venerdì 18 dicembre 2015

71 L'Italia dopo l'unità



L’ITALIA DOPO L’UNITÀ

Fino al 1859 l’Italia era stata un’idea; in un tempo brevissimo essa era divenuta una realtà, che doveva però confrontarsi con problemi enormi, in parte dovuti anche a un’arretratezza medievale.
Lo scrittore e politico Massimo d’Azeglio riassunse la situazione in una frase divenuta celebre e che più o meno diceva: «Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». La società italiana, infatti, era molto eterogenea: dominava una borghesia che per condizioni economiche e mentalità si sentiva affine a un’aristocrazia ancora forte e che perciò era attratta facilmente su posizioni conservatrici. La classe sociale più numerosa era quella dei contadini (il 70% della popolazione), che però non viveva in condizioni simili in tutto il territorio della penisola. Numerose erano le differenze regionali in molti aspetti della vita: le consuetudini, le norme amministrative e giudiziarie, le condizioni finanziarie, gli ordinamenti militari, gli apparati burocratici, la cultura.

In questo dipinto del palermitano Francesco Lojacono dei nobili terrieri lasciano la villa che sorge in una campagna desolata e poco produttiva

Povero economicamente e debole militarmente (come dimostreranno le sconfitte subite durante la Terza guerra d’indipendenza), l’appena nato Regno d’Italia aveva un ruolo del tutto secondario nella politica europea. Inoltre in Italia il numero degli elettori era molto ristretto, perché la maggioranza dei cittadini era priva del diritto di voto e non partecipava in nessun modo alla vita politica. Perciò i parlamentari eletti rappresentavano unicamente gli interessi delle classi superiori, ossia la borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri meridionali.

Stampa del XIX secolo sulla campagna elettorale a Roma nel maggio del 1880

Il primo Parlamento italiano, nel 1861, era così composto:
il 65,5% moderati (cavouriani e liberali moderati)
il 24,5% progressisti (democratici, mazziniani, garibaldini)
il 4% conservatori
il 5% oppositori vari.


In Parlamento si formarono due schieramenti: la Destra e la Sinistra, così dette per la parte che occupavano nell’emiciclo della sala dove avvenivano le riunioni parlamentari. Dal punto di vista ideologico i due schieramenti non erano nettamente separati, anche se comunque vi erano delle differenze; in seguito, dopo la diffusione del socialismo, si diversificarono maggiormente e per distinguerli appunto da quello che poi diventeranno, nei primi anni dell’unità vengono chiamati solitamente Destra storica e Sinistra storica.

Un emiciclo parlamentare nel XIX secolo

La Destra storica rappresentava principalmente gli interessi della nobiltà e dell’alta borghesia, perciò voleva mantenere il suffragio limitato ai cittadini più ricchi. Essa mirava soprattutto a risanare il forte deficit pubblico, cioè il debito dello Stato (che si ha quando le spese sono superiori ai guadagni). Questo deficit era dovuto essenzialmente alle guerre, sia quelle combattute dal Regno di Sardegna, sia quella del nuovo Stato per la conquista del Veneto. Nel 1862 il totale delle spese previste raggiungeva circa il miliardo di lire, mentre le entrate superavano appena i 500 milioni. Per ottenere il risanamento del deficit, la Destra puntò sulla limitazione delle spese e sull’aumento delle tasse.
Inoltre gli uomini della Destra sostenevano che lo Stato doveva controllare direttamente tutto il territorio, senza lasciare alcuna autonomia alle regioni; era forte la preoccupazione che lo Stato appena formato si frantumasse in poco tempo.
La Destra governò dal 1861 al 1876, sotto la guida di ministri quali il benestante Urbano Rattazzi e il proprietario terriero Marco Minghetti e riuscì a ottenere il pareggio del bilancio (quando i guadagni sono alla pari con le spese), eliminando il deficit che aveva funestato i primi anni dell’Unità.

A sinistra una caricatura di Rattazzi (che cerca di imitare Cavour con un po’ di trucco), a destra un ritratto di Minghetti

Per aumentare le entrate (cioè il guadagno per lo Stato, che si ottiene solitamente con le tasse), nel 1868 la Destra impose una tassa sul macinato (la farina ottenuta macinando il grano), che colpiva soprattutto la parte più povera della popolazione, per la quale il pane era il cibo principale. La tassa sul macinato suscitò un forte malcontento popolare.
Un’altra causa di tensioni fu il rigido controllo imposto dal governo nazionale su tutto il territorio; esso infatti non teneva conto delle situazioni assai diverse in cui vivevano gli italiani.

In questo dipinto del 1883 Angelo Morbelli ritrae uno dei saloni del Pio Albergo Trivulzio a Milano, che era un ricovero per anziani poveri; con quest’opera voleva evidenziare la desolante realtà di questi vecchi negli ultimi giorni della loro vita

La Sinistra storica rappresentava piuttosto gli interessi della media e piccola borghesia: essa perciò richiedeva un allargamento del suffragio. Sosteneva inoltre la necessità di diffondere l’istruzione e dare una maggiore autonomia alle amministrazioni locali.
La Sinistra salì al potere nel 1876, prima sotto la guida di Agostino Depretis, poi di Francesco Crispi, entrambi figli di amministratori di proprietà terriere di gente nobile. La Sinistra attuò alcune riforme importanti: nel 1877 rese obbligatoria e gratuita la scuola elementare (legge Coppino, dal nome del ministro che la propose); nel 1880 abolì la tassa sul macinato; nel 1882 abbassò l’età degli elettori da 25 a 21 anni ed estese il diritto di voto, che rimase comunque molto limitato, passando dal 2 al 7% della popolazione.

