mercoledì 26 aprile 2017

89 Asia e Africa nella prima metà del '900

ASIA E AFRICA NELLA PRIMA METÀ DEL ‘900

Nella prima metà del XX secolo l’Asia e l’Africa subirono profondi cambiamenti. La Prima guerra mondiale, in particolare, con la sconfitta della Germania e dell’Impero Ottomano, determinò un nuovo assetto nelle numerose colonie appartenute ai due imperi sconfitti.
In particolare vale la pena ricordare l’istituzione del «mandato» fatta dalla Società delle Nazioni: nell’articolo 22, con cui la Società delle Nazioni venne istituita, si dichiarò che le colonie e i territori che erano appartenuti alla Germania e alla Turchia e che erano abitati da popoli non ancora in grado di governarsi da sé, dovevano affidarsi alla tutela di nazioni «progredite», che avrebbero esercitato tale tutela in nome della Società delle Nazioni (o come “mandatarie” della Società stessa).
Il grado di autorità e la forma di amministrazione esercitati dal mandatario erano esplicitamente determinati dalla Società delle Nazioni, che definì tre tipi di mandato, chiamati A, B e C.
Il mandato di tipo A riguardava i Paesi arabi già appartenenti all’Impero ottomano, che avevano raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti poteva essere provvisoriamente riconosciuta, salvo l’assistenza amministrativa di una potenza mandataria (in sostanza Francia e Gran Bretagna).
Il mandato di tipo B riguardava le ex-colonie tedesche in Africa, ritenute incapaci di governarsi da sole. L’amministrazione dello Stato mandatario doveva garantire alle popolazioni indigene i diritti fondamentali dell’uomo e assicurare contemporaneamente agli Stati aderenti alla Società delle Nazioni uguali vantaggi per il commercio con questi Paesi.
Il mandato di tipo C si applicava a territori dell’Africa del sud-ovest e del Pacifico australe (anch’essi ex-colonie tedesche) con popolazione scarsa e dispersa; questi territori venivano affidati a potenze mandatarie, che le potevano considerare come parte integrante del proprio territorio e le avrebbero amministrate nel rispetto dei diritti fondamentali delle popolazioni indigene.

Una pagina del trattato costitutivo della Società delle Nazioni in cui si parla dei mandati e una foto del primo incontro della Società il 15 novembre 1920 a Ginevra

L’AFRICA ARABA

I territori dell’Africa settentrionale, uniti dalla comune religione islamica, erano dominati dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dall’Italia e dalla Spagna. Ma in questi territori vi erano numerose zone non ancora «pacificate», cioè non completamente controllate dagli Stati europei: in queste zone scoppiavano di continuo insurrezioni, che venivano sistematicamente represse con la forza (in Marocco, in Libia, in Egitto). Se l’uso della forza da parte degli europei riusciva a stroncare le rivolte locali, il malcontento tra la popolazione, che viveva generalmente in condizioni miserevoli, era molto diffuso.
In tutta l’Africa settentrionale nacquero movimenti indipendentisti, o favorevoli ad una certa autonomia, ispirati da partiti nazionalisti o anche da comunisti, capaci in misura minore o maggiore di trovare adesioni tra la popolazione. In Egitto l’indipendenza venne proclamata nel 1922, ma il controllo inglese sulle terre lungo il Nilo durò fino al 1936.

Partigiani della Guerra del Rif in Marocco nel 1925

IL MEDIO ORIENTE

Nel Medio Oriente la situazione era ancor più complessa, perché accanto ai musulmani, che costituivano la grande maggioranza della popolazione, vi erano numerose minoranze religiose ed etniche (cristiani cattolici e ortodossi, nestoriani e maroniti, Greci e Armeni, e così via); gli stessi musulmani erano divisi tra sunniti, sciiti e altri gruppi minori, per non parlare dei Curdi, che erano musulmani sunniti, ma non erano Arabi e parlavano una lingua vicina al persiano.
La società era poi fortemente diversa, e in contrasto: vi era una borghesia colta e intraprendente, un proletariato urbano per lo più disoccupato e numerose tribù del deserto, nomadi e guerriere.
La politica applicata dai Paesi europei in questa zona fu, infine, particolarmente contradditoria, poiché da una parte sembravano favorevoli alla nascita di Stati arabi indipendenti, dall’altra, attraverso il sistema dei mandati, Francia e Inghilterra si spartirono la regione; alla Francia andarono la Siria e il Libano, all’Inghilterra l’Iraq, la Transgiordania e la Palestina.
Anche qui ci furono rivolte, in particolare in Siria dal 1925 al 1927, mentre altrove si formarono Stati apparentemente indipendenti (come l’Iraq), nei quali però l’indipendenza era illusoria, dato che i Paesi europei si riservarono il diritto di mantenere in questa regione truppe e basi aeree.

