Approfondimenti

giovedì 10 marzo 2016

79 La Prima guerra mondiale

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Alla fine del XIX secolo vi erano numerosi contrasti tra gli Stati europei.
La rivalità per il possesso delle colonie era molto forte, sia per gli interessi economici che ne derivavano, sia per motivi di prestigio. In particolare la Germania, che aveva poche colonie da sfruttare, era in contrasto con Francia e Inghilterra, che possedevano invece un vasto impero coloniale.
Un’altra rivalità importante esisteva tra Russia e Austria-Ungheria, per il dominio sulla penisola Balcanica, dove ormai l’Impero Ottomano era in piena crisi: la Russia mirava a controllare gli stretti all’ingresso del Mar Nero (Bosforo e Dardanelli), mentre l’Austria-Ungheria avrebbe voluto impedirlo. In questo contrasto erano coinvolte anche l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, perché il controllo sulla penisola era importante per il dominio sul Mediterraneo.
Altre tensioni dipendevano dalle richieste di autonomia o di indipendenza delle popolazioni che facevano parte dei grandi imperi, come i Polacchi (in prevalenza sotto il dominio della Russia), i Cechi, i Croati e i Bosniaci (sotto dominio austriaco) o gli Italiani del Trentino, di Trieste e di Zara (anch’essi sotto dominio austriaco).
Tutte queste tensioni erano esasperate dal forte nazionalismo: in ogni Stato i nazionalisti premevano sul governo perché realizzasse una politica di potenza e molti invocavano la guerra, convinti che il loro Stato avrebbe sconfitto i nemici e ottenuto quanto gli spettava.

Manifesti nazionalisti francesi e tedeschi, in cui il nemico viene presentato come un avvoltoio o una donna che si abbuffa, mentre se stessi si è visti come lavoratori indefessi o come soldati valorosi

Ne seguì una militarizzazione della società: gli ufficiali dell’esercito acquistarono un’influenza sempre maggiore nella vita politica e in molti Paesi una parte crescente del bilancio dello Stato fu destinata alle spese militari.
In questa situazione l’assassinio dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, e della moglie, a Sarajevo (in Bosnia), ad opera di uno studente serbo, Gavrilo Princip, il 28 giugno 1914, fu il pretesto per una guerra che oppose gli Imperi centrali (Austria-Ungheria e Germania) e l’Impero Ottomano alle potenze della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia).

Nella sequenza di immagini (foto e illustrazioni): l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia a Sarajevo, l’attentato, le salme delle vittime e l’arresto di Gavrilo Princip

La guerra, combattuta soprattutto in Europa, fu chiamata Prima guerra mondiale perché si combatté anche nelle colonie tedesche d’Africa, Asia e Oceania e perché vi parteciparono gli Stati Uniti d’America. L’impatto che essa ebbe sulla società di inizio Novecento ha fatto sì che sia chiamata anche Grande Guerra.


Nei due schieramenti contrapposti molti contavano su una rapida conclusione della guerra, cioè sulla cosiddetta guerra-lampo che avrebbe dovuto finire in poche settimane, o al massimo in pochi mesi. Ma questa guerra di movimento, basata sui veloci spostamenti degli eserciti, si trasformò presto in una guerra di logoramento, in cui gli avversari cercavano di distruggersi a vicenda. Buona parte della guerra si combatté in trincee, cioè lunghi fossati, protetti da un parapetto e da reticolati di filo spinato, in cui i soldati si riparavano dai bombardamenti; dalle trincee essi partivano, secondo i piani strategici degli alti ufficiali, alla conquista delle trincee nemiche, attraversando la cosiddetta “terra di nessuno”, ossia lo spazio esistente tra le opposte trincee.

Una trincea della Prima guerra mondiale

Nella Prima guerra mondiale vennero utilizzate le armi inventate nell’Ottocento: cannoni e fucili più precisi (a canna rigata) e più facilmente ricaricabili (a retrocarica), mitragliatrici e diversi tipi di bombe. Ma fecero la loro comparsa anche nuove armi, in particolare i primi carri armati, i sottomarini e gli aeroplani. Si fece uso di gas velenosi, i cui effetti furono talmente devastanti che alcuni anni dopo (nel 1925) si arrivò a un accordo per proibirne l’uso.