Litografia del XIX secolo rappresentante due classi (una maschile e una femminile) e tutto ciò che occorreva allo scolaro. Nell’Ottocento post-unitario si diffuse l’idea che solo attraverso l’emancipazione e l’alfabetizzazione delle masse popolari l’Italia poteva rinnovarsi e affrontare la strada del progresso

I primi anni dell’unità d’Italia furono segnati da un comportamento politico dei parlamentari, che viene chiamato trasformismo e che fu piuttosto problematico: non era raro che i deputati dell’opposizione passassero ad appoggiare il governo, in seguito ad accordi individuali o di piccoli gruppi, per ottenere vantaggi personali e per garantirsi la rielezione, oppure togliessero il loro appoggio al governo, perché non ottenevano quanto desideravano. Dopo un secolo e mezzo in Italia questo malcostume è ancora operante.

Casimiro Teja, Caricatura del Parlamento, incisione della seconda metà del XIX secolo


Uno dei problemi che i governi dovettero affrontare fu quello dei rapporti con il papa e con la Chiesa: venne chiamato “questione romana”. In seguito alla conquista di Roma (1870) il papa si riteneva prigioniero dello Stato italiano, benché una legge del 1871 (detta delle guarentigie, che significa garanzie solenni decretate per legge) gli garantisse piena libertà di movimento, lo riconoscesse sovrano dello Stato del Vaticano e gli assicurasse una rendita annua.
I papi si rifiutarono di accettare la situazione e proibirono ai cattolici ogni partecipazione alla politica nazionale, anche solo attraverso il voto. Tale proibizione, in vigore fino al 1904, fu in realtà rispettata solo da una parte dei cattolici, ma impedì comunque che in Italia nascesse un partito cattolico, come avveniva in altri paesi europei.

Vignetta satirica di Thomas Nast (1870) che raffigura Pio IX che fugge in seguito all’avvento di Vittorio Emanuele II come re d’Italia
Ritratto di Domenico Tojetti di papa Pio IX

Per tutto l’Ottocento l’Italia rimase uno Stato povero, economicamente assai meno sviluppato della maggioranza degli Stati dell’Europa centro-occidentale, con poche industrie, concentrate soprattutto al Nord, e un’agricoltura spesso arretrata. Né le cose erano migliori per quanto riguarda l’infrastruttura principale dell’economia dell’epoca: la costruzione di ferrovie. Nelle regioni industrializzate dell’Europa le ferrovie non solo erano il volano della crescita dell’industria meccanica, ma assicuravano anche la distribuzione dei prodotti nel territorio statale; tanto meglio avrebbero dovuto essere costruite nel nostro paese, che per la sua conformazione geografica non favoriva le comunicazioni e gli scambi tra le diverse regioni. Invece in Italia, dove nel 1861 c’erano appena 2.000 chilometri di strada ferrata, si salì a 6.000 nel 1870, ma questo era ancora poco, rispetto, per esempio, ai 16.000 chilometri della Francia. Senza tener conto che la crescita delle ferrovie avveniva da noi in gran parte con capitale straniero, cioè erano Stati stranieri a darci binari, locomotive e quanto serviva alla costruzione di un tratto ferroviario.
Allo sviluppo ferroviario avrebbe dovuto accompagnarsi anche un forte sviluppo stradale, del servizio postale e di quello telegrafico, ma fu solo verso la fine del secolo che in Italia si ebbe una crescita industriale significativa.

La stazione ferroviaria di Genova in una incisione del XIX secolo

Inoltre, al momento dell’unificazione le differenze economiche tra l’Italia settentrionale e quella meridionale erano molto forti. Questo problema, che venne chiamato “questione meridionale”, non fu risolto dall’Unità, ma per certi aspetti andò invece aggravandosi.
L’Unità infatti portò diversi vantaggi alle industrie che si stavano sviluppando al Nord e che ottennero un mercato molto più ampio. Invece le poche industrie esistenti al Sud, che di solito impiegavano molta manodopera e avevano quindi costi di produzione più alti, furono spesso danneggiate dall’unificazione, perché non erano in grado di reggere la concorrenza. Né la borghesia industriale del Nord (che aveva numerosi rappresentanti in Parlamento) ammetteva concorrenti per le proprie industrie all’interno dello Stato.

Ernesto Breda con i suoi collaboratori nel 1892 in occasione della consegna di una locomotiva alla Romania. Fondata a Milano nel 1886, quella di Ernesto Breda fu una delle prime industrie meccaniche italiane specializzate nella costruzione di locomotive, vagoni ferroviari e macchine per l’agricoltura

L’altro forte gruppo parlamentare (quello dei grandi proprietari terrieri del Sud) non accettava né di cedere le proprie immense proprietà ai contadini, né di investire grandi somme di denaro per migliorare la produzione. Eppure queste due erano le più efficaci misure da adottare, per una profonda riforma agraria che creasse sviluppo nell’Italia meridionale.
In questo modo il divario tra Nord e Sud non si ridusse, anzi, si accentuò per lo sviluppo economico del Nord.

Un dipinto del 1886, intitolato Bestie da soma, dell’abruzzese Teofilo Patini, sulle dure condizioni dei contadini nell’Italia meridionale

APPROFONDIMENTI (li trovi nella sidebar di destra):
La società italiana nel XIX secolo

mercoledì 11 novembre 2015

70 Il Risorgimento italiano: dalla Seconda guerra d'indipendenza alla conquista di Roma



IL RISORGIMENTO ITALIANO: DALLA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA ALLA CONQUISTA DI ROMA

Nel 1849 divenne re di Sardegna Vittorio Emanuele II di Savoia, che nel 1852 scelse come primo ministro il conte Camillo Benso di Cavour. Costui avviò un’opera di modernizzazione del Regno di Sardegna, facendo costruire le prime ferrovie, potenziando il porto di Genova, favorendo lo sviluppo industriale ed eliminando molti ordini religiosi.