Un sultano arabo con ufficiali inglesi all’inizio del ‘900

Il caso più complicato fu quello della Palestina: essa era considerata dagli ebrei la terra che Dio aveva promesso loro, anche se da molti secoli la quasi totalità della popolazione era araba e gli ebrei presenti in Palestina erano una piccola minoranza.
L’antisemitismo che alla fine dell’Ottocento era ancora presente in Europa, soprattutto in quella dell’Est, spinse molti ebrei a lasciare l’Europa orientale per trasferirsi in quella occidentale (dove le leggi che discriminavano gli ebrei erano state abolite), o negli Stati Uniti d’America, o anche, in numero minore, in Palestina. Era infatti nato un movimento politico, chiamato sionismo (dal nome Sion, una collina di Gerusalemme), che sosteneva la necessità di creare uno Stato ebraico in Palestina, in cui gli ebrei potessero vivere in pace; il fenomeno dell’emigrazione degli ebrei in Palestina ricevette un notevole impulso a partire dal 1901, quando venne creato il Fondo nazionale ebraico, che aveva lo scopo di raccogliere i fondi per l’acquisto di terre in Palestina.
Nel 1917 la Palestina venne occupata dagli Inglesi e quindi affidata all’Inghilterra dalla Società delle Nazioni nel 1922. Nel 1917 l’Inghilterra si era impegnata con la dichiarazione di Balfour a permettere che gli ebrei si insediassero in Palestina, creandovi un proprio Stato.
Dopo la Prima guerra mondiale e in particolare dopo il 1929, l’aggravarsi dell’antisemitismo spinse molti ebrei a trasferirsi in Palestina: le comunità ebraiche nel mondo raccolsero denaro per finanziare l’acquisto di terreno dai grandi proprietari arabi. Ciò portò a una massiccia emigrazione ebraica in Palestina, dove si crearono forti tensioni con gli arabi, che costituivano la maggioranza della popolazione e che si videro scacciati dai nuovi arrivati: nel 1929 e nel 1936-1939 scoppiarono due rivolte, che vennero represse dagli Inglesi.

Sfilata araba antiebraica a Gerusalemme nel 1920

L’INDIA

L’India era la più estesa colonia del mondo, con una popolazione nel 1921 di 319 milioni di abitanti; il territorio del subcontinente indiano era stato diviso, dopo la rivolta dei sepoys del 1857 (vedi lezione 76), in India inglese, con lo status di colonia, e in centinaia di staterelli vassalli.
Il dominio inglese continuava a provocare malcontento e proteste, mentre lo sfruttamento impoveriva il Paese: gli Inglesi rifiutavano di proteggere l’industria indiana nascente con barriere doganali, per paura che l’industria britannica potesse soffrirne.
Nel 1885 era nato il Partito del Congresso, che puntava ad ottenere lo statuto di dominion, cioè di territorio autonomo, ma fedele alla corona britannica: era una prima forma di rivendicazione dell’indipendenza, che però rimase estranea al 90% della popolazione.
La Prima guerra mondiale diede un forte impulso al movimento nazionale indiano: 800.000 volontari indiani si arruolarono e combatterono a fianco degli Inglesi in Europa. Al termine del conflitto l’India si aspettava qualche riconoscimento, che però non ci fu.

