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giovedì 10 marzo 2016

78 L'Italia tra Ottocento e Novecento

L’ITALIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

La seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono per l’Italia un periodo di profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e demografiche.
Negli anni ’80 incominciò un vero e proprio sviluppo industriale. Esso fu reso possibile dalla diminuzione dei costi di trasporto, grazie alla costruzione di una rete ferroviaria nazionale (da 2.200 km nel 1862 a 8.000 nel 1875) e dagli investimenti sia statali, sia privati, italiani e stranieri. Oltre a investire direttamente nella creazione di industrie, lo Stato fornì sovvenzioni (= aiuti in denaro) ai costruttori navali, affinché utilizzassero acciaio di produzione italiana, e alle compagnie marittime, affinché acquistassero battelli dai cantieri italiani.
Dopo le industrie tessili, in Italia si affermarono anche l’industria siderurgica (cioè del ferro e dell’acciaio) e quella meccanica. Lo sviluppo industriale portò a una crescita delle attività finanziarie e favorì anche un certo rinnovamento dell’agricoltura: si ebbe perciò un aumento della produzione e i capitali disponibili in tutti i settori permisero un’accelerazione dello sviluppo, cioè una crescita economica più rapida.


I sovrani d’Italia in visita all’impianto idroelettrico di Vizzola-Ticino nel 1901 (disegno di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere)

L’Italia rimase uno dei Paesi poveri dell’Europa, ma le regioni nord-occidentali ridussero il divario che le separava dall’Europa industrializzata. Non così le regioni meridionali, dove non vi uno sviluppo industriale: perciò l’industrializzazione accentuò le differenze tra il Nord e il Sud.
Lo sviluppo delle industrie aumentò il numero di operai e favorì la nascita di organizzazioni sindacali e politiche, che si ispiravano alle idee socialiste e anarchiche. Venne fondato il Partito Operaio (1882), che poi confluì nel Partito dei lavoratori italiani (1892, divenuto in seguito Partito Socialista). Comparvero anche i primi giornali socialisti, come l’Avanti! (1896). Nacquero le Camere del lavoro, che riunivano i lavoratori iscritti al sindacato in un territorio e si occupavano delle vertenze sindacali: esse divennero i centri delle lotte sociali di fine secolo.


Un manifesto pubblicitario per il giornale socialista Avanti! del 1896

Si ebbero perciò numerose manifestazioni operaie e contadine, nelle città e nelle campagne, tra cui il movimento dei Fasci siciliani, che raggiunse il massimo sviluppo nel 1893 a causa della crisi che aveva investito l’industria dello zolfo e l’esportazione degli agrumi, due settori fondamentali per l’economia dell’isola. Durante i grandi scioperi operai di Milano del 1898 l’esercito sparò sulla folla che protestava, provocando qualche centinaio di morti. Alle proteste per la strage, il governo reagì sospendendo le pubblicazioni di alcuni giornali, chiudendone altri, soprattutto socialisti, e limitando le libertà di riunione, associazione e stampa. La tensione aumentò e si arrivò a una crisi di governo (1899) e all’assassinio del re Umberto I ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci (1900).


L’assassinio di Umberto I in una illustrazione della Domenica del Corriere

Negli anni successivi i governi italiani, guidati da Giovanni Giolitti (primo ministro dal 1903 al 1913, con brevi interruzioni), mantennero un maggiore equilibrio tra le esigenze dei lavoratori e quelle della borghesia e le repressioni violente furono meno frequenti. Le libertà di associazione e stampa furono nuovamente garantite, fu concessa piena libertà di sciopero e nuove leggi limitarono il lavoro minorile. La posizione di neutralità di Giolitti nei conflitti sociali fu criticata sia dai socialisti, che avrebbero voluto un intervento più attivo a favore del proletariato, sia dai conservatori, per i quali il governo avrebbe dovuto soffocare le proteste popolari con la forza.


