venerdì 18 dicembre 2015

71 L'Italia dopo l'unità



L’ITALIA DOPO L’UNITÀ

Fino al 1859 l’Italia era stata un’idea; in un tempo brevissimo essa era divenuta una realtà, che doveva però confrontarsi con problemi enormi, in parte dovuti anche a un’arretratezza medievale.
Lo scrittore e politico Massimo d’Azeglio riassunse la situazione in una frase divenuta celebre e che più o meno diceva: «Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». La società italiana, infatti, era molto eterogenea: dominava una borghesia che per condizioni economiche e mentalità si sentiva affine a un’aristocrazia ancora forte e che perciò era attratta facilmente su posizioni conservatrici. La classe sociale più numerosa era quella dei contadini (il 70% della popolazione), che però non viveva in condizioni simili in tutto il territorio della penisola. Numerose erano le differenze regionali in molti aspetti della vita: le consuetudini, le norme amministrative e giudiziarie, le condizioni finanziarie, gli ordinamenti militari, gli apparati burocratici, la cultura.

In questo dipinto del palermitano Francesco Lojacono dei nobili terrieri lasciano la villa che sorge in una campagna desolata e poco produttiva

Povero economicamente e debole militarmente (come dimostreranno le sconfitte subite durante la Terza guerra d’indipendenza), l’appena nato Regno d’Italia aveva un ruolo del tutto secondario nella politica europea. Inoltre in Italia il numero degli elettori era molto ristretto, perché la maggioranza dei cittadini era priva del diritto di voto e non partecipava in nessun modo alla vita politica. Perciò i parlamentari eletti rappresentavano unicamente gli interessi delle classi superiori, ossia la borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri meridionali.

Stampa del XIX secolo sulla campagna elettorale a Roma nel maggio del 1880

Il primo Parlamento italiano, nel 1861, era così composto:
il 65,5% moderati (cavouriani e liberali moderati)
il 24,5% progressisti (democratici, mazziniani, garibaldini)
il 4% conservatori
il 5% oppositori vari.


In Parlamento si formarono due schieramenti: la Destra e la Sinistra, così dette per la parte che occupavano nell’emiciclo della sala dove avvenivano le riunioni parlamentari. Dal punto di vista ideologico i due schieramenti non erano nettamente separati, anche se comunque vi erano delle differenze; in seguito, dopo la diffusione del socialismo, si diversificarono maggiormente e per distinguerli appunto da quello che poi diventeranno, nei primi anni dell’unità vengono chiamati solitamente Destra storica e Sinistra storica.

Un emiciclo parlamentare nel XIX secolo

La Destra storica rappresentava principalmente gli interessi della nobiltà e dell’alta borghesia, perciò voleva mantenere il suffragio limitato ai cittadini più ricchi. Essa mirava soprattutto a risanare il forte deficit pubblico, cioè il debito dello Stato (che si ha quando le spese sono superiori ai guadagni). Questo deficit era dovuto essenzialmente alle guerre, sia quelle combattute dal Regno di Sardegna, sia quella del nuovo Stato per la conquista del Veneto. Nel 1862 il totale delle spese previste raggiungeva circa il miliardo di lire, mentre le entrate superavano appena i 500 milioni. Per ottenere il risanamento del deficit, la Destra puntò sulla limitazione delle spese e sull’aumento delle tasse.
Inoltre gli uomini della Destra sostenevano che lo Stato doveva controllare direttamente tutto il territorio, senza lasciare alcuna autonomia alle regioni; era forte la preoccupazione che lo Stato appena formato si frantumasse in poco tempo.
La Destra governò dal 1861 al 1876, sotto la guida di ministri quali il benestante Urbano Rattazzi e il proprietario terriero Marco Minghetti e riuscì a ottenere il pareggio del bilancio (quando i guadagni sono alla pari con le spese), eliminando il deficit che aveva funestato i primi anni dell’Unità.

A sinistra una caricatura di Rattazzi (che cerca di imitare Cavour con un po’ di trucco), a destra un ritratto di Minghetti

Per aumentare le entrate (cioè il guadagno per lo Stato, che si ottiene solitamente con le tasse), nel 1868 la Destra impose una tassa sul macinato (la farina ottenuta macinando il grano), che colpiva soprattutto la parte più povera della popolazione, per la quale il pane era il cibo principale. La tassa sul macinato suscitò un forte malcontento popolare.
Un’altra causa di tensioni fu il rigido controllo imposto dal governo nazionale su tutto il territorio; esso infatti non teneva conto delle situazioni assai diverse in cui vivevano gli italiani.

In questo dipinto del 1883 Angelo Morbelli ritrae uno dei saloni del Pio Albergo Trivulzio a Milano, che era un ricovero per anziani poveri; con quest’opera voleva evidenziare la desolante realtà di questi vecchi negli ultimi giorni della loro vita

La Sinistra storica rappresentava piuttosto gli interessi della media e piccola borghesia: essa perciò richiedeva un allargamento del suffragio. Sosteneva inoltre la necessità di diffondere l’istruzione e dare una maggiore autonomia alle amministrazioni locali.
La Sinistra salì al potere nel 1876, prima sotto la guida di Agostino Depretis, poi di Francesco Crispi, entrambi figli di amministratori di proprietà terriere di gente nobile. La Sinistra attuò alcune riforme importanti: nel 1877 rese obbligatoria e gratuita la scuola elementare (legge Coppino, dal nome del ministro che la propose); nel 1880 abolì la tassa sul macinato; nel 1882 abbassò l’età degli elettori da 25 a 21 anni ed estese il diritto di voto, che rimase comunque molto limitato, passando dal 2 al 7% della popolazione.