Soldati tedeschi prigionieri indossano una maschera antigas a Ypres (Belgio) nel 1915

L’utilizzo di questi mezzi senza nessun limite provocò grandi stragi: nel corso del conflitto ci furono quasi dieci milioni di morti e 21 milioni di feriti, molti dei quali segnati per tutta la vita da menomazioni o traumi psicologici. Questa situazione era aggravata dal comportamento degli alti comandi, che non di rado mandavano i soldati ad assalire frontalmente i reticolati nemici (e quindi a morte certa).
Questi comportamenti provocarono più volte ammutinamenti, ossia il rifiuto di obbedire agli ordini superiori da parte dei soldati; gli ammutinamenti vennero repressi con processi e fucilazioni.

La fucilazione di 3 soldati accusati di essersi comportati da codardi;
non si tratta di una foto dell’epoca, bensì di un fotogramma da “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick”, il più bel film sulla Grande Guerra che sia mai stato realizzato

Allo scoppio della guerra si ebbe in tutti gli Stati europei un forte entusiasmo patriottico.
Con il passare del tempo però, la situazione cambiò, perché in tutta Europa la guerra provocò un drastico peggioramento delle condizioni di vita. Gli uomini validi partivano per il fronte, dove molti morivano o rimanevano mutilati; l’aumento vertiginoso delle spese militari assorbiva le risorse dello Stato; il cibo venne razionato (cioè ne venne limitata la quantità disponibile per ogni persona) e si ebbero carestie in Russia, Austria e Germania. Si moltiplicarono perciò agitazioni, proteste e poi rivolte in diversi Paesi europei, in cui una parte della popolazione richiedeva la fine della guerra. A capo dell’opposizione alla guerra fu spesso la sinistra socialista, che non aveva voluto la guerra.

A sinistra distribuzione di pane in una strada di Vienna nel 1917: a destra due ragazzi viennesi con chiari sintomi di malnutrizione

L’Italia era alleata con la Germania e l’Austria (Triplice Alleanza), ma non essendo stata consultata prima della dichiarazione di guerra, non era tenuta a intervenire e il governo dichiarò la neutralità dell’Italia (agosto 1914).
In Italia la larga maggioranza della popolazione era contraria alla guerra, ma vi era una minoranza interventista (cioè favorevole all’intervento in guerra): i nazionalisti speravano in una vittoria che avrebbe accresciuto l’importanza politica dell’Italia; gli irredentisti, coloro che volevano la liberazione delle terre abitate da italiani ancora sotto dominio austriaco, contavano che l’Italia le conquistasse mediante la guerra; i grandi gruppi industriali erano interessati alle possibilità di guadagno offerte dalle commesse militari, ossia le ordinazioni di merci che servivano al conflitto (dalle armi alle divise dei soldati, dai mezzi di trasporto bellici ai cibi per le truppe).

Cartolina del 1915 che mostra l’Italia, ancora neutrale, corteggiata dalle cinque potenze belligeranti: Germania e Austria-Ungheria a sinistra, Gran Bretagna, Francia e Russia a destra

Il 23 maggio 1915 il governo dichiarò guerra agli imperi centrali, dopo che le potenze dell’Intesa assicurarono durante un incontro segreto con il nostro governo (patto di Londra) che l’Italia avrebbe avuto in caso di vittoria Trento, il Tirolo meridionale (cioè l’Alto Adige), Trieste, l’Istria e parte della Dalmazia.
Vi fu una rapida avanzata iniziale, che venne fermata sull’Isonzo, e da allora per due anni le truppe italiane e quelle austriache si affrontarono nelle trincee. L’esercito italiano, formato in larga maggioranza da contadini male addestrati e male equipaggiati e guidato da ufficiali spesso incapaci, venne decimato nelle azioni di guerra e dai bombardamenti: la Prima guerra mondiale costò all’Italia la perdita di circa 600.000 soldati.