Un colonnello inglese con ufficiali britannici e indiani a fine ‘800

Tra le due guerre la lotta per l’indipendenza fu guidata soprattutto da Gandhi, chiamato il Mahatma (grande anima). Come molti indiani di famiglia ricca, Mohandas Karamchand Gandhi studiò in Inghilterra, dove divenne avvocato. Si recò poi in Sudafrica per conto di una compagnia indiana: qui vivevano numerosi indiani, fatti arrivare dagli Inglesi e dai boeri (= i discendenti degli Olandesi nell’Africa meridionale) per lavorare nelle fattorie e Gandhi, constatando le condizioni discriminatorie in cui lavoravano, si batté in loro favore. In Sudafrica cominciò a sviluppare la teoria dell’azione non-violenta: egli si proponeva di rifiutare con tenacia ogni ingiustizia, ma senza ricorrere mai all’uso della violenza e rendendo pubbliche le proprie azioni. Egli chiamò questo modo di procedere satyagraha, che vuol dire «forza della verità».

Gandhi in una foto giovanile

Tornato in India nel 1914, visitò il Paese, scoprendo l’immensa miseria dei villaggi e le devastazioni provocate dal dominio inglese, e ciò lo spinse a entrare in politica. Nel 1916 difese i coltivatori indiani sfruttati dai grandi proprietari inglesi, nel 1918 gli operai tessili, che guidò negli scioperi da essi organizzati.
Cominciò allora a utilizzare il digiuno come arma di lotta: rinunciava a nutrirsi fino a che coloro a cui si opponeva non acconsentivano ad accogliere almeno in parte le sue richieste.
Al termine della guerra si impegnò nella lotta per l’indipendenza dell’India, proponendo la non-cooperazione: egli sosteneva la necessità di non collaborare in alcun modo con gli oppressori inglesi, rifiutandone le leggi ingiuste. Questa “disobbedienza civile”, come venne anche chiamata, lo spinse ad una serie di azioni, alle quali il governo inglese rispose con severe misure di repressione, culminate nel 1919 con il massacro di Amritsar, che provocò 379 morti.
Gandhi riteneva anche indispensabile che gli indiani ritornassero alle loro tradizioni, rifiutando gli abiti e le usanze occidentali, ed egli stesso cominciò a fare uso del filatoio a mano per produrre il filo con cui realizzare i propri abiti: l’immagine di Gandhi, vestito con un panno bianco e seduto a filare, divenne celebre in tutto il mondo.

Gandhi mentre fila all’arcolaio alla fine degli anni Venti

Nel 1920 tornò a guidare, come presidente del Congresso nazionale indiano, il movimento indipendentista, ma nuove violenze, delle quali si assunse la responsabilità, portarono al suo arresto e a una condanna a sei anni di carcere (scontata solo parzialmente, a causa delle sue condizioni di salute).
Una nuova campagna di disobbedienza civile venne organizzata nel 1930 e si aprì con la marcia del sale, con cui Gandhi sfidò il monopolio inglese del sale in India, guidando un gruppo di indiani, via via più numerosi, a raccogliere il sale sulle rive del mare Arabico. Interruppe però le manifestazioni quando si verificarono episodi di violenza contro gli Inglesi o tra musulmani e induisti. Gli Inglesi lo imprigionarono più volte, ma non riuscirono a fermare il movimento per l’indipendenza.
Gandhi si occupò anche dei problemi sociali dell’India e in particolare della situazione degli intoccabili, cioè di coloro che erano al di fuori del sistema sociale indiano ed erano vittime di ogni tipo di discriminazione: egli li ribattezzò “harijan”, cioè “figli di Dio” e subordinò l’obiettivo dell’indipendenza dell’India al riscatto di questa parte della popolazione.
La Seconda guerra mondiale congelò in parte la situazione politica: il Congresso indiano offrì al viceré la collaborazione del popolo indiano, a patto che la Gran Bretagna concedesse l’indipendenza; la proposta venne respinta e una nuova campagna di disobbedienza civile venne organizzata nel 1940, portando di nuovo all’arresto di Gandhi e dei capi del Congresso.
Dopo la guerra il processo che avrebbe portato all’indipendenza cominciò con spaventosi scontri fra induisti e musulmani; l’indipendenza, ottenuta nel 1947, non mise fine alle violenze e portò alla divisione tra India (a maggioranza induista) e Pakistan (a maggioranza musulmana). Gandhi si recò allora a Calcutta, in una regione dove induisti e musulmani erano molto numerosi, e digiunò ancora, riuscendo a riportare la pace tra le due comunità. Ritornò poi a Delhi, dove il 30 gennaio 1948 venne assassinato da un fanatico induista, che criticava la sua politica di collaborazione con i musulmani.

