Sport nel Medioevo: gli antenati del calcio

GLI ANTENATI DEL CALCIO

LA SOULE

Fin dal XII secolo nella Francia del Nord e in Cornovaglia (Inghilterra) si praticava soprattutto nelle campagne un gioco di palla, chiamato soule (o anche choule); non vi erano limiti al numero di partecipanti, infatti ogni squadra era formata da tutti gli uomini «validi» dei due o più villaggi o parrocchie che si sfidavano. Per questo poteva accadere regolarmente che il campo da gioco fosse invaso da centinaia di persone urlanti che si azzuffavano rincorrendo una palla.
In campo, dunque, potevano trovarsi anche più di duecento persone, che con queste partite festeggiavano le più diverse ricorrenze: un’occasione religiosa, o il raccolto agricolo, una nascita o un matrimonio (e in questo caso le due squadre avversarie erano quelle degli scapoli e degli ammogliati).

Una partita di soule in Bassa Normandia (dettaglio da un’incisione del 1852)

Questa era in cuoio o in vescica di maiale, riempita di crusca, fieno, muschio o crine di cavallo, a seconda di ciò che la stagione e le possibilità economiche dei giocatori offrivano. Il campo da gioco aveva dimensioni variabili dalla decina alle centinaia di metri e includeva anche fossati, ruscelli, boschi, stagni o zone paludose. Una cronaca dell’epoca racconta che quaranta uomini annegarono in una palude nel corso di una partita di soule a Pont-l’Abbé.
La metà campo, il luogo dove aveva avvio il gioco, poteva essere il confine tra due parrocchie, la piazza principale del villaggio, il sagrato della chiesa, ma anche il cimitero o il castello del signore locale.

L’inizio di una partita di soule, in Bretagna, in una illustrazione da Breiz-Izel, ou vie des Bretons de l’Armorique (XIX secolo)

Anche se un incontro di soule si organizzava con intenti ludici e per festeggiare un avvenimento importante, non mancava la violenza: era infatti uno sport molto combattuto, una specie di mix di calcio e rugby. L’obiettivo di ciascuna squadra era quello di spingere la palla verso la porta avversaria (spesso costituita da una semplice riga sul terreno o rappresentata dalla piazza del villaggio avversario), usando mani, piedi o bastoni. Era frequente spaccarsi il naso, slogarsi una caviglia, rompersi un braccio, anche perché non esistevano penalità per il gioco violento, anzi, le ferite venivano mostrate con orgoglio da chi si era battuto fieramente sul campo, spesso anche per più giorni.
Nemmeno i divieti reali – tra cui quello del 1365 di Carlo V di Francia – né le minacce di scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche riuscirono a porre un freno alla pratica di questo gioco e all’entusiasmo che esso scatenava. Un gioco che coinvolgeva anche la nobiltà e il clero, tanto che nelle campagne francesi la soule sopravvisse fino agli inizi del XX secolo.

Incontro moderno di rugby strobet, un gioco bretone derivato dalla soule

IL KNATTLEIKR

Anche i Vichinghi – che non erano costantemente intenti a compiere scorrerie e a ubriacarsi di idromele – giocavano a palla, nell’estremo Nord dell’Europa, in Islanda, Scandinavia e Danimarca. In particolare gli uomini, giovani e adulti, praticavano il knattleikr: poco loquaci per natura, i Vichinghi non ne hanno lasciato ampie descrizioni, ma da alcune saghe nordiche sappiamo che era uno sport in cui gli atleti, divisi in due squadre, ciascuna con un capitano, si contendevano una palla dura e pesante. Obiettivo dell’incontro era riuscire a portare la palla all’estremità del campo avversario, colpendola a mani nude o con un bastone.

Incisione del 1763 di Hans Egede raffigurante giochi con la palla dalla Description et Histoire naturelle du Groenland

Il gioco era regolato da un preciso codice di possibili falli e infrazioni: non era però punito il contatto con l’avversario, anzi, lo scontro era alla base della competizione stessa e nelle lotte che avvenivano in campo era il più forte ed esperto ad avere la meglio. E non si trattava solo di una battaglia giocata a pugni e placcaggi, ma anche condita da espressioni colorite: urla di guerra e minacce accendevano il parapiglia sul terreno di gioco e l’intimidazione era una delle armi utilizzate contro gli avversari, tanto quanto la sopraffazione fisica. Per giocare, si adottava una mise apposita, antenata delle moderne divise sportive.