Soldati italiani sul Carso

Sul fronte italo-austriaco vi furono pochi grandi movimenti, fino a che un attacco austro-tedesco a Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia), nell’ottobre 1917, riuscì a sfondare il fronte: il Friuli e il Veneto settentrionale furono conquistati, l’esercito italiano costretto al ritiro, assieme a masse ingenti di profughi civili, e l’avanzata austro-tedesca venne fermata solo sul fiume Piave (dicembre 1917).

Operazioni di soccorso sull’argine del Piave nel giugno 1918

Nel 1917 però gli attacchi dei sottomarini tedeschi contro tutte le navi mercantili che si avvicinavano alla Gran Bretagna (è famoso il caso del transatlantico Lusitania, il cui affondamento costò la vita a 1201 persone) provocarono l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, le cui navi venivano colpite. Gli USA dichiararono guerra alla Germania nell’aprile 1917 e il loro contributo alla guerra fu determinante, per la potenza degli armamenti e dell’esercito, non logorato da anni di guerra.
Nel marzo 1918 cessò di esistere il fronte orientale (quello russo-tedesco), in seguito alla rivoluzione russa e alla decisione dei rivoluzionari di ritirarsi dal conflitto.
Di fronte agli attacchi francesi, inglesi e statunitensi sul fronte occidentale, l’esercito tedesco fu costretto a ritirarsi.
Sul fronte meridionale (italo-austriaco) nell’ottobre 1918 l’esercito italiano ottenne un’importante vittoria a Vittorio Veneto e avanzò fino a occupare Trento e Trieste.
Nel 1918 perciò la guerra si concluse con la vittoria di Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e dei loro alleati, su Austria, Germania e Impero Ottomano.

Soldati americani nella battaglia delle Argonne (settembre-novembre 1918)

APPROFONDIMENTI (li trovi nella sidebar a destra):
- Canti e canzoni della Grande Guerra: 
   parte 1: Cori alpini italiani
   parte 2: Canti reinterpretati
   parte 3: Canzoni degli altri Paesi belligeranti
   parte 4: Canzoni ispirate alla Prima guerra mondiale
- Le armi della Prima guerra mondiale  
- La Grande Guerra anno per anno

78 L'Italia tra Ottocento e Novecento

L’ITALIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

La seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento furono per l’Italia un periodo di profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e demografiche.
Negli anni ’80 incominciò un vero e proprio sviluppo industriale. Esso fu reso possibile dalla diminuzione dei costi di trasporto, grazie alla costruzione di una rete ferroviaria nazionale (da 2.200 km nel 1862 a 8.000 nel 1875) e dagli investimenti sia statali, sia privati, italiani e stranieri. Oltre a investire direttamente nella creazione di industrie, lo Stato fornì sovvenzioni (= aiuti in denaro) ai costruttori navali, affinché utilizzassero acciaio di produzione italiana, e alle compagnie marittime, affinché acquistassero battelli dai cantieri italiani.
Dopo le industrie tessili, in Italia si affermarono anche l’industria siderurgica (cioè del ferro e dell’acciaio) e quella meccanica. Lo sviluppo industriale portò a una crescita delle attività finanziarie e favorì anche un certo rinnovamento dell’agricoltura: si ebbe perciò un aumento della produzione e i capitali disponibili in tutti i settori permisero un’accelerazione dello sviluppo, cioè una crescita economica più rapida.


I sovrani d’Italia in visita all’impianto idroelettrico di Vizzola-Ticino nel 1901 (disegno di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere)

L’Italia rimase uno dei Paesi poveri dell’Europa, ma le regioni nord-occidentali ridussero il divario che le separava dall’Europa industrializzata. Non così le regioni meridionali, dove non vi uno sviluppo industriale: perciò l’industrializzazione accentuò le differenze tra il Nord e il Sud.
Lo sviluppo delle industrie aumentò il numero di operai e favorì la nascita di organizzazioni sindacali e politiche, che si ispiravano alle idee socialiste e anarchiche. Venne fondato il Partito Operaio (1882), che poi confluì nel Partito dei lavoratori italiani (1892, divenuto in seguito Partito Socialista). Comparvero anche i primi giornali socialisti, come l’Avanti! (1896). Nacquero le Camere del lavoro, che riunivano i lavoratori iscritti al sindacato in un territorio e si occupavano delle vertenze sindacali: esse divennero i centri delle lotte sociali di fine secolo.