Camillo Benso, conte di Cavour in un ritratto del XIX secolo conservato nel Castello di Sales

Cavour si occupò anche della preparazione della guerra contro l’Austria, con una serie di abili mosse. Prima inviò un corpo di spedizione a partecipare alla guerra di Crimea (1855), in modo da poter intervenire alle trattative di pace, che si tennero a Parigi (1856): qui Cavour accusò l’Austria di provocare con i suoi interventi in Italia una situazione di tensione che avrebbe potuto portare a una rivoluzione. Poi Cavour riuscì a ottenere l’appoggio di Napoleone III, che mirava a estendere l’influenza francese sul Mediterraneo (accordi stipulati a Plombières, in Francia, nel 1858): la Francia sarebbe intervenuta a favore del Regno di Sardegna se questo fosse stato attaccato; al termine della guerra l’Italia sarebbe divenuta una federazione e il Regno di Sardegna avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e Nizza.

Il Congresso di Parigi conclude la guerra di Crimea, olio di Édouard-Louis Dubufe del 1855 circa; Cavour (il primo a sinistra nel dipinto) si alleò con Francia e Inghilterra che erano in guerra 
contro la Russia ed inviò in Crimea 15.000 soldati. In questo modo al Congresso di Parigi poté 
porre all’attenzione generale la «questione italiana»

Gli accordi di Plombières puntavano alla creazione di uno Stato italiano indipendente, in linea con il pensiero di molti patrioti moderati, secondo i quali l’unica possibilità per ottenere la creazione di tale Stato era che re e principi d’Italia si accordassero tra loro per formare una confederazione di Stati. Tra questi moderati si distingueva il filosofo Vincenzo Gioberti, autore di un trattato intitolato Primato morale e civile degli Italiani (1843), in cui sosteneva che il papa avrebbe potuto avere la presidenza di questa federazione. Questa posizione è detta neoguelfismo, perché nel Medioevo i guelfi erano i sostenitori del pontefice nella lotta tra papa e imperatore.
Anche il democratico Carlo Cattaneo credeva che una confederazione fosse l’organizzazione migliore per l’Italia, perché solo una federazione avrebbe rispettato la libertà dei cittadini e permesso loro di autogovernarsi.
Altri patrioti, sia democratici, sia moderati, ritenevano che non una confederazione, bensì uno Stato unitario dovesse sorgere in Italia: questo Stato avrebbe dovuto essere una repubblica per i democratici, o una monarchia per i moderati. Questi ultimi pensavano che i re di Sardegna avrebbero potuto essere a capo del nuovo Stato.
Altri pensavano che si sarebbe raggiunta l’unità italiana solo muovendo guerra all’Austria e che l’esercito di liberazione dovesse essere guidato dal re di Sardegna. Molti democratici, invece, ritenevano che solo una rivoluzione popolare avrebbe portato all’unità d’Italia e alla formazione di uno Stato democratico e repubblicano. Tra costoro vi furono Giuseppe Mazzini, i fratelli Bandiera, Carlo Pisacane e Giuseppe Garibaldi.

Da sinistra: Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini,
tre protagonisti del Risorgimento italiano

Nell’aprile 1859 l’Austria, abilmente provocata da Cavour, attaccò il Regno di Sardegna: fu la seconda guerra d’indipendenza. L’esercito francese, quello sardo e le truppe di volontari guidate da Giuseppe Garibaldi ottennero una serie di vittorie (a Montebello, a Magenta, a Solferino, a San Martino), che portarono alla liberazione della Lombardia.

Gerolamo Induno, La battaglia di Magenta (1862)

Alla notizia dello scoppio della guerra si ebbero rivolte in Emilia, in Romagna e in Toscana, dove le popolazioni richiesero l’unione al Regno di Sardegna.
Napoleone III, probabilmente temendo che si formasse un forte Stato italiano ai confini della Francia, preferì arrivare a un armistizio con l’Austria (armistizio di Villafranca, 8 luglio 1859). La Francia si ritirò dalla guerra e la Lombardia passò al Regno di Sardegna.
In Emilia, Romagna e Toscana le popolazioni votarono l’annessione (= l’unione) al Regno di Sardegna (marzo 1860).

Bettino Ricasoli presenta il plebiscito toscano a Vittorio Emanuele II 
(dipinto di S. Capisanti del XIX secolo)

Nel maggio 1860 una spedizione di circa mille uomini guidata da Giuseppe Garibaldi partì da Quarto (in Liguria) e sbarcò a Marsala (in Sicilia), con l’obiettivo di liberare l’Italia meridionale dal governo dei Borboni. L’esercito garibaldino ottenne diverse vittorie (Calatafimi, Milazzo, Volturno) e, ingrossato da numerosi volontari dell’Italia meridionale (circa 5.000 uomini in Sicilia, 20.000 alla battaglia del Volturno), conquistò tutto il Regno delle Due Sicilie.

Carlo Bossoli, La guerra sul Vulturno, combattimento a Porta Romana presso Santa Maria Maggiore, litografia acquerellata (1860-62)

Garibaldi era un democratico e Cavour temeva che volesse creare uno Stato repubblicano nell’Italia meridionale; inoltre se Garibaldi avesse proseguito nella sua marcia, giungendo a Roma, questo avrebbe provocato un intervento francese, perché Napoleone III proteggeva il papa. Perciò l’esercito piemontese partì per raggiungere quello garibaldino, attraversando il territorio dello Stato della Chiesa e occupando le Marche e l’Umbria (vittoria di Castelfidardo). Garibaldi consegnò il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II (incontro di Teano).

