domenica 31 gennaio 2016

73 L'America nel XIX secolo



L’AMERICA NEL XIX SECOLO

IL CANADA

Finita la guerra d’indipendenza americana, migliaia di lealisti anglofoni (cioè i coloni di lingua inglese rimasti fedeli alla corona inglese) lasciarono le 13 colonie britanniche ormai divenute Stati Uniti d’America e si rifugiarono nel Québec meridionale, la regione tra il fiume Ottawa e il lago Ontario, dove erano presenti numerosi coloni di origine francese.

“Inverno sui Monti Laurenziani” di Cornelius David Krieghoff (1867)

Ben presto i lealisti britannici richiesero l’istituzione di leggi inglesi e di organi che li rappresentassero; ciò indusse il governo di Londra a dividere nel 1791 il Québec in due province: il Basso Canada (Québec) a maggioranza francofona, e l’Alto Canada (Ontario) anglofono. Ciascuna provincia avrebbe avuto assemblee elettive a fianco di organi di governo e queste istituzioni vennero estese anche in altre province del territorio nord-americano.
Il tentativo di invasione del Canada da parte degli U.S.A. (1812-1814) venne respinto però proprio dall’unità che anglofoni e francofoni riuscirono a trovare.

Dipinto del 1896 di John David Kelly raffigurante la battaglia di Queenston Heights (nell’Ontario) del 1812, tra statunitensi e inglesi

Ma questa unità si incrinò qualche anno dopo, quando la maggioranza francofona (composta soprattutto da contadini) si trovò in contrasto con la minoranza anglofona, che dominava i settori della finanza e del commercio.
Il contrasto sfociò in un duplice tentativo insurrezionale nel Québec e nell’Ontario, che però fallì. Il governo di Londra rispose alla crisi creando nel 1840 il Canada Unito e non riconoscendo più il francese come lingua ufficiale.
La convergenza d’interessi tra la borghesia inglese e quella francese portò successivamente ad accordi, che indussero la Gran Bretagna ad emanare nel 1867 il British North America Act. Con questo provvedimento il Canada diventava uno Stato federale, con il potere diviso tra le varie province e un governo centrale con sede a Ottawa e competente nelle materie di interesse comune. La nuova entità politica si allargò fino a comprendere l’intero Canada attuale (tranne Terranova, che sarebbe entrata nell’unione solo nel 1949); nel 1871 la federazione canadese si estendeva dall’Atlantico al Pacifico, aveva una popolazione di 3 milioni di abitanti e si sviluppò sia nell’economia (con l’agricoltura come settore fondamentale, ma anche con una progressiva crescita industriale), sia nel settore delle comunicazioni.

Illustrazione raffigurante la Cattedrale di Notre-Dame e la Piazza del mercato a Québec City nel 1850

GLI STATI UNITI

Dopo l’indipendenza era cominciato per gli U.S.A. un periodo di rapida espansione territoriale, che li portò a metà del XIX secolo ad essere una potenza economica e militare in grado di competere con le nazioni europee. In pochi decenni gli Inglesi, i Francesi e gli Spagnoli, che prima avevano dominato l’interno del Nord America, furono completamente cacciati fuori dal continente o spinti ai margini di esso (come avvenne con gli Inglesi nel Canada). Nel 1819 gli Spagnoli del Messico firmarono un trattato con gli U.S.A., in base al quale la Florida veniva venduta agli Stati Uniti; nel 1845 il Texas diventava statunitense e poco dopo (1846 e 1848) lo stesso accadeva con tutta la costa del Pacifico.

L’espansione degli Stati Uniti d’America (tra parentesi l’anno d’ingresso dei singoli Stati nella federazione)

I nuovi territori erano popolati in larga maggioranza da indigeni americani, chiamati indiani, ma vi erano anche fortini militari e piccoli insediamenti di coloni, più numerosi lungo le coste. In tutta questa regione, chiamata Far West (il lontano Ovest) cominciarono a stabilirsi sempre più numerosi i coloni europei, che erano allevatori (cowboys) attratti dai grandi pascoli, o cercatori d’oro, come quelli che diedero vita alla grande corsa all’oro in California nel 1848. Questi coloni avevano, inoltre, un alto indice di natalità, tale da far raddoppiare ogni 22 anni la popolazione americana.