Un manifesto pubblicitario per il giornale socialista Avanti! del 1896

Si ebbero perciò numerose manifestazioni operaie e contadine, nelle città e nelle campagne, tra cui il movimento dei Fasci siciliani, che raggiunse il massimo sviluppo nel 1893 a causa della crisi che aveva investito l’industria dello zolfo e l’esportazione degli agrumi, due settori fondamentali per l’economia dell’isola. Durante i grandi scioperi operai di Milano del 1898 l’esercito sparò sulla folla che protestava, provocando qualche centinaio di morti. Alle proteste per la strage, il governo reagì sospendendo le pubblicazioni di alcuni giornali, chiudendone altri, soprattutto socialisti, e limitando le libertà di riunione, associazione e stampa. La tensione aumentò e si arrivò a una crisi di governo (1899) e all’assassinio del re Umberto I ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci (1900).


L’assassinio di Umberto I in una illustrazione della Domenica del Corriere

Negli anni successivi i governi italiani, guidati da Giovanni Giolitti (primo ministro dal 1903 al 1913, con brevi interruzioni), mantennero un maggiore equilibrio tra le esigenze dei lavoratori e quelle della borghesia e le repressioni violente furono meno frequenti. Le libertà di associazione e stampa furono nuovamente garantite, fu concessa piena libertà di sciopero e nuove leggi limitarono il lavoro minorile. La posizione di neutralità di Giolitti nei conflitti sociali fu criticata sia dai socialisti, che avrebbero voluto un intervento più attivo a favore del proletariato, sia dai conservatori, per i quali il governo avrebbe dovuto soffocare le proteste popolari con la forza.


Il grafico evidenzia che il numero degli scioperi fu costante negli anni di forte tensione, mentre fu scarso il seguito che essi ebbero presso i lavoratori, tranne che nel periodo 1919-1920

L’Età giolittiana, come venne chiamato il periodo in cui Giolitti fu primo ministro, fu un periodo di notevole sviluppo economico, dovuto sia al rafforzarsi delle industrie nazionali, sia alle rimesse degli emigranti, cioè al denaro che essi inviavano alla famiglia rimasta in Italia. Il maggiore benessere favorì l’aumento dei consumi e quindi la crescita industriale. Le ferrovie vennero nazionalizzate (cioè divennero proprietà dello Stato) e la rete ferroviaria fu ampliata.


Giovanni Giolitti

L’Età giolittiana fu inoltre caratterizzata da alcune riforme importanti, tra cui l’introduzione del suffragio universale maschile (1912) per tutti coloro che avevano trent’anni: gli elettori passarono a oltre otto milioni, su una popolazione totale di 36 milioni.
In Italia però le industrie che si stavano sviluppando non erano in grado di offrire lavoro a tutti e l’offerta di manodopera era sovrabbondante rispetto alla richiesta. Perciò molti italiani furono costretti a emigrare, sia dalle regioni del Sud, che erano le più povere, sia dalle regioni settentrionali. Il fenomeno dell’emigrazione si manifestò più tardi rispetto a Paesi come la Germania, l’Irlanda o la Svezia, ma fu particolarmente intenso. L’Italia fu infatti uno dei Paesi europei con il più alto tasso di emigrazione: tra il 1871 e il 1915 oltre 13.500.000 italiani lasciarono l’Italia e si trasferirono in altri Paesi dell’Europa continentale, nei Paesi del Mediterraneo (Africa settentrionale) e oltreoceano (America meridionale, in particolare Argentina e Brasile, e Stati Uniti).