Pietro Aldi, L’incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano (affresco del 1886 nel Palazzo Comunale di Siena)

Nell’ottobre 1860 (nei territori del Regno delle Due Sicilie) e nel novembre dello stesso anno (nelle Marche e nell’Umbria, che facevano parte dello Stato Pontificio) si tennero dei plebisciti (ossia delle votazioni popolari) che confermarono l’unione dei territori conquistati da Garibaldi e dall’esercito piemontese al Regno di Sardegna.
Il 17 marzo 1861 venne poi proclamato il Regno d’Italia, con capitale Torino. Vittorio Emanuele II divenne “re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione”, mentre soltanto tre mesi dopo moriva Cavour. Roma e il Veneto non facevano parte del nuovo Regno.
Esso nacque come Stato unico e fortemente accentratore: le province furono poste sotto il controllo di prefetti, cioè di rappresentanti del governo centrale dotati di grandi poteri, e il governo si preoccupò di uniformare le leggi e l’amministrazione di tutto il Regno. Al nuovo Regno fu esteso lo Statuto Albertino, che garantiva al re pieni poteri e limitava il suffragio ad appena il 2% della popolazione.

L’aula del primo parlamento del Regno d’Italia a palazzo Carignano a Torino

In realtà le differenze all’interno dell’Italia erano molto grandi. Le regioni settentrionali avevano un’agricoltura abbastanza sviluppata, una rete ferroviaria e alcune industrie, per cui era in corso una crescita economica. Nelle regioni meridionali l’agricoltura era molto arretrata e le industrie poco numerose e spesso non competitive.
Molti contadini avevano sperato che il nuovo governo distribuisse le terre a chi le lavorava, ma questo non avvenne e la coscrizione (cioè l’arruolamento nell’esercito) obbligatoria peggiorò le condizioni di vita. Si ebbe perciò, già nel 1861, una rivolta popolare in tutta l’Italia meridionale. Essa è chiamata brigantaggio, perché i gruppi di contadini e di soldati sbandati dell’esercito meridionale formavano bande di briganti, che si rifugiavano sulle montagne e vivevano di furti, aggressioni e ricatti.

I componenti della banda Barile in una fotografia dell’epoca

Il governo non cercò di ridurre la miseria da cui era nata la rivolta, ma attuò una durissima repressione militare: vennero approvate leggi d’emergenza e l’esercito fece arresti di massa, fucilazioni immediate, distruzione di interi paesi. Questi provvedimenti misero fine al brigantaggio (1865), senza che le condizioni di vita dei contadini venissero migliorate.
Nel 1866 la Prussia, che preparava una guerra contro l’Austria, strinse un’alleanza militare con l’Italia: in questo modo per l’Austria si sarebbe aperto un secondo fronte di guerra e l’esercito austriaco avrebbe dovuto dividersi per schierarsi su due linee di combattimento. La Prussia sconfisse l’Austria e l’Italia poté ottenere il Veneto e il Friuli, nonostante la sconfitta subita dall’esercito a Custoza e dalla marina a Lissa: questa guerra viene chiamata terza guerra d’indipendenza.

Litografia colorata del 1866 ca. di Pinot e Sagaire, raffigurante la Battaglia navale di Lissa.
Nella stampa compaiono soltanto velieri, ma la battaglia di Lissa fu uno dei primi grandi scontri 
sul mare in cui vennero impiegate navi a vapore corazzate

Roma, sotto il controllo del papa, era difesa da una guarnigione francese e Napoleone III non avrebbe accettato che il papa venisse privato del suo dominio, perché avrebbe perso l’appoggio dei cattolici francesi. Perciò quando Garibaldi cercò di conquistare Roma (1862 e 1867), fu lo stesso esercito italiano a fermarlo. Ma quando la Francia fu sconfitta dalla Prussia nella guerra che scoppiò nel 1870, le truppe italiane poterono entrare facilmente a Roma, che divenne la nuova capitale del Regno, dopo Torino (che lo era stata dal 1861 al 1865) e dopo Firenze (dal 1865 al 1871).

La breccia di Porta Pia in una litografia colorata dell’epoca.
Il 20 settembre 1870 i soldati del generale Raffaele Cadorna, dopo aver vinto la debole resistenza delle truppe pontificie, sfondarono a cannonate le mura presso Porta Pia a Roma

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Il Risorgimento italiano parte seconda




lunedì 19 ottobre 2015

69 Il Risorgimento italiano: dalla Restaurazione alla Prima guerra d'indipendenza


Il Congresso di Vienna eliminò gli Stati  che erano sorti nel territorio italiano per iniziativa di Napoleone e restituì i loro domini ai sovrani che vi regnavano nel Settecento: l’Italia meridionale (Regno delle Due Sicilie) alla dinastia dei Borboni; il Regno di Sardegna (che acquistò anche il territorio della Repubblica di Genova) ai Savoia; lo Stato della Chiesa al papa.
L’Austria, che già controllava una parte dell’Italia, ampliò i suoi domini: i territori dei ducati di Milano e di Mantova e quello della Repubblica di Venezia formarono il Regno del Lombardo-Veneto, dipendente direttamente dall’Austria; i granducati di Toscana, Parma e Piacenza, Modena e Lucca furono assegnati ai rami diversi della dinastia degli Asburgo. Facevano inoltre parte dei domini austriaci anche il Trentino, Trieste, Zara e le città italiane dell’Istria.


