L’ITALIA DOPO L’UNITÀ
Fino al 1859 l’Italia era stata
un’idea; in un tempo brevissimo essa era divenuta una realtà, che doveva però
confrontarsi con problemi enormi, in parte dovuti anche a un’arretratezza
medievale.
Lo scrittore e politico Massimo d’Azeglio
riassunse la situazione in una frase divenuta celebre e che più o meno diceva:
«Fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani». La società italiana, infatti,
era molto eterogenea: dominava una borghesia che per condizioni economiche e
mentalità si sentiva affine a un’aristocrazia ancora forte e che perciò era
attratta facilmente su posizioni conservatrici. La classe sociale più numerosa
era quella dei contadini (il 70% della popolazione), che però non viveva in
condizioni simili in tutto il territorio della penisola. Numerose erano le
differenze regionali in molti aspetti della vita: le consuetudini, le norme
amministrative e giudiziarie, le condizioni finanziarie, gli ordinamenti
militari, gli apparati burocratici, la cultura.
In questo dipinto del palermitano Francesco Lojacono dei nobili
terrieri lasciano la villa che sorge in una campagna desolata e poco produttiva
Povero economicamente e debole
militarmente (come dimostreranno le sconfitte subite durante la Terza guerra
d’indipendenza), l’appena nato Regno d’Italia aveva un ruolo del tutto
secondario nella politica europea. Inoltre in Italia il numero degli elettori
era molto ristretto, perché la maggioranza dei cittadini era priva del diritto
di voto e non partecipava in nessun modo alla vita politica. Perciò i
parlamentari eletti rappresentavano unicamente gli interessi delle classi
superiori, ossia la borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri
meridionali.
Stampa del XIX secolo sulla campagna elettorale a Roma nel maggio del
1880
Il primo Parlamento italiano, nel
1861, era così composto:
il 65,5% moderati (cavouriani e
liberali moderati)
il 24,5% progressisti
(democratici, mazziniani, garibaldini)
il 4% conservatori
il 5% oppositori vari.
In Parlamento si formarono due
schieramenti: la Destra e la Sinistra, così dette per la parte che occupavano
nell’emiciclo della sala dove avvenivano le riunioni parlamentari. Dal punto di
vista ideologico i due schieramenti non erano nettamente separati, anche se
comunque vi erano delle differenze; in seguito, dopo la diffusione del
socialismo, si diversificarono maggiormente e per distinguerli appunto da
quello che poi diventeranno, nei primi anni dell’unità vengono chiamati
solitamente Destra storica e Sinistra storica.
Un emiciclo parlamentare nel XIX secolo
La Destra storica rappresentava
principalmente gli interessi della nobiltà e dell’alta borghesia, perciò voleva
mantenere il suffragio limitato ai cittadini più ricchi. Essa mirava
soprattutto a risanare il forte deficit pubblico, cioè il debito dello Stato
(che si ha quando le spese sono superiori ai guadagni). Questo deficit era
dovuto essenzialmente alle guerre, sia quelle combattute dal Regno di Sardegna,
sia quella del nuovo Stato per la conquista del Veneto. Nel 1862 il totale
delle spese previste raggiungeva circa il miliardo di lire, mentre le entrate
superavano appena i 500 milioni. Per ottenere il risanamento del deficit, la
Destra puntò sulla limitazione delle spese e sull’aumento delle tasse.
Inoltre gli uomini della Destra
sostenevano che lo Stato doveva controllare direttamente tutto il territorio,
senza lasciare alcuna autonomia alle regioni; era forte la preoccupazione che
lo Stato appena formato si frantumasse in poco tempo.
La Destra governò dal 1861 al
1876, sotto la guida di ministri quali il benestante Urbano Rattazzi e il
proprietario terriero Marco Minghetti e riuscì a ottenere il pareggio del
bilancio (quando i guadagni sono alla pari con le spese), eliminando il deficit
che aveva funestato i primi anni dell’Unità.
A sinistra una caricatura di Rattazzi (che cerca di imitare Cavour con
un po’ di trucco), a destra un ritratto di Minghetti
Per aumentare le entrate (cioè il
guadagno per lo Stato, che si ottiene solitamente con le tasse), nel 1868 la
Destra impose una tassa sul macinato (la farina ottenuta macinando il grano),
che colpiva soprattutto la parte più povera della popolazione, per la quale il
pane era il cibo principale. La tassa sul macinato suscitò un forte malcontento
popolare.
Un’altra causa di tensioni fu il
rigido controllo imposto dal governo nazionale su tutto il territorio; esso
infatti non teneva conto delle situazioni assai diverse in cui vivevano gli
italiani.
In questo dipinto del 1883 Angelo Morbelli ritrae uno dei saloni del
Pio Albergo Trivulzio a Milano, che era un ricovero per anziani poveri; con
quest’opera voleva evidenziare la desolante realtà di questi vecchi negli
ultimi giorni della loro vita
La Sinistra storica rappresentava
piuttosto gli interessi della media e piccola borghesia: essa perciò richiedeva
un allargamento del suffragio. Sosteneva inoltre la necessità di diffondere
l’istruzione e dare una maggiore autonomia alle amministrazioni locali.