Il cadavere di Gandhi

L’INDOCINA

Nella penisola Indocinese i Francesi dominavano su un territorio composto da una colonia (la Cocincina, grande produttrice di riso) e dai protettorati dell’Annam (su cui regnava ancora un imperatore), del Tonchino (ricco di carbone, stagno e altri minerali), della Cambogia e del Laos.
Malgrado nel periodo della Prima guerra mondiale una gioventù locale assumesse sempre più uno stile di vita occidentale (si formò una borghesia di medici, avvocati, insegnanti, funzionari statali), i coloni francesi costituivano una società chiusa, con scarsi contatti con gli indigeni e fortemente pervasa da uno spirito di superiorità razziale. Inoltre, il reddito annuo dei civili europei era molto superiore a quello della classe media indigena (5-6.000 piastre per i primi, 168 per i secondi); ancora inferiore era quello dei contadini, che avevano tratto dalla colonizzazione francese solo alcuni vantaggi: la pace, l’eliminazione del brigantaggio e un certo miglioramento igienico, grazie alla lotta contro la malaria e le epidemie.
Qualsiasi riforma politica venne inceppata dalla Francia e gli intellettuali locali giunsero alla conclusione che solo il ricorso alla forza avrebbe permesso qualche cambiamento: alcune insurrezioni vennero organizzate nel 1930 dai due maggiori partiti locali, uno nazionalista e uno comunista. Sebbene la repressione sia stata durissima, in Indocina era avvenuto un fatto importante: il nazionalismo tradizionale e le aspirazioni sociali del proletariato si erano saldati e solo lo scoppio della Seconda guerra mondiale provocherà il rinvio della rivoluzione.


L’INDONESIA

Le Indie olandesi, o Indonesia, erano dopo l’India la più ricca colonia al mondo: il commercio delle materie prime e dei prodotti esotici provenienti dall’Indonesia arricchirono l’Olanda in modo considerevole.
Fino all’inizio del Novecento il colonialismo olandese ebbe delle caratteristiche particolari: i coloni non avevano alcun contatto con le popolazioni indigene e trattavano per i loro affari solo con l’aristocrazia locale, formata da vari sultani, reggenti e alti magistrati: nelle più di 3.000 isole che formano l’Indonesia si erano costituiti numerosi Stati locali (nel 1938 erano ben 269). Agli aristocratici i coloni chiedevano la fornitura di alcuni prodotti; gli aristocratici a loro volta esigevano dai contadini delle quantità di prodotti superiori a quelle richieste dagli olandesi e si arricchivano grazie a queste eccedenze; inoltre, a fare da collegamento tra nobili e contadini c’erano spesso i Cinesi, che in più praticavano l’usura. In questo modo i contadini venivano sfruttati tre volte (dagli Olandesi, dagli aristocratici e dai Cinesi) e vivevano nella miseria. Solo al principio del Novecento alcune compagnie olandesi insediarono delle piantagioni in Indonesia, favorendo un’amministrazione del territorio più diretta e sviluppata.