L’applicazione dei principi della Restaurazione in questi Stati fu sicuramente facilitata dalla presenza di una larga parte di popolazione che viveva nella indigenza materiale e nell’assenza di ogni formazione culturale. Ciò nonostante una ristretta percentuale di italiani, pur divisa nella lingua, dato che si esprimeva nei vari dialetti locali, e pur priva di una stampa libera capace – come avveniva in altre nazioni europee – di creare una efficace propaganda politica, riuscì a smuovere la situazione socio-economica.
Infatti nei trent’anni successivi al dominio napoleonico l’Italia cambiò profondamente: innanzitutto la popolazione crebbe rapidamente, grazie al miglioramento della qualità della vita, soprattutto nel nord Italia, dovuto ai progressi della medicina e dell’igiene e al maggior reddito conseguente all’applicazione di nuove tecniche agricole. Furono costruiti e potenziati acquedotti e fognature e le sepolture cominciarono ad essere effettuate in cimiteri fuori città, anziché in fosse, con conseguente diminuzione di epidemie e infezioni.


Non si registrarono, invece, progressi nel campo dell’istruzione: oltre tre quarti della popolazione italiana era analfabeta (il 54,2% nel nord Italia, il 75% al centro, il 90% al sud). La popolazione era dotata, quindi, solamente di una cultura orale e solo una piccola parte dei cittadini poteva leggere libri, manifesti e giornali. Il sistema scolastico presentava enormi differenze tra i diversi Stati: la scuola pubblica era stata introdotta soltanto in Piemonte, che aveva una scuola elementare gratuita e obbligatoria. In Lombardia esistevano numerose scuole private, mentre negli altri Stati l’insegnamento era in gran parte curato dalla Chiesa.

Giuseppe Costantini, La scuola del villaggio (1870 circa)

Gli Stati italiani erano economicamente poco sviluppati e l’agricoltura era ovunque l’attività principale. Nell’Italia meridionale l’agricoltura era particolarmente arretrata per la presenza dei latifondi, grandi proprietà in mano ai nobili ma anche ai borghesi, i quali non erano interessati ad alcun miglioramento e innovazione nella produzione e facevano lavorare le campagne in maniera non dissimile dai tempi del feudalesimo. Qui erano numerosi i braccianti, cioè contadini che avevano un lavoro solo stagionale e vivevano in condizioni di estrema miseria.
Nella Pianura Padana era invece praticata un’agricoltura con maggiori investimenti, che aveva rese più alte, e le condizioni di vita dei contadini, per quanto molto dure, erano meno drammatiche. Nel nord, del resto, erano numerosi i borghesi (professionisti, imprenditori o commercianti) che avevano acquistato terre dai nobili o in seguito all’esproprio dei beni ecclesiastici avvenuto ai tempi di Napoleone. Questi borghesi portavano nelle loro tenute agricole la stessa mentalità imprenditoriale che li animava nelle restanti loro imprese: investimento di capitali, propensione alle innovazioni tecniche, ricerca delle condizioni ottimali dell’azienda.

La messe, dipinto ottocentesco di Francesco Netti

Le attività artigianali e commerciali, per cui un tempo le città italiane erano state ai primi posti in Europa, avevano perso la loro importanza e la divisione del territorio in tanti Stati impediva uno sviluppo economico: ogni Stato, infatti, aveva un mercato interno troppo ridotto per favorire lo sviluppo di imprese artigianali e il commercio tra Stati era ostacolato dalle forti tariffe doganali, ossia le tasse che i vari governi imponevano sulle merci straniere che entravano nei loro territori. Perciò anche lo sviluppo industriale fu molto limitato, sebbene nell’Italia settentrionale si sia registrato un significativo incremento delle industrie tessili (seta e cotone in Lombardia, anche lana in Piemonte), che fece da traino anche all’industria metallurgico-meccanica e a quella cantieristica a Genova. Quasi inesistente fu la crescita industriale nello Stato pontificio, mentre nel Regno delle Due Sicilie i progressi nell’industria tessile e in quella metallurgica non riuscirono a far fronte alla concorrenza internazionale, molto più agguerrita. Qui venne aperta la prima linea ferroviaria italiana (7 chilometri da Napoli a Portici nel 1839), ma ciò avveniva con notevole ritardo rispetto ad altri Stati europei.

Una stampa del XIX secolo raffigurante il tratto appenninico della ferrovia Torino-Genova

Ma proprio il fatto che il territorio italiano fosse diviso in tanti Stati, unito alla mancanza delle più elementari libertà, per giunta ostacolate dai governi nati con la Restaurazione, diedero un forte impulso in Italia al liberalismo e al nazionalismo. Molti patrioti speravano in un Risorgimento dell’Italia, cioè in una rinascita, che avrebbe portato alla formazione di uno Stato italiano unito e indipendente dal dominio asburgico.
Le idee liberali e nazionaliste si diffusero soprattutto tra la borghesia, la quale era meno numerosa e potente in Italia rispetto ad altri Stati europei, ma operò per dar vita ad associazioni segrete, che perseguivano proprio gli scopi di questo Risorgimento; la più importante di queste associazioni segrete fu la Carboneria, il cui programma era noto solo ai suoi affiliati (cioè aderenti).

“Il Risorgimento” fu anche il nome di un giornale politico pubblicato in Piemonte tra il 1847 e il 1852; sopra la prima pagina del 23 marzo 1848

La Carboneria ispirò anche le prime rivolte (1820-21: Napoli, Sicilia, Piemonte). Questi tentativi rivoluzionari e quelli successivi del 1830 (Modena, Parma, Stato Pontificio) fallirono, sia perché non ci fu una vasta partecipazione popolare, sia perché l’esercito austriaco intervenne a reprimerli.
Nel 1830 Giuseppe Mazzini fondò un’associazione chiamata Giovine Italia, che aveva un programma pubblico, ma i cui membri dovevano agire segretamente, per evitare arresti e condanne.
Vi furono ancora due tentativi di provocare un’insurrezione popolare nell’Italia meridionale (spedizione dei fratelli Bandiera nel 1844 e di Carlo Pisacane nel 1857), che però non ottennero il risultato voluto.