Una famiglia di pionieri in Nebraska (1886 circa)

L’espansione verso ovest di quella che era chiamata la frontiera era vista dagli americani come un’operazione fatta in nome di Dio e del progresso e trovò la sua giustificazione nel cosiddetto Manifest Destiny: in esso nel 1830 il presidente Andrew Jackson scrisse:
«Quale uomo saggio potrebbe preferire un Paese coperto di foreste e attraversato da qualche migliaio di selvaggi alla nostra estesa Repubblica, costellata di paesi, città e prosperose fattorie […], occupata da più di 12 milioni di gente felice e colma di ogni benedizione di libertà, civiltà e religione?».

Caccia al bisonte, dipinto di Frederic Remington del 1890

Man mano che i territori dell’interno venivano popolati dai coloni, essi entravano a far parte della federazione come nuovi Stati: i 13 Stati originari alla fine dell’Ottocento era diventati 45, collegati da una rete ferroviaria che già nel 1850 superava i 50.000 chilometri, da rapidi bastimenti a vapore e a vela e dal telegrafo, che, appena inventato, permetteva di avvicinare luoghi lontani a Washington, il centro politico della Repubblica.

Foto del 1869 per celebrare il completamento della linea ferroviaria transcontinentale nello Utah

I coloni e l’esercito statunitense costrinsero le tribù indiane a lasciare le proprie terre: molte accettarono di cedere una parte del territorio, in cambio della garanzia di poter continuare a vivere sul territorio restante, ma questi trattati non furono mai rispettati dal governo statunitense. Gli indiani cercarono allora di difendersi dalla continua espansione, combattendo sotto la guida di capi come Cochise e Geronimo (degli Apache) e Piccolo Corvo, Nuvola Rossa e Toro Seduto (dei Sioux). Si ebbero, perciò, soprattutto nella seconda metà del secolo, molte guerre tra i bianchi e i nativi americani (sono dette guerre indiane), durante le quali gli indigeni americani furono massacrati con tutti i mezzi: vennero perfino distribuite loro coperte infette da vaiolo per eliminarli.

Da sinistra: Geronimo, Piccolo Corvo e Toro Seduto

L’epilogo delle guerre indiane si ebbe il 29 dicembre 1890 con il massacro di Wounded Knee nel Dakota, quando i Sioux, che si erano rifiutati di abbandonare la pratica di un loro rito guerriero, furono circondati da un reggimento di cavalleria e sterminati; qualche giorno prima era stato assassinato il loro capo Toro Seduto.
Gli indiani superstiti di queste guerre, una minima parte dell’intera popolazione indigena, vennero rinchiusi in riserve, create nelle regioni meno fertili.

Fossa comune per i nativi massacrati a Wounded Knee (1 gennaio 1891)

Gli Stati Uniti erano governati da un sistema bipartitico: da una parte il partito democratico, dall’altra prima il partito whig, poi, dal 1854, il partito repubblicano. Questi partiti contrapposti seppero trovare sempre una mediazione su alcuni temi fondamentali, quali l’espansionismo e la guerra contro i nativi; non seppero invece raggiungere un compromesso sul tema della schiavitù, che investiva l’economia del Paese.
Negli Stati settentrionali nel corso del XIX secolo si era verificato un tale sviluppo industriale, da fare degli U.S.A. una delle nazioni più industrializzate del mondo e una meta agognata per molti immigrati dall’Europa. Nel 1850 gli Stati del Nord degli U.S.A. ospitavano due terzi della popolazione totale e controllavano la vita politica della federazione. Questa situazione provocava un forte malcontento da parte degli abitanti degli Stati meridionali, che si trovavano in minoranza.

Una manifattura a Boston (tra il 1813 e il 1816)

Negli Stati del Sud era aumentata fortemente l’estensione delle piantagioni di cotone, per la grande richiesta dell’industria tessile inglese e poi degli stessi Stati Uniti. Nelle piantagioni la manodopera era costituita da schiavi neri (ve n’erano 4 milioni nel 1860), il cui valore era in continuo aumento, perché la tratta degli schiavi era stata proibita da accordi internazionali nel 1818 e quindi non era possibile importarne altri.

Schiavi neri in una piantagione

Negli Stati Uniti, però, soprattutto negli Stati del Nord, molti cominciarono a richiedere l’abolizione della schiavitù, considerata inumana: saggi e romanzi (tra cui il famosissimo La capanna della zio Tom, della scrittrice Harriet Beecher-Stowe, pubblicato nel 1852) fecero conoscere il problema negli Stati del Nord, dove la schiavitù non esisteva più. Si ebbero perciò forti tensioni tra gli Stati del Sud, dove la schiavitù aveva un ruolo fondamentale nell’economia, e gli Stati del Nord, dove si stava formando una maggioranza favorevole all’abolizione della schiavitù.