La Sinistra salì al potere nel
1876, prima sotto la guida di Agostino Depretis, poi di Francesco Crispi,
entrambi figli di amministratori di proprietà terriere di gente nobile. La
Sinistra attuò alcune riforme importanti: nel 1877 rese obbligatoria e gratuita
la scuola elementare (legge Coppino, dal nome del ministro che la propose); nel
1880 abolì la tassa sul macinato; nel 1882 abbassò l’età degli elettori da 25 a 21 anni ed estese il
diritto di voto, che rimase comunque molto limitato, passando dal 2 al 7% della
popolazione.
Litografia del XIX secolo rappresentante due classi (una maschile e una
femminile) e tutto ciò che occorreva allo scolaro. Nell’Ottocento post-unitario
si diffuse l’idea che solo attraverso l’emancipazione e l’alfabetizzazione
delle masse popolari l’Italia poteva rinnovarsi e affrontare la strada del progresso
I primi anni dell’unità d’Italia
furono segnati da un comportamento politico dei parlamentari, che viene
chiamato trasformismo e che fu piuttosto problematico: non era raro che i deputati
dell’opposizione passassero ad appoggiare il governo, in seguito ad accordi
individuali o di piccoli gruppi, per ottenere vantaggi personali e per
garantirsi la rielezione, oppure togliessero il loro appoggio al governo,
perché non ottenevano quanto desideravano. Dopo un secolo e mezzo in Italia
questo malcostume è ancora operante.
Casimiro Teja, Caricatura del Parlamento, incisione della seconda metà
del XIX secolo
Uno dei problemi che i governi
dovettero affrontare fu quello dei rapporti con il papa e con la Chiesa: venne
chiamato “questione romana”. In seguito alla conquista di Roma (1870) il papa
si riteneva prigioniero dello Stato italiano, benché una legge del 1871 (detta
delle guarentigie, che significa garanzie solenni decretate per legge) gli
garantisse piena libertà di movimento, lo riconoscesse sovrano dello Stato del
Vaticano e gli assicurasse una rendita annua.
I papi si rifiutarono di
accettare la situazione e proibirono ai cattolici ogni partecipazione alla
politica nazionale, anche solo attraverso il voto. Tale proibizione, in vigore
fino al 1904, fu in realtà rispettata solo da una parte dei cattolici, ma
impedì comunque che in Italia nascesse un partito cattolico, come avveniva in
altri paesi europei.
Per tutto l’Ottocento l’Italia
rimase uno Stato povero, economicamente assai meno sviluppato della maggioranza
degli Stati dell’Europa centro-occidentale, con poche industrie, concentrate
soprattutto al Nord, e un’agricoltura spesso arretrata. Né le cose erano
migliori per quanto riguarda l’infrastruttura principale dell’economia
dell’epoca: la costruzione di ferrovie. Nelle regioni industrializzate
dell’Europa le ferrovie non solo erano il volano della crescita dell’industria
meccanica, ma assicuravano anche la distribuzione dei prodotti nel territorio
statale; tanto meglio avrebbero dovuto essere costruite nel nostro paese, che
per la sua conformazione geografica non favoriva le comunicazioni e gli scambi
tra le diverse regioni. Invece in Italia, dove nel 1861 c’erano appena 2.000 chilometri
di strada ferrata, si salì a 6.000 nel 1870, ma questo era ancora poco,
rispetto, per esempio, ai 16.000 chilometri della Francia. Senza tener
conto che la crescita delle ferrovie avveniva da noi in gran parte con capitale
straniero, cioè erano Stati stranieri a darci binari, locomotive e quanto
serviva alla costruzione di un tratto ferroviario.
Allo sviluppo ferroviario avrebbe
dovuto accompagnarsi anche un forte sviluppo stradale, del servizio postale e
di quello telegrafico, ma fu solo verso la fine del secolo che in Italia si
ebbe una crescita industriale significativa.
Inoltre, al momento
dell’unificazione le differenze economiche tra l’Italia settentrionale e quella
meridionale erano molto forti. Questo problema, che venne chiamato “questione
meridionale”, non fu risolto dall’Unità, ma per certi aspetti andò invece
aggravandosi.
L’Unità infatti portò diversi
vantaggi alle industrie che si stavano sviluppando al Nord e che ottennero un
mercato molto più ampio. Invece le poche industrie esistenti al Sud, che di
solito impiegavano molta manodopera e avevano quindi costi di produzione più
alti, furono spesso danneggiate dall’unificazione, perché non erano in grado di
reggere la concorrenza. Né la borghesia industriale del Nord (che aveva
numerosi rappresentanti in Parlamento) ammetteva concorrenti per le proprie industrie
all’interno dello Stato.
Ernesto Breda con i suoi collaboratori nel 1892 in occasione della
consegna di una locomotiva alla Romania. Fondata a Milano nel 1886, quella di
Ernesto Breda fu una delle prime industrie meccaniche italiane specializzate
nella costruzione di locomotive, vagoni ferroviari e macchine per l’agricoltura
L’altro forte gruppo parlamentare
(quello dei grandi proprietari terrieri del Sud) non accettava né di cedere le
proprie immense proprietà ai contadini, né di investire grandi somme di denaro
per migliorare la produzione. Eppure queste due erano le più efficaci misure da
adottare, per una profonda riforma agraria che creasse sviluppo nell’Italia
meridionale.
In questo modo il divario tra
Nord e Sud non si ridusse, anzi, si accentuò per lo sviluppo economico del
Nord.
Un dipinto del 1886, intitolato Bestie da soma, dell’abruzzese Teofilo Patini, sulle dure condizioni dei contadini
nell’Italia meridionale
APPROFONDIMENTI (li trovi nella sidebar di destra):
La società italiana nel XIX secolo