La fucilazione dei fratelli Bandiera (l’episodio accadde nel 1844) in una litografia acquerellata
del terzo quarto del XIX secolo

Nel 1848 anche in Italia si ebbero rivolte, che costrinsero i re a concedere costituzioni, come avveniva in diversi Stati europei.
Quando la rivolta scoppiò anche a Milano (le cinque giornate di Milano del marzo 1848) e a Venezia e le truppe austriache furono costrette a ritirarsi, il re di Sardegna, Carlo Alberto, dichiarò guerra all’Austria, nella speranza di unificare l’Italia settentrionale: fu questa la prima guerra d’indipendenza, in cui le truppe sarde, con la partecipazione di volontari di tutte le regioni, ottennero alcune vittorie, ma la superiorità dell’esercito austriaco costrinse Carlo Alberto alla resa (1848 e 1849).
Le rivolte ancora in corso, in particolare a Roma e a Venezia, dove erano stati formati governi repubblicani, furono soffocate (1849), a Roma dalle truppe francesi, a Venezia da quelle austriache. L’Italia ritornò così sotto i suoi sovrani, che perseguitarono i patrioti. I re ritirarono le costituzioni concesse, ad eccezione del re di Sardegna: lo Statuto Albertino (così chiamato perché concesso da Carlo Alberto) rimase in vigore e negli anni seguenti il Regno di Sardegna fu l’unico Stato costituzionale dell’Italia.

La pagina iniziale dello Statuto Albertino

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Il Risorgimento italiano parte prima



mercoledì 14 ottobre 2015

68 Europa e Nord America nella prima metà dell'Ottocento



EUROPA E NORD AMERICA NELLA PRIMA METÀ DELL’OTTOCENTO

Nel periodo della Restaurazione i governanti dei vari Stati europei cercano di far rivivere le condizioni esistenti prima della rivoluzione francese e di Napoleone, ricorrendo spesso alla repressione attuata dalle proprie forze di polizia; però la loro azione è destinata al fallimento, non solo per l’opposizione netta della borghesia, ma anche perché sia in Europa sia nel Nord America diverse e profonde trasformazioni stanno avvenendo in campo economico e sociale.
Le industrie tessili, che erano comparse in Inghilterra nel Settecento, incominciarono a diffondersi negli U.S.A. e negli Stati europei più ricchi: qui infatti c’erano maggiori capitali, che potevano essere investiti nella costruzione di fabbriche e nell’acquisto delle macchine necessarie per la produzione. Di conseguenza Stati Uniti, Francia, Germania, Paesi Bassi e Svizzera divennero anch’essi Stati industrializzati, anche se a livelli ancora molto inferiori a quelli inglesi.
Soltanto nella seconda metà dell’Ottocento l’industrializzazione di questi Paesi fu così ampia, da far parlare gli storici di una “seconda rivoluzione industriale”.

La città borgognone di Le Creusot nel 1847; la Francia fu, dopo l’Inghilterra, il primo Stato europeo a conoscere una forte industrializzazione

Nel primo Ottocento vi fu un’innovazione destinata a trasformare profondamente la società in Europa e negli U.S.A.: l’invenzione della locomotiva, nel modello di Stephenson del 1814. Con la locomotiva nacque il treno, dapprima utilizzato per il trasporto delle merci e poi (1825) per quello dei passeggeri. Nel 1830 fu completato il primo collegamento ferroviario tra le città inglesi di Liverpool e Manchester.

La prima ferrovia inglese tra Liverpool e Manchester: in alto un convoglio di prima classe, 
in basso uno di seconda classe

Gli Stati fecero grandi investimenti per realizzare una rete ferroviaria, che permetteva trasporti più rapidi a costi inferiori e non si preoccuparono minimamente delle grandi trasformazioni del paesaggio (spesso negative) che derivavano dalla costruzione di chilometri di binari. Negli Stati Uniti le ferrovie, che vennero costruite nella seconda metà del XIX secolo, attraversavano spesso i territori dei nativi americani, i quali non vedevano di buon occhio quei treni che attraversavano le praterie sbuffando fumo dalle locomotive e spaventando le mandrie di bisonti che erano fondamentali per il loro sostentamento.

L’apertura della ferrovia da Darlington a Stockton nel 1825 (stampa di J.R. Brown del 1888)

Intanto l’applicazione della macchina a vapore stava trasformando la navigazione: i battelli a vapore, in grado dal 1819 di attraversare anche l’oceano, affiancarono i velieri, per poi sostituirli del tutto prima della fine del secolo.
Il treno e i battelli a vapore portarono a un grande sviluppo del commercio nazionale e internazionale, perché mentre prima trasportare un prodotto in una località lontana richiedeva grandi spese, ora i costi di trasporto si ridussero. Perciò i prezzi divennero più simili, sia all’interno di ogni Stato, sia anche all’interno dell’Europa, perché se un prodotto costava molto di più in una regione, esso veniva fatto arrivare dalle regioni in cui costava di meno.