Litografia del XIX secolo rappresentante due classi (una maschile e una femminile) e tutto ciò che occorreva allo scolaro. Nell’Ottocento post-unitario si diffuse l’idea che solo attraverso l’emancipazione e l’alfabetizzazione delle masse popolari l’Italia poteva rinnovarsi e affrontare la strada del progresso

I primi anni dell’unità d’Italia furono segnati da un comportamento politico dei parlamentari, che viene chiamato trasformismo e che fu piuttosto problematico: non era raro che i deputati dell’opposizione passassero ad appoggiare il governo, in seguito ad accordi individuali o di piccoli gruppi, per ottenere vantaggi personali e per garantirsi la rielezione, oppure togliessero il loro appoggio al governo, perché non ottenevano quanto desideravano. Dopo un secolo e mezzo in Italia questo malcostume è ancora operante.

Casimiro Teja, Caricatura del Parlamento, incisione della seconda metà del XIX secolo


Uno dei problemi che i governi dovettero affrontare fu quello dei rapporti con il papa e con la Chiesa: venne chiamato “questione romana”. In seguito alla conquista di Roma (1870) il papa si riteneva prigioniero dello Stato italiano, benché una legge del 1871 (detta delle guarentigie, che significa garanzie solenni decretate per legge) gli garantisse piena libertà di movimento, lo riconoscesse sovrano dello Stato del Vaticano e gli assicurasse una rendita annua.
I papi si rifiutarono di accettare la situazione e proibirono ai cattolici ogni partecipazione alla politica nazionale, anche solo attraverso il voto. Tale proibizione, in vigore fino al 1904, fu in realtà rispettata solo da una parte dei cattolici, ma impedì comunque che in Italia nascesse un partito cattolico, come avveniva in altri paesi europei.

Vignetta satirica di Thomas Nast (1870) che raffigura Pio IX che fugge in seguito all’avvento di Vittorio Emanuele II come re d’Italia
Ritratto di Domenico Tojetti di papa Pio IX

Per tutto l’Ottocento l’Italia rimase uno Stato povero, economicamente assai meno sviluppato della maggioranza degli Stati dell’Europa centro-occidentale, con poche industrie, concentrate soprattutto al Nord, e un’agricoltura spesso arretrata. Né le cose erano migliori per quanto riguarda l’infrastruttura principale dell’economia dell’epoca: la costruzione di ferrovie. Nelle regioni industrializzate dell’Europa le ferrovie non solo erano il volano della crescita dell’industria meccanica, ma assicuravano anche la distribuzione dei prodotti nel territorio statale; tanto meglio avrebbero dovuto essere costruite nel nostro paese, che per la sua conformazione geografica non favoriva le comunicazioni e gli scambi tra le diverse regioni. Invece in Italia, dove nel 1861 c’erano appena 2.000 chilometri di strada ferrata, si salì a 6.000 nel 1870, ma questo era ancora poco, rispetto, per esempio, ai 16.000 chilometri della Francia. Senza tener conto che la crescita delle ferrovie avveniva da noi in gran parte con capitale straniero, cioè erano Stati stranieri a darci binari, locomotive e quanto serviva alla costruzione di un tratto ferroviario.
Allo sviluppo ferroviario avrebbe dovuto accompagnarsi anche un forte sviluppo stradale, del servizio postale e di quello telegrafico, ma fu solo verso la fine del secolo che in Italia si ebbe una crescita industriale significativa.

La stazione ferroviaria di Genova in una incisione del XIX secolo

Inoltre, al momento dell’unificazione le differenze economiche tra l’Italia settentrionale e quella meridionale erano molto forti. Questo problema, che venne chiamato “questione meridionale”, non fu risolto dall’Unità, ma per certi aspetti andò invece aggravandosi.
L’Unità infatti portò diversi vantaggi alle industrie che si stavano sviluppando al Nord e che ottennero un mercato molto più ampio. Invece le poche industrie esistenti al Sud, che di solito impiegavano molta manodopera e avevano quindi costi di produzione più alti, furono spesso danneggiate dall’unificazione, perché non erano in grado di reggere la concorrenza. Né la borghesia industriale del Nord (che aveva numerosi rappresentanti in Parlamento) ammetteva concorrenti per le proprie industrie all’interno dello Stato.

Ernesto Breda con i suoi collaboratori nel 1892 in occasione della consegna di una locomotiva alla Romania. Fondata a Milano nel 1886, quella di Ernesto Breda fu una delle prime industrie meccaniche italiane specializzate nella costruzione di locomotive, vagoni ferroviari e macchine per l’agricoltura

L’altro forte gruppo parlamentare (quello dei grandi proprietari terrieri del Sud) non accettava né di cedere le proprie immense proprietà ai contadini, né di investire grandi somme di denaro per migliorare la produzione. Eppure queste due erano le più efficaci misure da adottare, per una profonda riforma agraria che creasse sviluppo nell’Italia meridionale.
In questo modo il divario tra Nord e Sud non si ridusse, anzi, si accentuò per lo sviluppo economico del Nord.

Un dipinto del 1886, intitolato Bestie da soma, dell’abruzzese Teofilo Patini, sulle dure condizioni dei contadini nell’Italia meridionale

APPROFONDIMENTI (li trovi nella sidebar di destra):
La società italiana nel XIX secolo