Il grafico evidenzia che il numero degli scioperi fu costante negli anni di forte tensione, mentre fu scarso il seguito che essi ebbero presso i lavoratori, tranne che nel periodo 1919-1920

L’Età giolittiana, come venne chiamato il periodo in cui Giolitti fu primo ministro, fu un periodo di notevole sviluppo economico, dovuto sia al rafforzarsi delle industrie nazionali, sia alle rimesse degli emigranti, cioè al denaro che essi inviavano alla famiglia rimasta in Italia. Il maggiore benessere favorì l’aumento dei consumi e quindi la crescita industriale. Le ferrovie vennero nazionalizzate (cioè divennero proprietà dello Stato) e la rete ferroviaria fu ampliata.


Giovanni Giolitti

L’Età giolittiana fu inoltre caratterizzata da alcune riforme importanti, tra cui l’introduzione del suffragio universale maschile (1912) per tutti coloro che avevano trent’anni: gli elettori passarono a oltre otto milioni, su una popolazione totale di 36 milioni.
In Italia però le industrie che si stavano sviluppando non erano in grado di offrire lavoro a tutti e l’offerta di manodopera era sovrabbondante rispetto alla richiesta. Perciò molti italiani furono costretti a emigrare, sia dalle regioni del Sud, che erano le più povere, sia dalle regioni settentrionali. Il fenomeno dell’emigrazione si manifestò più tardi rispetto a Paesi come la Germania, l’Irlanda o la Svezia, ma fu particolarmente intenso. L’Italia fu infatti uno dei Paesi europei con il più alto tasso di emigrazione: tra il 1871 e il 1915 oltre 13.500.000 italiani lasciarono l’Italia e si trasferirono in altri Paesi dell’Europa continentale, nei Paesi del Mediterraneo (Africa settentrionale) e oltreoceano (America meridionale, in particolare Argentina e Brasile, e Stati Uniti).


Immigranti italiani si accingono a sbarcare a New York nel 1905

L’emigrazione favorì lo sviluppo dell’economia italiana, grazie alle rimesse che giungevano dagli emigranti; era denaro che migliorò il tenore di vita di una parte della popolazione e permise nuovi investimenti.
Inizialmente il governo italiano rifiutò di partecipare al colonialismo europeo, non volendo imporre una dominazione straniera ad altre popolazioni. L’unico possedimento, nato per esigenze commerciali, rimase la baia di Assab (nell’attuale Eritrea, 1869). Ma i nazionalisti chiedevano che anche l’Italia conquistasse terre in altri continenti e l’occupazione nel 1881 da parte della Francia della Tunisia, dove vivevano molti italiani, rafforzò i sostenitori di una politica coloniale italiana.
Già nel 1885 l’Italia occupò il porto di Massaua (Eritrea) e sotto il primo ministro Crispi ebbe inizio un’espansione coloniale, più per motivazioni di prestigio che economiche. L’Italia estese il suo dominio su tutta l’Eritrea e conquistò la Somalia, nonostante la lunga resistenza della popolazione. I territori conquistati erano però poveri di risorse e di limitata importanza commerciale.
L’espansione coloniale italiana ai margini del regno d’Etiopia (Abissinia) provocò inevitabilmente molte tensioni, che i trattati stipulati non poterono eliminare. La guerra tra Etiopia e Italia si risolse in una tragedia per le truppe italiane: l’esercito italiano venne sconfitto ad Adua, nel 1896, in una battaglia in cui trovarono la morte 7.000 soldati. In seguito alla sconfitta, Crispi si dimise.


Lo scontro tra le truppe etiopi e quelle italiane del generale Dabormida nella battaglia di Adua del 1896 in una illustrazione dell’epoca

Infine, nel 1911-1912, il governo italiano guidato da Giolitti decise di togliere all’Impero Ottomano la Tripolitania e la Cirenaica (che oggi costituiscono la Libia). La conquista riuscì, ma fu accompagnata da una serie di stragi, di cui furono vittime non solo gli arabi che combattevano contro l’invasione italiana, ma anche molti civili che non avevano svolto alcun ruolo nella resistenza. Per stroncare la resistenza araba, vennero prese misure repressive, quali la deportazione di circa 4.000 tra uomini, donne e bambini in campi di prigionia in Italia: circa 700 di questi deportati morirono per le dure condizioni in cui erano tenuti.


Illustrazione di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere (giugno 1912) su un episodio della guerra libica





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