Velieri e battelli di metà del XIX secolo

In ogni regione perciò vennero abbandonate le produzioni (agricole e industriali) che non erano competitive (cioè che non reggevano la concorrenza) e ci fu una specializzazione produttiva: in ogni regione si investiva soprattutto nella produzione di quei prodotti agricoli e industriali che era possibile produrre a bassi costi e poi vendere anche in altre regioni e in altri Stati.
Lo sviluppo delle industrie e della rete ferroviaria in alcuni Stati ne favorì la crescita economica, mentre gli Stati che non avevano industrie e ferrovie rimasero fortemente arretrati. Si creò perciò una differenza sempre più forte tra le regioni e gli Stati industrializzati, che accumularono grandi ricchezze, e quelli più poveri, in cui non vi era sviluppo e in cui potevano verificarsi ancora annate di scarso raccolto, che portavano alla miseria e alla morte per fame intere popolazioni, come accadde in Irlanda, con la grande carestia del 1845-1847, che causò oltre 700.000 morti.

Un’illustrazione del 1900 di autore sconosciuto sulla grande carestia irlandese

Nei Paesi industrializzati l’asse della produzione di spostò dalla campagna alla città, determinando un progressivo incremento della popolazione urbana e un calo della popolazione rurale.
Anche la società degli Stati industrializzati si modificò profondamente. Si formò una borghesia di proprietari di industrie, banche, miniere e imprese commerciali, che controllava l’economia e accumulava grandi ricchezze. Divennero  numerosi anche gli impiegati, che lavoravano sia nelle imprese commerciali e nelle banche, sia nell’amministrazione pubblica, mentre diminuì sensibilmente il numero dei contadini e degli artigiani e la nobiltà perse definitivamente il proprio potere economico.
Nelle città vi fu un grande aumento del numero di operai che lavoravano nelle fabbriche e di minatori nelle miniere. Essi formavano un proletariato urbano sempre più numeroso, ma poiché vivevano in condizioni di grande povertà (dato che allora la borghesia non aveva limiti nello sfruttamento del lavoro operaio), era più che naturale che essi cercassero di organizzarsi per migliorare la propria condizione.

Operai in una fonderia inglese del XIX secolo

La “questione sociale” (come venne chiamato il problema delle condizioni di vita dei proletari) fu al centro di molte polemiche e portò alla nascita di movimenti e partiti, che cercavano di trovare una soluzione alla povertà di grandi masse di popolazioni. Proprio perché si occupavano della “questione sociale” questi movimenti e partiti vennero chiamati complessivamente socialisti e due di essi in particolare furono importanti nella prima metà dell’Ottocento.
Il primo fu quello dei cartisti, che prese le mosse nel 1836 da un gruppo di operai inglesi che fondarono la società operaia di Londra. Nel 1837 alcuni di essi, capeggiati da William Lowett, un operaio tessile, formularono per la prima volta un chiaro manifesto con le rivendicazioni della classe operaia: salari più elevati, diritto di sciopero, assistenza ai malati, agli invalidi, ai disoccupati, ai vecchi. Essi inoltre volevano dar vita a un partito politico della classe operaia, che (grazie al diritto di voto esteso anche ai proletari) potesse eleggere i propri rappresentanti in Parlamento. I cartisti (così chiamati perché THE PEOPLE’S CHARTER era il nome del documento con cui avanzavano le loro richieste) furono i fondatori di quello che viene chiamato socialismo riformista, che voleva battersi per le proprie conquiste rimanendo all’interno delle libertà parlamentari.

La Carta del Popolo (The People’s Charter) del 1838

Il secondo movimento nacque più o meno negli stessi anni in Francia e portò a quello che viene chiamato socialismo rivoluzionario; ebbe origine dall’azione di Louis-Auguste Blanqui, che organizzò una serie di gruppi, il cui scopo doveva essere il rifiuto radicale della società borghese e il rovesciamento di essa mediante la rivoluzione, cioè mediante il ricorso ad azioni violente.
Più tardi, nel 1848, nacque anche il cosiddetto socialismo scientifico, o anche comunismo, poiché basato su un libretto scritto da due filosofi ed economisti tedeschi, Karl Marx e Friedrich Engels, intitolato “Manifesto del Partito Comunista” (se ne parlerà in una prossima lezione).

Louis-Auguste Blanqui (a sinistra) e Karl Marx


sabato 3 ottobre 2015

67 I moti rivoluzionari in Europa e in America nella prima metà dell'Ottocento



La diffusione del nazionalismo e del liberalismo portò a diverse rivolte, guidate di solito dalla borghesia e chiamate complessivamente "moti rivoluzionari".
In America tra il 1810 e il 1824 le colonie spagnole si ribellarono al dominio della madrepatria, sconfiggendo l'esercito spagnolo e dando vita a molti nuovi Stati: solo Cuba rimase sotto il controllo della Spagna.

Gli Stati che si formarono nell’America Centro-meridionale all’inizio del XIX secolo

In Europa vi furono rivolte tra il 1820 e il 1848 in numerosi Paesi: Spagna, Portogallo, Italia, Grecia, Russia, Francia, Belgio, Polonia, Svizzera.
Le prime rivolte, ispirate alle idee liberali, scoppiarono nel biennio 1820-21 e inizialmente ottennero alcuni successi, ma alla fine furono soffocate, soprattutto per l'intervento della Francia (in Spagna) e della Santa Alleanza (in Italia), i cui eserciti aiutarono i sovrani a riprendere il potere. I re ritirarono le costituzioni che avevano dovuto concedere e fecero arrestare e spesso giustiziare i capi delle rivolte.
I Greci si ribellarono al dominio turco (1822) e con una lunga guerra d'indipendenza, grazie anche al sostegno delle potenze europee, liberarono parte del loro territorio: nacque così il Regno di Grecia (1830).