Illustrazione per la Capanna dello zio Tom, un libro che contribuì a diffondere negli Stati Uniti l’abolizionismo della schiavitù

Quando venne eletto presidente Abraham Lincoln, abolizionista, alcuni Stati del Sud decisero di staccarsi dagli Stati Uniti: gli Stati del Nord non accettarono questa separazione (o secessione, come venne chiamata) e scoppiò una sanguinosa guerra civile (una guerra si definisce civile, quando viene combattuta tra cittadini della stessa nazione). Chiamata guerra di secessione, essa fu combattuta tra il 1861 e il 1865 e provocò la morte di oltre 600.000 soldati.

Illustrazione per la battaglia di Chattanooga (del 1863), una delle tante battaglie della Guerra di secessione

La vittoria dell’esercito del Nord portò nel 1865 all’abolizione della schiavitù, ma ancora per più di un secolo i neri non ottennero la parità dei diritti. Inoltre i contrasti tra Nord e Sud degli U.S.A. rimasero forti: nel Sud molti continuarono ad essere ostili al governo federale e il 14 aprile 1865 un fanatico sudista uccise Lincoln, che era stato rieletto presidente l’anno precedente.

L’assassinio di Abraham Lincoln in una litografia dell’epoca


L’AMERICA LATINA

La situazione nell’America centro-meridionale (o America latina, poiché vi si parlano lo spagnolo e il portoghese, due lingue neolatine) era ben diversa. Pur ricco di risorse, il sud del continente si era impoverito nel corso di secoli di sfruttamento coloniale.

Acquerello di Carlos Julião del 1775 raffigurante degli schiavi che spaccano pietre per ricavarne diamanti nelle miniere di Serro Frio in Brasile

Dopo l’indipendenza, raggiunta nei primi trent’anni del XIX secolo, tra i nuovi Stati si crearono spesso contrasti, che portarono a una lunga serie di guerre, a cambiamenti di confine e alla divisione di alcuni degli Stati che vi erano sorti: ad esempio la Repubblica della Grande Colombia si divise nel 1830 in tre Stati (Colombia, Venezuela ed Ecuador), mentre tra il 1838 e il 1841 le Province Unite dell’America Centrale si divisero in cinque piccoli Stati: l’Honduras, El Salvador, il Guatemala, il Nicaragua e il Costa Rica.

Il venezuelano Simón Bolívar dopo la battaglia di Carabobo rende omaggio alla bandiera venezuelana; Bolívar diede un contributo decisivo all’indipendenza dalla Spagna di Venezuela, Perù, Colombia e altri Stati dell’America latina, ma, accusato di mire dittatoriali e sfuggito a un attentato, si ritirò dalla scena politica

A causa delle continue guerre l’esercito ebbe sempre un grande potere e in tutti gli Stati dell’America centro-meridionale generali ambiziosi si impadronirono del potere, dando vita a dittature militari e a una generale instabilità politica.
All’interno di questi Stati i coloni europei, che costituivano circa il 20% della popolazione, ottennero tutto il potere, da cui furono escluse le popolazioni indigene (40-45% di amerindi), i meticci (30%) e gli schiavi neri (5%), che erano numerosi solo nelle isole Antille. La ristretta aristocrazia che deteneva il potere possedeva anche la grande maggioranza delle terre, mentre il resto della popolazione viveva in miseria ed era priva di istruzione.

Un dipinto di Vicente Albán del 1783, intitolato “Frutti dell’Ecuador”, rappresenta una nobildonna spagnola con la sua schiava nera

L’agricoltura rimase l’attività principale e non ci fu uno sviluppo industriale; perciò gli Stati dell’America latina si trovarono in una condizione di inferiorità, sia economica, sia politica, rispetto al loro potente vicino, gli Stati Uniti. Già nel 1830 il presidente statunitense James Monroe ammonì le potenze europee a non cercare di intervenire in America (dottrina di Monroe); invece gli Stati Uniti intervennero spesso nell’America latina, che si impoverì ulteriormente, mentre gli U.S.A. trassero alimento per il proprio sviluppo dallo sfruttamento delle ricchezze del meridione del continente.
Nel 1898 gli Stati Uniti tolsero alla Spagna le loro ultime colonie americane: Cuba e Puerto Rico.