Immigranti italiani si accingono a sbarcare a New York nel 1905

L’emigrazione favorì lo sviluppo dell’economia italiana, grazie alle rimesse che giungevano dagli emigranti; era denaro che migliorò il tenore di vita di una parte della popolazione e permise nuovi investimenti.
Inizialmente il governo italiano rifiutò di partecipare al colonialismo europeo, non volendo imporre una dominazione straniera ad altre popolazioni. L’unico possedimento, nato per esigenze commerciali, rimase la baia di Assab (nell’attuale Eritrea, 1869). Ma i nazionalisti chiedevano che anche l’Italia conquistasse terre in altri continenti e l’occupazione nel 1881 da parte della Francia della Tunisia, dove vivevano molti italiani, rafforzò i sostenitori di una politica coloniale italiana.
Già nel 1885 l’Italia occupò il porto di Massaua (Eritrea) e sotto il primo ministro Crispi ebbe inizio un’espansione coloniale, più per motivazioni di prestigio che economiche. L’Italia estese il suo dominio su tutta l’Eritrea e conquistò la Somalia, nonostante la lunga resistenza della popolazione. I territori conquistati erano però poveri di risorse e di limitata importanza commerciale.
L’espansione coloniale italiana ai margini del regno d’Etiopia (Abissinia) provocò inevitabilmente molte tensioni, che i trattati stipulati non poterono eliminare. La guerra tra Etiopia e Italia si risolse in una tragedia per le truppe italiane: l’esercito italiano venne sconfitto ad Adua, nel 1896, in una battaglia in cui trovarono la morte 7.000 soldati. In seguito alla sconfitta, Crispi si dimise.


Lo scontro tra le truppe etiopi e quelle italiane del generale Dabormida nella battaglia di Adua del 1896 in una illustrazione dell’epoca

Infine, nel 1911-1912, il governo italiano guidato da Giolitti decise di togliere all’Impero Ottomano la Tripolitania e la Cirenaica (che oggi costituiscono la Libia). La conquista riuscì, ma fu accompagnata da una serie di stragi, di cui furono vittime non solo gli arabi che combattevano contro l’invasione italiana, ma anche molti civili che non avevano svolto alcun ruolo nella resistenza. Per stroncare la resistenza araba, vennero prese misure repressive, quali la deportazione di circa 4.000 tra uomini, donne e bambini in campi di prigionia in Italia: circa 700 di questi deportati morirono per le dure condizioni in cui erano tenuti.


Illustrazione di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere (giugno 1912) su un episodio della guerra libica





77 Le migrazioni nel XIX secolo


LE MIGRAZIONI NEL XIX SECOLO

Nel corso dell’Ottocento ci fu un forte aumento della popolazione sia in Europa, sia in altre aree del mondo: in Europa si passò da 266 milioni di abitanti nel 1850 a 401 nel 1900, in Cina la popolazione triplicò tra il 1700 e il 1850, quando superò i 400 milioni. Questo aumento dipese dallo sviluppo dell’agricoltura, che forniva più cibo, e, soprattutto in Europa, dai progressi nelle condizioni igieniche.


La popolazione mondiale tra 1800 e 1900

Nelle campagne d’Europa e di diversi Stati dell’Asia i posti di lavoro non erano sufficienti per una popolazione in rapida crescita e molti decisero di lasciare la loro casa alla ricerca di lavoro e condizioni di vita migliori.
Nel XIX secolo, dunque, vi fu una grande migrazione dalle campagne alle città, soprattutto verso i grandi centri industriali. Spesso queste migrazioni avvenivano all’interno dello stato, ma quando lo Stato era poco industrializzato uomini e donne si dirigevano anche verso regioni più lontane, come gli irlandesi nelle città industriali inglesi. Ad attirare i contadini in città era la possibilità di trovare un lavoro e di ottenere maggiori guadagni, perciò queste migrazioni furono più intense nei periodi di crisi o di trasformazioni economiche.
Le migrazioni avvenivano anche tra città diverse, soprattutto dai centri minori a quelli maggiori: nel XIX secolo si accentuò la differenza esistente tra i grandi centri urbani, che conobbero una crescita molto rapida, e i piccoli centri, molti dei quali persero importanza.