Un gruppo di studenti di Giacarta e un contadino dell’isola di Sumatra nel 1919

In tale situazione nel XX secolo si svilupparono 3 diversi orientamenti politici miranti all’indipendenza:
- quello di matrice religiosa, che si riconosceva nell’Islam, penetrato nel Paese fin dal Cinquecento e poi diffusosi progressivamente;
- quello nato dal Partito socialdemocratico fondato nel 1914 e dal quale nel 1920 era nato il Partito comunista indonesiano, il quale organizzò una serie di sommosse represse violentemente;
- quello di ispirazione laica, che si raccoglieva attorno a studenti “occidentalizzati” sempre più numerosi.
Dal malcontento generale nacque nel 1927 il Partito nazionale indonesiano, fondato da Sukarno, abile oratore e diplomatico, influenzato dall’Islam ma libero da spirito chiesastico; egli nel 1928 riuscì a raggruppare in una federazione tutti i partiti politici indonesiani, ma negli anni Trenta venne più volte arrestato. Nel 1939 i vari partiti si riunirono in un congresso nazionale, che decise di adottare una lingua, una bandiera e un inno nazionali e reclamò l’unità nazionale, un parlamento liberamente eletto e il diritto all’autodeterminazione. La richiesta di negoziati con il governo olandese non fu accolta, in seguito all’occupazione dei Paesi Bassi da parte dei nazisti.

Akmed Sukarno, che nel 1945 divenne il primo presidente della Repubblica di Indonesia

LA CINA E IL GIAPPONE

La Cina, dopo che la rivoluzione del 1911 aveva messo fine al governo imperiale e instaurato la repubblica, si trovò dilaniata dalla guerra civile tra i generali imperiali, detti “signori della guerra”, e i due principali partiti: quello dei nazionalisti (Guomindang) guidato da Chiang Kai-shek e quello comunista, il cui leader era Mao Tse-tung.
Della debolezza cinese scossa dalla guerra approfittò il Giappone, che era lo Stato militarmente più forte ed economicamente più sviluppato dell’Asia, ma che era stato duramente colpito dalla crisi del 1929: come nel resto del mondo, anche in Giappone i prezzi crollarono, le esportazioni si contrassero, imprese di ogni tipo e grandezza fallirono, gli stipendi degli operai diminuirono, la disoccupazione aumentò e a pagare il peso maggiore della crisi furono, come sempre, gli strati più poveri del mondo rurale. In Giappone si formò così un governo autoritario che, alla ricerca di nuovi mercati e di materie prime a basso costo, diede inizio a una nuova fase di espansione: tra gli anni Trenta e il 1940 il Paese avanzò sempre più in direzione della fascistizzazione e dell’aggressività internazionale:
- nel 1931 l’esercito giapponese invase la Manciuria (nella Cina nord-orientale);
- nel 1932 il Giappone uscì dalla Società delle Nazioni, poiché condannato proprio per l’aggressione in Manciuria;
- nel 1936 si alleò con la Germania (e nel 1937 con l’Italia) nel Patto anti-Komintern (contro cioè l’Internazionale Comunista);
- nel 1937 attaccò la Cina, occupando alcune tra le principali città (Shanghai, Canton, Nanchino);
- nel 1940 vennero sciolti i partiti giapponesi;
- nel dicembre dello stesso anno il bombardamento della flotta statunitense ancorata a Pearl Harbor, segnò l’inizio della Guerra del Pacifico.

Un poster cinese antigiapponese del 1930 circa

 L’AFRICA NERA

L’Africa a sud del Sahara era un mosaico complesso di lingue, di gruppi etnici, di generi di vita; nel complesso le popolazioni africane erano organizzate in tribù, strutturate secondo principi anarchici, o, al contrario, sottomesse a una rigida centralizzazione.
Fatta eccezione per l’Etiopia e la Liberia, tutta l’Africa nera era colonizzata: era stata spartita dopo la Prima guerra mondiale principalmente fra Inglesi, Francesi, Belgi e Portoghesi (i territori appartenenti alla Germania erano divenuti dei mandati assegnati a Gran Bretagna, Francia, Belgio e Unione Sudafricana).
Il colonialismo europeo non si espresse tutto allo stesso modo; se i Francesi governavano i loro territori con un apparente rispetto delle amministrazioni locali, ma in realtà in modo diretto, gli Inglesi governavano indirettamente, decentrando i poteri e affidandoli anche a indigeni. Se i Belgi praticavano di fatto la segregazione tra bianchi e neri e consideravano gli indigeni come dei bambini incapaci di intendere e di volere, cioè se praticavano un paternalismo a volte anche capace di tutelare la popolazione nera (per esempio con la proibizione delle bevande alcoliche, o affidando l’insegnamento in lingua locale alle missioni cattoliche), i Portoghesi, che solo nel 1878 avevano soppresso la schiavitù nelle colonie, consideravano le colonie (Angola e Mozambico erano le due principali) come parte integrante del Portogallo e ogni decisione politica veniva presa a Lisbona.
Le prime manifestazioni nazionalistiche nell’Africa nera provennero quasi ovunque da coloro che avevano studiato nelle università europee; questi giovani intellettuali colti, sognando il futuro della loro nazione, se lo immaginavano come quello di uno Stato moderno, largamente simile a quello che avevano visto con i propri occhi in Europa. Ma la Seconda guerra mondiale bloccherà ovunque qualunque sogno dei neri d’Africa.