Ritratto di James Monroe di William James Hubbard (1832 circa)


sabato 2 gennaio 2016

72 L'Europa di fine Ottocento



L’EUROPA DI FINE OTTOCENTO

Il secolo XIX è stato definito dagli storici come “il secolo delle nazionalità”, in quanto, soprattutto dopo le rivoluzioni del 1848, fu un susseguirsi di rivoluzioni che avevano il fine di creare degli Stati nazionali moderni. La parola “nazione” comincia a essere usata nel Basso Medioevo, per indicare gruppi accomunati dalla stessa provenienza geografica (ad esempio gli studenti delle università); solo nel XIX secolo viene usata per indicare un tipo specifico di comunità politica, che si riconosceva unita da tradizioni storiche, lingua e costumi. Il concetto di “nazione” è, in realtà, molto controverso, perché se da una parte ha raccolto attorno a uno stesso ideale (ad esempio il Risorgimento in Italia) un gruppo di persone spinte all’azione per un fine preciso, dall’altra è diventato il fondamento ideologico del razzismo: semplificando, si può dire che ha spinto gruppi sociali a riconoscere la propria nazione come la migliore e, in quanto tale, in diritto di sottomettere le altre nazioni.

Un’immagine della rivoluzione del 1848 a Berlino

Spinti dall’idea di nazione gruppi di italiani lottarono per la creazione del regno d’Italia. Qualcosa di analogo accadde nei territori di nazionalità tedesca, dove esisteva una Confederazione Germanica, che riuniva 39 diversi Stati tedeschi. I nazionalisti tedeschi chiedevano la formazione di una sola, grande Germania e a guidare l’unificazione di questo Stato si candidarono sia la Prussia sia l’Austria. Fu la Prussia, guidata dal primo ministro (o cancelliere) Otto von Bismarck (al potere dal 1862 al 1890) ad avere la meglio: la Prussia era uno Stato che nel 1859 aveva varato una riforma dell’esercito e che, guidata dal re Guglielmo I, si era distinta per il forte carattere militarista.

Otto von Bismarck (a sinistra) e Guglielmo I; il primo ministro è, stranamente, in uniforme militare

Nel 1866 entrò in guerra contro l’Austria (è quella che per l’Italia fu la Terza guerra d’indipendenza) e la sconfisse. Venne allora creata una prima Confederazione della Germania del Nord, guidata proprio dalla Prussia.
Nel 1870 attaccò la Francia di Napoleone III (guerra franco-prussiana), sconfiggendola e conquistando l’Alsazia e la Lorena, due regioni di lingua tedesca prossime al confine francese. Nel 1871 l’unificazione tedesca si concluse e il re di Prussia venne proclamato imperatore di Germania. L’Austria rimase fuori dal nuovo Stato.

Le tappe dell’unificazione della Germania, con l’indicazione di alcuni dei 39 Stati tedeschi

La Germania conobbe un rapido sviluppo delle industrie (diventando la seconda potenza industriale in Europa) e delle ferrovie: nel 1880 aveva una rete ferroviaria più estesa di quella inglese. Il nuovo Stato, forte, popoloso e industrializzato, si inserì tra le maggiori potenze europee dell’epoca: il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, la Francia, l’Impero Austro-Ungarico e l’Impero Russo.
La sconfitta dell’Austria nella guerra del 1866 portò questo Stato a una crisi interna, tanto che divenne una federazione di due Stati, quello austriaco e quello ungherese, che prese il nome di Impero Austro-Ungarico. Tale Impero aveva una costituzione comune per quanto riguarda la politica estera, quella economica e quella militare, ma l’Ungheria si autogovernava ed era autonoma in molti campi; inoltre il nazionalismo suscitava spesso forti contrasti fra i diversi gruppi etnici che vivevano entro i confini dell’Impero.

I territori dell’Impero Austro-Ungarico tenevano assieme ben 11 etnie (allora si diceva nazioni) diverse

In Francia la sconfitta nella guerra franco-prussiana provocò la fine dell’impero di Napoleone III e il ritorno alla repubblica, che fu da allora in poi la forma di governo di questo Stato. Il governo francese dovette accettare un armistizio che prevedeva anche l’occupazione di Parigi da parte dell’esercito prussiano. In base agli accordi, il governo francese cercò di togliere i cannoni alla guardia nazionale, cioè le formazioni di cittadini armati che provvedevano alla difesa della città.
La popolazione parigina reagì e il 18 marzo 1871 scoppiò una rivolta, con una larga partecipazione di operai e di piccoli borghesi. Non si trattò di una rivoluzione preparata dai partiti e dai movimenti socialisti, ma di un’insurrezione spontanea. A Parigi, assediata dai prussiani e dall’esercito regolare francese, si formò un governo rivoluzionario, che è passato alla storia con il nome di la Commune (la Comune) di Parigi. Nelle elezioni che vennero indette a suffragio universale maschile (26 marzo), molti lavoratori entrarono a far parte del governo. Esse prese dei provvedimenti ispirati alle idee socialiste: i membri e tutti i dipendenti del governo ricevettero salari da operai, in modo da non creare differenze economiche; i giudici vennero eletti dal popolo; fu istituita un’istruzione laica, non controllata dalla Chiesa, e gratuita; le proprietà delle chiese e dei monasteri passarono allo Stato; gli affitti furono ridotti.

