folla che protestava,
provocando qualche centinaio di morti. Alle proteste per la strage, il governo
reagì sospendendo le pubblicazioni di alcuni giornali, chiudendone altri,
soprattutto socialisti, e limitando le libertà di riunione, associazione e
stampa. La tensione aumentò e si arrivò a una crisi di governo (1899) e
all’assassinio del re Umberto I ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci (1900).
L’assassinio
di Umberto I in una illustrazione della Domenica del Corriere
Negli anni successivi i governi italiani,
guidati da Giovanni Giolitti (primo ministro dal 1903 al 1913, con brevi
interruzioni), mantennero un maggiore equilibrio tra le esigenze dei lavoratori
e quelle della borghesia e le repressioni violente furono meno frequenti. Le
libertà di associazione e stampa furono nuovamente garantite, fu concessa piena
libertà di sciopero e nuove leggi limitarono il lavoro minorile. La posizione
di neutralità di Giolitti nei conflitti sociali fu criticata sia dai
socialisti, che avrebbero voluto un intervento più attivo a favore del
proletariato, sia dai conservatori, per i quali il governo avrebbe dovuto
soffocare le proteste popolari con la forza.
Il
grafico evidenzia che il numero degli scioperi fu costante negli anni di forte
tensione, mentre fu scarso il seguito che essi ebbero presso i lavoratori,
tranne che nel periodo 1919-1920
L’Età giolittiana, come venne chiamato il
periodo in cui Giolitti fu primo ministro, fu un periodo di notevole sviluppo
economico, dovuto sia al rafforzarsi delle industrie nazionali, sia alle
rimesse degli emigranti, cioè al denaro che essi inviavano alla famiglia
rimasta in Italia. Il maggiore benessere favorì l’aumento dei consumi e quindi
la crescita industriale. Le ferrovie vennero nazionalizzate (cioè divennero
proprietà dello Stato) e la rete ferroviaria fu ampliata.
Giovanni
Giolitti
L’Età giolittiana fu inoltre
caratterizzata da alcune riforme importanti, tra cui l’introduzione del
suffragio universale maschile (1912) per tutti coloro che avevano trent’anni:
gli elettori passarono a oltre otto milioni, su una popolazione totale di 36
milioni.
In Italia però le industrie che si stavano
sviluppando non erano in grado di offrire lavoro a tutti e l’offerta di
manodopera era sovrabbondante rispetto alla richiesta. Perciò molti italiani
furono costretti a emigrare, sia dalle regioni del Sud, che erano le più
povere, sia dalle regioni settentrionali. Il fenomeno dell’emigrazione si
manifestò più tardi rispetto a Paesi come la Germania, l’Irlanda o la Svezia,
ma fu particolarmente intenso. L’Italia fu infatti uno dei Paesi europei con il
più alto tasso di emigrazione: tra il 1871 e il 1915 oltre 13.500.000 italiani
lasciarono l’Italia e si trasferirono in altri Paesi dell’Europa continentale,
nei Paesi del Mediterraneo (Africa settentrionale) e oltreoceano (America
meridionale, in particolare Argentina e Brasile, e Stati Uniti).
Immigranti
italiani si accingono a sbarcare a New York nel 1905
L’emigrazione favorì lo sviluppo
dell’economia italiana, grazie alle rimesse che giungevano dagli emigranti; era
denaro che migliorò il tenore di vita di una parte della popolazione e permise
nuovi investimenti.
Inizialmente il governo italiano rifiutò
di partecipare al colonialismo europeo, non volendo imporre una dominazione
straniera ad altre popolazioni. L’unico possedimento, nato per esigenze
commerciali, rimase la baia di Assab (nell’attuale Eritrea, 1869). Ma i
nazionalisti chiedevano che anche l’Italia conquistasse terre in altri
continenti e l’occupazione nel 1881 da parte della Francia della Tunisia, dove
vivevano molti italiani, rafforzò i sostenitori di una politica coloniale
italiana.
Già nel 1885 l’Italia occupò il porto di
Massaua (Eritrea) e sotto il primo ministro Crispi ebbe inizio un’espansione
coloniale, più per motivazioni di prestigio che economiche. L’Italia estese il
suo dominio su tutta l’Eritrea e conquistò la Somalia, nonostante la lunga resistenza
della popolazione. I territori conquistati erano però poveri di risorse e di
limitata importanza commerciale.
L’espansione coloniale italiana ai margini
del regno d’Etiopia (Abissinia) provocò inevitabilmente molte tensioni, che i
trattati stipulati non poterono eliminare. La guerra tra Etiopia e Italia si
risolse in una tragedia per le truppe italiane: l’esercito italiano venne
sconfitto ad Adua, nel 1896, in una battaglia in cui trovarono la morte 7.000
soldati. In seguito alla sconfitta, Crispi si dimise.
Lo
scontro tra le truppe etiopi e quelle italiane del generale Dabormida nella
battaglia di Adua del 1896 in una illustrazione dell’epoca
Infine, nel 1911-1912, il governo italiano
guidato da Giolitti decise di togliere all’Impero Ottomano la Tripolitania e la
Cirenaica (che oggi costituiscono la Libia). La conquista riuscì, ma fu
accompagnata da una serie di stragi, di cui furono vittime non solo gli arabi
che combattevano contro l’invasione italiana, ma anche molti civili che non
avevano svolto alcun ruolo nella resistenza. Per stroncare la resistenza araba,
vennero prese misure repressive, quali la deportazione di circa 4.000 tra
uomini, donne e bambini in campi di prigionia in Italia: circa 700 di questi
deportati morirono per le dure condizioni in cui erano tenuti.
Illustrazione
di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere (giugno 1912) su un episodio
della guerra libica
Nessun commento:
Posta un commento