Un missionario bianco con bambini congolesi all’inizio del ‘900



domenica 9 aprile 2017

88 La guerra civile in Spagna

LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA

Durante la Prima guerra mondiale la Spagna si era mantenuta al di fuori del conflitto e ciò le aveva permesso grandi vantaggi commerciali; però il Paese si trovava in una condizione di gravissima arretratezza economica, che provocava forti tensioni sociali. I grandi latifondisti sostenuti dalla Chiesa e dagli ambienti militari si contrapponevano a un proletariato poverissimo, profondamente influenzato dai partiti di sinistra; due milioni di braccianti erano senza terra, mentre appena 50.000 grandi e medi proprietari possedevano metà dell’intero suolo spagnolo e la Chiesa curava circa 11.000 aziende e aveva solidi interessi nel mondo della finanza.
All’inizio degli anni ’20 la situazione interna era dunque molto difficile: se da una parte le forze progressiste spingevano verso il rinnovamento, dall’altra il re Alfonso XIII appoggiò invece il regime dittatoriale del generale Miguel Primo de Rivera.

Alfonso XIII (a sinistra) e Primo de Rivera nel 1930

Con la grande crisi del 1929 il malcontento popolare esplose e nel gennaio del 1930 de Rivera fu costretto a dimettersi. Nell’aprile del 1931 la coalizione antimonarchica vinse le elezioni. Alfonso XIII lasciò la Spagna e venne proclamata la repubblica.
Il nuovo governo repubblicano introdusse il suffragio universale, la separazione tra stato e Chiesa e la concessione dell’autonomia alla Catalogna; inoltre promosse una riforma agraria, che frazionava il latifondo e ridistribuiva le terre fra piccoli proprietari, a adottò atteggiamenti anticlericali, quali l’istituzione del matrimonio civile e il divorzio e l’incameramento dei beni ecclesiastici.

La proclamazione della Repubblica a Barcellona il 14 aprile 1931

Però la situazione era molto difficile e gli anni tra il 1931 e il 1935 passarono fra rotture di alleanze, tentativi di colpo di stato, ripresa delle forze conservatrici; nel 1933 le elezioni assegnarono la vittoria ad una coalizione di centro-destra, che abrogò le leggi anticlericali e annullò l’autonomia dei Catalani. Intanto la situazione economica peggiorava ulteriormente, aumentando la tensione sociale.
Alle elezioni del febbraio 1936 le forze di sinistra (comunisti, socialisti, repubblicani ed anarchici), unite nella coalizione del Fronte Popolare, tornarono al potere: l’odio contro gli sfruttatori e contro la Chiesa che li appoggiava esplose con inaudita violenza e spinse i contadini a trucidare proprietari terrieri, sacerdoti, funzionari, poliziotti. L’assassinio di un capo dei monarchici fu la scintilla che portò la destra, sostenuta dai quadri dell’esercito, alla ribellione: squadre di falangisti (come si chiamavano i fascisti spagnoli) cominciarono ad assalire i contadini e gli esponenti della sinistra.
Il 17 luglio 1936 il generale Francisco Franco (detto il caudillo, titolo corrispondente all’italiano “duce”), comandante delle truppe del Marocco spagnolo, organizzò la rivolta armata contro il governo legittimo. Con questo colpo di stato la Spagna si trovò divisa in due: a ovest le regioni guidate da un governo provvisorio insediato a Burgos, che affidò il potere al generale Franco; a est e al centro il governo legale repubblicano, che controllava anche le province basche, isolate dal resto della repubblica. Iniziò allora una sanguinosa guerra civile, che sarebbe durata tre anni.