Illustrazione del 1851 raffigurante un gruppo di irlandesi in preghiera prima di emigrare

Le migrazioni portarono a una forte crescita urbana, soprattutto là dove vi erano più possibilità di trovare lavoro: nelle capitali, nei principali porti e in alcune città industriali.
Molti si spinsero più lontano, lasciando il proprio continente: tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbe perciò la più vasta migrazione su lunga distanza mai avvenuta fino ad allora nel mondo: tra il 1850 e il 1913 più di 40 milioni di persone lasciarono l’Europa per gli Stati Uniti e altri si diressero in Canada e nei Paesi dell’America meridionale, in particolare Argentina e Brasile; altri ancora in Australia e, in misura minore, in Africa; tra il 1815 e il 1915 oltre 20 milioni di cinesi, giapponesi e indiani raggiunsero altri Paesi asiatici, l’America o (nel caso degli indiani) l’Africa inglese.
Le migrazioni oltre oceano avevano di solito cause economiche: molti lasciarono il loro Paese perché gli Stati meta di immigrazione offrivano maggiori possibilità di lavoro e salari più alti.


Emigranti tedeschi diretti negli Usa nel porto di Amburgo nel 1874

Le migrazioni potevano però avere anche altre motivazioni. Alcuni furono espulsi dal loro Paese, per motivi politici o perché appartenenti a minoranze etniche o religiose: fu in particolare il caso di molti ebrei, discriminati e poi espulsi dalla Russia (1891), ma anche di sindacalisti, socialisti e anarchici. Altri infine partirono per sfuggire a guerre, come fecero molti contadini cinesi durante la grande rivolta popolare del 1853-1864.


Ebrei russi a Ellis Island (New York) nel 1900 circa

Per gli emigranti il trasferimento in un altro continente presentava diversi problemi. Il viaggio costava molto, tanto che spesso l’emigrante doveva indebitarsi per pagarlo, e presentava diversi rischi, tra cui quello di naufragio. Le condizioni di vita e di lavoro nel nuovo Paese esponevano l’emigrante a malattie e incidenti, senza che egli potesse contare su un’assistenza sanitaria. L’immigrato si trovava isolato, in un paese di cui non conosceva la lingua, ed era per lui molto difficile inserirsi in una realtà nuova; il suo isolamento era spesso aggravato dalla separazione dalla propria famiglia.


L’affondamento del piroscafo Sirio nel 1906 (copertina di Achille Beltrame per la Domenica del Corriere): dal 1883 la nave era usata per il trasporto di emigranti italiani in America

Nei confronti degli immigrati vi era molta diffidenza, soprattutto quando essi avevano tradizioni diverse: ad esempio molti Paesi, come gli Stati Uniti, proibirono l’immigrazione cinese (1891) e limitarono quella giapponese (1907).
Per poter affrontare meglio questi problemi, gli emigranti tendevano a stabilirsi in Paesi in cui erano già presenti loro familiari o amici, che nel primo periodo potevano ospitarli e aiutarli. Si ebbero così migrazioni a catena, in cui ogni immigrato richiamava altri immigrati, e all’interno di molte città e Stati si formarono comunità di immigrati, spesso molto numerose, con forti concentrazioni: ad esempio a Wellington (Nuova Zelanda) si formò una forte comunità proveniente da Stromboli (Sicilia), a Providence (Stati Uniti) una di Caserta, a San Gustavo (Argentina) una delle prealpi piemontesi.


Alloggio sotterraneo per emigranti poveri a New York nel 1869








76 Il colonialismo nel XIX secolo

IL COLONIALISMO NEL XIX SECOLO

All'inizio dell'Ottocento, dopo l'indipendenza dell'America centro-meridionale, solo l'Inghilterra e la Russia possedevano un vasto impero coloniale. L'Impero Russo comprendeva un esteso territorio nell'Asia centrale e settentrionale (oltre all'Alaska, in America, che venne poi venduta agli USA nel 1867), mentre l'Inghilterra aveva colonie in tutti i continenti.
Le colonie inglesi erano di due tipi: colonie di popolamento e colonie di sfruttamento.
Nelle colonie di popolamento (Canada, Australia e Nuova Zelanda) la popolazione di origine europea divenne numerosa, per l'immigrazione dalle Isole Britanniche, mentre gli indigeni (le popolazioni originarie) furono in gran parte sterminati e costretti a cedere le loro terre ai coloni: in Tasmania, un'isola a sud dell'Australia, si ebbe un completo genocidio, con vere e proprie cacce all'uomo, e l'ultimo indigeno della Tasmania morì nel 1876. Queste colonie, popolate ormai in maggioranza da inglesi, ottennero un'ampia autonomia (il Canada nel 1867 – vedi lezione n° 73 – l'Australia nel 1901) e formarono Stati di tipo europeo.