Illustrazione con la proclamazione della Comune di Parigi, apparsa su una rivista francese 
l’8 aprile 1871

Tutto ciò durò poco più di due mesi: tra il 21 e il 28 maggio (la “settimana di sangue”) l’esercito regolare francese riconquistò Parigi con una battaglia strada per strada, che provocò 20.000 morti. Molti comunardi furono giustiziati senza processo. Altre 47.000 persone furono processate subito dopo: alcune furono condannate a morte, altre (7.500) ai lavori forzati in Nuova Caledonia, una colonia francese in Oceania, o al carcere; altre ancora si salvarono solo fuggendo all’estero.

Cadaveri di membri della guardia nazionale uccisi durante la settimana di sangue

L’Inghilterra, prima potenza industriale, navale e commerciale del mondo, conobbe un periodo di grande sviluppo sotto il lungo regno della regina Vittoria (1837-1901). Nell’Età Vittoriana, come spesso viene chiamato questo periodo, l’Inghilterra partecipò poco alle vicende politiche europee, mentre rafforzò ed estese il suo già vasto dominio coloniale in Africa, in Oceania e soprattutto in Asia (l’India divenne proprio in questi anni completamente soggetta all’Inghilterra). La monarchia parlamentare inglese divenne sempre più democratica con la concessione nel 1884 del diritto di voto a tutti i cittadini maschi nelle elezioni politiche (lo stesso non avvenne per le donne, che però ottennero il diritto di voto nelle elezioni amministrative, riguardanti le comunità locali).

La regina Vittoria in una foto del 1860

La Russia rimase un paese profondamente arretrato, anche se vi furono alcuni progressi grazie alle riforme dello zar Alessandro II Romanov (regnante dal 1855 al 1881), che eliminò la servitù della gleba (1861) e riorganizzò l’esercito, l’istruzione e la giustizia. Lo sviluppo industriale, invece, rimase molto limitato.

Lo zar Alessandro II in un ritratto di Nikolay Lavrov del 1873

L’Impero Ottomano, nell’Europa sud-orientale, era in piena crisi, tanto che venne definito “il grande malato” d’Europa.
Nella penisola Balcanica i popoli aspiravano a liberarsi dal dominio turco: sia la Russia, sia l’Austria-Ungheria cercavano però di portare la regione sotto il loro controllo. Le mire espansionistiche (ossia il desiderio di ampliare il proprio dominio) di questi due paesi e il nazionalismo dei popoli balcanici provocarono forti tensioni, tanto che la regione venne definita “la polveriera balcanica”.
In seguito alla guerra tra Russia e Impero Ottomano (1877-1878) le potenze europee imposero all’Impero Ottomano l’indipendenza di Serbia, Montenegro e Romania e l’autonomia della Bulgaria (congresso di Berlino del 1878).

I partecipanti al Congresso di Berlino del 1878 (Bismarck, che ne fu il promotore, è quello in piedi al centro) in una stampa dell’epoca

Anche all’interno degli Stati avvennero profondi cambiamenti. Molti Stati, come la Francia, la Prussia o i Paesi Bassi, avevano già una costituzione e altri l’ottennero nella seconda metà del secolo. Perciò gli Stati europei, ad eccezione della Russia e pochi altri, divennero monarchie costituzionali.
I re furono quindi affiancati da parlamenti, che avevano alcuni poteri. Nelle costituzioni nate in seguito a rivolte popolari, come in quella francese del 1848, i poteri del parlamento erano molto vasti, mentre nelle costituzioni concesse dai re i poteri parlamentari erano limitati. Spesso i parlamenti rappresentavano solo le classi sociali superiori, perché il suffragio non era quasi mai universale (cioè di tutti gli uomini). Con il tempo però esso andò ampliandosi. In tutti i paesi europei le donne rimasero comunque escluse dal voto.
Le costituzioni garantivano alcuni diritti fondamentali dei cittadini, tra cui quelli di riunione e di associazione.

L’Europa nel 1878