La Spagna nel luglio 1936

Dal novembre 1936 la Germania e l’Italia riconobbero il governo del generale Franco e lo sostennero con grossi aiuti militari. La Germania non solo fornì armi e personale specializzato alle truppe di Franco, ma partecipò direttamente al conflitto, soprattutto con l’aviazione: per la prima volta nella storia furono utilizzati gli aerei per bombardare le popolazioni civili delle città, inaugurando così una pratica che sarebbe stata abbondantemente usata nel corso della Seconda guerra mondiale. Particolarmente feroce fu il bombardamento della città di Guernica (nella regione basca), che venne rasa al suolo dagli aerei tedeschi nell’aprile 1937; l’episodio ispirò la celebre tela del pittore spagnolo Pablo Picasso, divenuta il simbolo della guerra civile spagnola, ma anche del rifiuto di ogni guerra.

L’opera di Picasso “Guernica”

All’abbondanza di mezzi bellici e di aiuti di cui potevano disporre i ribelli nazionalisti (l’Italia fascista inviò in Spagna più di 80.000 uomini dell’esercito e della milizia), il governo legale repubblicano poté contrapporre solo i soldati rimasti fedeli alla repubblica, la polizia e i volontari che si riconoscevano nei valori della repubblica.
Mentre Francia e Inghilterra scelsero la via della non ingerenza, a controbilanciare l’aiuto fascista e nazista ai nazionalisti, intervenne a favore dei repubblicani l’URSS, con un aiuto più di materiali che di uomini. Inoltre volontari antifascisti provenienti da diverse nazioni si raccolsero in Spagna e diedero vita alle Brigate Internazionali: circa 40.000 uomini e donne, tra cui militanti comunisti e socialisti (come gli italiani Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio e Pietro Nenni), attivisti dei partiti democratici e repubblicani, ma anche scrittori di fama mondiale, come Ernest Hemigway e George Orwell, che contribuirono a suscitare in tutta Europa un sentimento di solidarietà popolare nei confronti dei repubblicani spagnoli.

Il Battaglione Garibaldi che riuniva i volontari italiani che combatterono nelle Brigate Internazionali

A partire dal 1938 i repubblicani, indeboliti dalle divisioni interne, cominciarono a perdere terreno. Le divergenze politiche tra comunisti e anarchici (i primi convinti dell’unità antifascista, i secondi contrari alla disciplina militarista e desiderosi di abbattere lo stato borghese) si trasformarono in scontri armati e reciproche accuse di tradimento. A questo si aggiunse la totale mancanza di aiuti da parte delle democrazie europee e un progressivo allentamento del sostegno dell’Unione Sovietica. Ben presto la disparità delle forze in campo permise alle truppe di Franco (detto anche “il generalissimo”) di avere la meglio: Valenza, poi Barcellona e infine Madrid caddero nelle mani dei franchisti.

Soldato repubblicano nel momento dell’uccisione; questa famosissima fotografia di Robert Capa venne scattata il 5 settembre 1936

Nella primavera del 1939 Franco assunse la guida dello stato e il suo governo fu riconosciuto dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti: era la fine della guerra, costata la morte a circa 300 mila persone (altre stime arrivano fino al milione di morti, ma sono infondate). Cominciava l’esodo dei repubblicani e la repressione: più di 100 mila furono i fucilati negli anni successivi al conflitto, vittime della feroz matanza (feroce massacro) con cui Franco si liberò dei nemici del regime.

Francisco Franco e Benito Mussolini in uniforme militare nel 1941

Nel 1947 fu ripristinata la monarchia con la reggenza a vita di Franco, che morì nel 1975: per tutti gli anni della sua dittatura la Spagna fu uno stato ricondotto ai valori tradizionali della religione, dell’autoritarismo, del militarismo. Juan Carlos I di Borbone, nipote di Alfonso XIII, fu il successore di Franco, designato dallo stesso dittatore; con lui la Spagna è rientrata nel novero dei Paesi democratici.

Parata in onore di Franco a San Sebastián nel 1939