Un’altra incisione dalla Description et Histoire naturelle du Groenland di Hans Egede

Questi eventi duravano dalla mattina a notte fonda, in tornei che potevano protrarsi per settimane, coinvolgendo clan provenienti anche da territori molto lontani. Il pubblico che vi assisteva numeroso partecipava attivamente con invettive e incitamenti, circondando il terreno di gioco accuratamente delimitato. A seconda della stagione, il knattleikr si disputava su campi erbosi o sul ghiaccio: in quest’ultimo caso i Vichinghi cospargevano le suole dei loro stivali di bitume o di sabbia, per garantirsi una maggiore aderenza al suolo.
Tuttavia, che fosse erba o ghiaccio, la consistenza del terreno non impensieriva gli atleti: era il gioco stesso a essere duro e violento, senza esclusione di colpi, tanto che anche la legislazione dell’epoca cercava di salvaguardare l’incolumità dei partecipanti: un codice del XII secolo (il Grágás) annotava che ogni partecipante al knattleikr poteva abbandonare il campo in qualsiasi momento (ma in questo caso il suo onore usciva malconcio dallo scontro, forse quanto il corpo).

Partite di knattleikr giocate oggi

IL CNAPAN

Nel mondo celtico era diffuso anche prima del IX secolo il cnapan (o knappan), un gioco tradizionale gaelico che affondava le sue radici nella cultura celtica e che, in seguito all’evangelizzazione dell’isola britannica, finì con il coincidere con la celebrazione delle principali festività cristiane.
Del resto documenti del II e del III secolo narrano che i Germani sfidavano spesso i Romani non solo sul campo di battaglia, ma anche in prove di abilità, tra cui i giochi con la palla: segno che la passione per questo tipo di sport era molto radicata nel mondo celtico.

Due giovani giocano a palla in un intaglio su legno del 1350 circa nella cattedrale di Gloucester (Inghilterra)

Il cnapan si giocava con una palla di legno, che, la notte prima della partita, veniva intrisa di unto, facendola bollire per almeno dodici ore nel grasso di maiale o di altri animali, così da renderla viscida e sfuggente, quasi impossibile da agguantare e colpire con i piedi, aumentando il livello di difficoltà del gioco e rendendolo imprevedibile.
Le regole di questo gioco non erano molto diverse da quelle dei giochi prima descritti: due squadre si fronteggiavano, composte da giovani e adulti di uno o più villaggi, con l’obiettivo di aggiudicarsi la palla e conquistare l’estremità del campo avversario. Non c’erano limiti alla foga con cui la palla poteva essere conquistata: soltanto l’uccisione di un avversario veniva considerata eccessiva. In caso di pericolo, le regole non scritte della competizione prevedevano che il gioco potesse essere fermato gridando: «Heddwch!», ossia «Pace!». Ma bisognava non abusare di queste interruzioni, perché venivano considerate un fallo gravissimo, se erano richieste per motivi futili. È per questo che i giocatori preferivano dichiarare chiusa la partita solo a notte fonda, anche se magari erano malconci e pieni di contusioni.

Incisione (forse di età elisabettiana) con alcuni nobili che giocano con una palla

Il cnapan veniva giocato in particolare in occasione del carnevale; di sicuro già a partire dall’XI secolo, sia nei villaggi di tutta la Britannia, sia nelle piazze di Londra, si organizzavano giochi con la palla nei giorni di Shrovetide, che è il nome con cui nei Paesi anglosassoni si identificava il carnevale cristiano.
Inizialmente i sovrani non ostacolarono la pratica del gioco, così diffuso nel territorio, anzi, in alcune occasioni vi partecipavano più o meno attivamente; secondo la letteratura epica lo stesso re Artù subì il fascino di questo gioco. Dal XIII-XIV secolo, però, questo sport – ormai diffuso con il nome di large football – venne visto come fattore di disordine e possibile sovversione sociale e quindi venne duramente represso, anche se con esiti praticamente nulli.

Ancora oggi ad Ashbourne (Derbyshire – Regno Unito) si gioca lo Shrovetide football

IL CALCIO FIORENTINO

Un poemetto anonimo del Quattrocento è la prima testimonianza scritta di un gioco che creava scompiglio, probabilmente da almeno un secolo, per le strade di Firenze: il calcio fiorentino.
Il gioco veniva praticato soprattutto nelle piazze cittadine, tant’è che ancora oggi, a distanza di secoli, è possibile leggere su qualche muro alcuni divieti «al giuoco di palla e pallottole et ogni altro strepitoso». Ma ogni posto e occasione erano buoni per fare una partita: si narra addirittura che nel 1490, durante un inverno particolarmente rigido, l’Arno si sia ghiacciato e sia stato utilizzato per giocarvi una partita.
Nel calcio fiorentino – un mix di calcio e rugby in cui la palla poteva essere colpita sia con i pugni sia con i piedi – due erano le squadre in campo, composte generalmente da ventisette giocatori in livrea: l’attività di ciascun atleta – anzi, dei «calcianti», com’erano chiamati all’epoca – sul campo da gioco non era casuale, ma dettata dal ruolo rivestito all’interno del proprio schieramento. In ciascun gruppo, infatti, vi era giocatori specializzati, proprio come succede nel calcio moderno.