Eugène Delacroix, Il massacro di Scio:
in questo dipinto del 1824 è rappresentato uno degli eventi repressivi dei Turchi contro la Grecia

Nel dicembre 1825 in Russia alcuni patrioti cercarono di indurre alla ribellione la guarnigione di Pietroburgo, che doveva prestare giuramento al nuovo zar Nicola I. il movimento decabrista, così chiamato dal mese in cui esplose la rivolta, fallì e i congiurati furono condannati a morte o esiliati in Siberia.
Alcune delle rivoluzioni del 1830 ebbero successo. In Francia il re Carlo X, che aveva cercato di eliminare le libertà esistenti, fu costretto a fuggire (1830); venne perciò scelto un nuovo sovrano, Luigi Filippo d'Orléans, e le libertà dei cittadini vennero ampliate da una nuova carta costituzionale, che aumentò il numero degli elettori (passati a oltre 200.000).
Quando si diffuse la notizia della rivoluzione parigina, anche i polacchi si sollevarono. La rivolta partì da Varsavia e dilagò in tutta la Polonia; i liberali polacchi speravano nell'appoggio della Francia, che non intervenne e la rivolta fu soffocata dall'esercito russo.
Il Belgio si staccò dai Paesi Bassi, dando vita a un nuovo Stato. Altre rivolte, come quelle italiane e quella polacca, furono invece soffocate.

Jean-Victor Schnetz, Combattimenti all’Hotel de Ville di Parigi del 28 luglio 1830

Nuove rivoluzioni, che coinvolsero gran parte dei Paesi europei, si verificarono nel 1848: furono così numerose e violente da far nascere nella lingua italiana l'espressione "fare un quarantotto", nel significato di "provocare un grande disordine". Esse si manifestarono in un periodo in cui era in corso una grave crisi agricola (malattia delle patate dal 1845 e cattivo raccolto del grano del 1846): l'aumento dei prezzi dei generi alimentari aveva provocato un peggioramento delle condizioni di vita della popolazione e la situazione si era aggravata a causa di una delle frequenti crisi industriali, che si verificavano periodicamente negli Stati industrializzati. Vi era perciò un forte malcontento popolare, che spinse molti operai e contadini a partecipare a queste rivoluzioni.
La rivoluzione ebbe inizio a febbraio in Francia, dove fu scatenata dalla decisione del re Luigi Filippo di proibire una riunione politica. Tra il 22 e il 24 febbraio imponenti manifestazioni popolari costrinsero il re a fuggire e il parlamento a proclamare la repubblica (la seconda dopo quella del 1792).
La notizia del successo della rivoluzione in Francia provocò rivolte in moltissime città europee (tra cui Milano, Palermo, Napoli, Berlino, Vienna, Budapest, Praga): ovunque si innalzarono barricate (ossia dei ripari costruiti con materiali diversi con cui si bloccava il passaggio, solitamente in una via cittadina, dell'esercito) e ci furono scontri armati tra cittadini e truppe regolari.

Barricate a Vienna nel 1848

In molti Stati i sovrani furono costretti a concedere una costituzione che accoglieva alcuni dei principi liberali. Nelle rivoluzioni del 1848 furono molto forti anche le rivendicazioni nazionaliste: in Italia, in Germania, in Ungheria e in Boemia (l'attuale Repubblica Ceca) molti rivoluzionari richiedevano l'indipendenza e l'unità della loro patria.
In Francia gli operai delle industrie che partecipavano ai moti rivoluzionari reclamavano una riduzione dell'orario in fabbrica e il riconoscimento del diritto ad avere un lavoro. In un primo tempo le loro richieste vennero accolte: vennero creati dei centri di lavoro (detti Ateliers Nationaux) per gli operai disoccupati e la giornata lavorativa fu ridotta a dieci ore. Inoltre la nuova costituzione allargò il diritto di voto, introducendo il suffragio universale maschile a voto segreto: si passò quindi da 246.000 elettori a 10 milioni.
Le nuove leggi spaventarono la borghesia, che vedeva danneggiati i propri interessi e temeva di perdere il potere conquistato, ma poiché la rivoluzione coinvolgeva il proletariato solo a Parigi, le prime elezioni a suffragio universale portarono a un Parlamento controllato dalla borghesia e a un governo conservatore, cioè contrario alle innovazioni. I centri di lavoro vennero eliminati e le libertà dei cittadini limitate e questo provocò una nuova rivolta popolare (giugno 1848), che venne stroncata con una feroce repressione.

Barricate a Parigi nel 1848

Le elezioni del 1849 portarono al potere Luigi Napoleone Bonaparte, un nipote di Napoleone; egli attuò un colpo di stato, impadronendosi del potere nel 1851, e nel 1852 si proclamò imperatore con il nome di Napoleone III (secondo impero, dopo quello di Napoleone).

Alfred De Dreux, Ritratto di Napoleone III

Anche negli altri Stati europei le rivoluzioni vennero soffocate, ma esse portarono comunque a cambiamenti importanti: in Prussia e nell'Impero Austriaco vennero eliminati i residui del feudalesimo; venne concessa una costituzione in Prussia, nel Regno di Sardegna, nei Paesi Bassi, in Belgio e in Austria (revocata nel 1851, ma rimessa in vigore con poche modifiche nel 1867). Nella seconda parte del secolo gran parte di queste trasformazioni politiche vennero estese anche ad altri Stati europei.
Le aspirazioni nazionaliste non furono soddisfatte: l'Italia e la Germania rimasero divise in tanti Stati, l'Ungheria e la Boemia non ottennero l'indipendenza.

Un rivoluzionario sottoposto a tortura in seguito ai moti indipendentisti siciliani del 1820 (dipinto del secolo XIX)