Calcio fiorentino a Santa Croce nel 1688

La formazione tipo prevedeva solitamente 15 Innanzi (i moderni attaccanti), 4 Sconciatori (centrocampisti) e 8 Datori, suddivisi in Datori innanzi (terzini e trequartisti) e Datori indietro (difensori), uno dei quali aveva la funzione di evitare la caccia, ossia il gol, ed era l’unico che potesse usare le mani per lanciare la palla. Il grande numero di partecipanti (potevano arrivare anche a 40 per squadra) richiedeva la presenza di ben sei arbitri, i quali, dall’alto di una tribuna laterale, supervisionavano il gioco, cercando di scongiurare che la competizione sfociasse in rissa.
Ufficialmente per evitare queste degenerazioni, ma più probabilmente per permettere ai nobili di godere di un privilegio in più, il calcio fiorentino poteva essere praticato solo da gentiluomini iscritti in un apposito elenco comunale, riservato ai più degni. Così, come in un antico album di figurine, tra i calciatori dell’epoca compaiono i nomi altisonanti dei signori delle corti italiane, quali Cosimo I granduca di Toscana, Alessandro duca di Firenze, Lorenzo duca d’Urbino e anche di futuri pretendenti al soglio pontificio. Persino tre futuri pontefici (Giulio de’ Medici, che divenne papa col nome di Clemente XII, Alessandro de’ Medici ossia Leone XI e Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII) da giovani praticarono il calcio fiorentino, azzuffandosi per la vittoria tra le grida del pubblico in occasione di banchetti nuziali o feste civiche. Piero de’ Medici applicò un vero e proprio mecenatismo anche all’ambito calcistico, attirando a Firenze i giocatori più dotati del tempo.

Gioco del calcio in Piazza S. Maria Novella, di Giovanni Stradano (1562-1572)

Il fatto che il gioco fosse molto “vivace”, il suo carattere campanilistico, la sua associazione al periodo carnevalesco, nonché l’avversione contro di esso di alcuni nobili in certi momenti, anziché diminuire la sua diffusione, l’aumentarono. Proclami e divieti non impedivano alla gente comune di scendere in strada per giocare a palla ogni volta che se ne presentava l’occasione. A mettere fine ai giochi non riuscirono neppure guerre e privazioni, come accadde il 17 febbraio del 1530, quando in piazza Santa Croce – nella Firenze dichiarata repubblica dopo la cacciata dei Medici – i giovani della città si misero audacemente a giocare a pallone, a ridosso delle mura cannoneggiate dall’esercito imperiale di Carlo V, che voleva restaurare la signoria nel capoluogo toscano.

Un incontro di calcio fiorentino storico, come viene giocato annualmente a Firenze ai giorni nostri

Il calcio fiorentino ebbe un forte potere di contagio, infatti si diffuse gradualmente in tutte le principali città italiane, con una notevole serie di varianti. Ad esempio, se a Firenze si usavano piccoli palloncini che venivano percossi con il pugno armato di un guanto, a Prato si usavano palloni grossi, colpiti col calcio e solo raramente col pugno.
A Bologna nel 1580 il Protonotaro apostolico (un particolare rappresentante papale in città, allora parte dello Stato della Chiesa) dovette bandire dalla città emiliana quel «gioco del calzo, gioco di palla simile al calcio fiorentino», per poter ristabilire l’ordine in città ed «evitare risse, scandali et inimicizie». L’editto rimase però inascoltato e a Bologna continuò a spopolare questo gioco del calzo, così chiamato perché le squadre che si affrontavano sul terreno di gioco indossavano calze di colore diverso, così da distinguersi meglio nelle feroci mischie.
Insomma: ieri come oggi il gioco con la palla, nelle sue molteplici varianti, piaceva ovunque. Persino in Giappone, dove, a partire dall’VIII secolo, si era affermato tra la nobiltà un raffinato gioco a squadre, chiamato kemari. In esso tutti i giocatori collaboravano con l’obiettivo di mantenere la sfera in gioco, palleggiandola con le diverse parti del corpo: testa, piedi, ginocchia, schiena e gomiti, ma non con le mani. La palla (mari) era in pelle di cervo, riempita con crine di cavallo o, secondo rare tradizioni, con i capelli di una fanciulla. Il campo da gioco era un’area quadrata delimitata ai quattro angoli da alberi differenti: salici a sud-est, ciliegi a nord-est, pini a nord-ovest e aceri a sud-ovest. A inizio partita i giocatori si distribuivano a coppie nei quattro angoli per un totale di 8 persone in campo. Ogni partecipante doveva effettuare tre palleggi, prima di passare la palla. Scopo del gioco era quello di non far mai cadere il pallone: secondo una testimonianza giunta fino a noi, nel corso di una partita disputata nel 1208, furono effettuati oltre 2.000 palleggi.

Un incontro di kemari


(Testo adattato da un articolo di Roberto Roveda con la collaborazione di Francesca Saporiti, pubblicato sul numero 221 di Medioevo – Un passato da riscoprire, giugno 2015)



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