Un mural a Melbourne (Australia) in ricordo dello sterminio degli aborigeni

Nelle colonie di sfruttamento la quasi totalità della popolazione era formata da indigeni e i coloni inglesi erano solo una minoranza. Queste colonie, tra cui la principale era l'India, fornivano all'Inghilterra materie prime e un mercato per i prodotti industriali, ma anche uomini da arruolare nell'esercito, che gli inglesi utilizzarono per la loro espansione coloniale.

Una nave a vapore inglese a Calcutta all’inizio del Novecento

Le altre potenze europee possedevano territori in altri continenti, ma si trattava di aree non molto estese: solo dopo il 1880 Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Italia avviarono una massiccia espansione coloniale, che in trent'anni assicurò il dominio europeo su tutta l'Africa, sull'Oceania e su gran parte dell'Asia. A questa espansione parteciparono anche il Giappone (conquista di Formosa, oggi Taiwan, e della Corea) e gli USA (conquista di territori spagnoli, tra cui le Filippine, e di isole nel Pacifico). Questa tendenza a conquistare territori e formare un vasto impero è detta appunto imperialismo.

I possedimenti coloniali europei all’inizio del ‘900

La conquista di nuovi territori aveva motivi economici: essi potevano fornire materie prime a basso prezzo, manodopera costretta a lavorare gratuitamente, mercati per la vendita dei prodotti industriali.
L'imperialismo dipese anche dal desiderio di ottenere una posizione di prestigio, per presentarsi come una nazione più potente delle altre: il nazionalismo, come viene chiamato questo modo di pensare, era molto forte in Europa.

La raccolta dell’avorio in Africa in un’incisione del XIX secolo

L'espansione coloniale, come tutte le guerre, poteva servire anche per distrarre l'opinione pubblica dai problemi interni: l'attacco francese ad Algeri (1830) fu progettato proprio a questo scopo, anche se non fu sufficiente a evitare la rivoluzione del 1830.
Gli europei giustificarono il colonialismo, sostenendo che essi portavano ai popoli selvaggi dell'Africa e dell'Asia la civiltà, il progresso e tutte le conquiste della scienza: essi affermavano di aver cioè una missione civilizzatrice da compiere. Gli europei del XIX secolo si consideravano diversi dagli altri popoli e superiori per razza, religione e cultura, perciò ritenevano naturale e inevitabile il loro dominio sul mondo.

Una vignetta satirica pubblicata dal “Fischietto” (gennaio 1886) raffigura le potenze europee che portano la civiltà nei Paesi colonizzati

Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia opposero una tenace resistenza all'invasione europea, perché non volevano perdere la propria indipendenza.
Anche dopo la conquista ci furono numerose rivolte, come quella dei sepoys (i reggimenti dell'esercito indiano composti dalla popolazione locale) in India tra il 1857 e il 1858.
Gli europei erano però economicamente e militarmente più forti, grazie allo sviluppo industriale e ai progressi tecnici, che avevano portato alla produzione di armi più distruttive. Fu per loro facile vincere le guerre e soffocare le rivolte. Le popolazioni africane e asiatiche riuscirono a conservare la loro libertà solo in rari casi.

Illustrazione raffigurante la rivolta dei sepoys (o ammutinamento indiano) contro la Gran Bretagna

La spartizione coloniale dell'Asia e soprattutto dell'Africa avvenne senza tener conto in alcun modo dei popoli che venivano sottomessi: i confini decisi dai colonizzatori in qualche caso divisero uno stesso popolo in possedimenti coloniali diversi, o unirono in un medesimo territorio popolazioni nemiche.
La maggior parte dei territori conquistati furono organizzati in colonie di sfruttamento, nelle quali le popolazioni indigene furono costrette a lavorare per gli europei. Le compagnie europee sfruttarono le miniere, installarono piantagioni sulle terre più fertili, disboscarono le foreste per procurarsi legname. Per sfruttare i territori vennero costruite strade e ferrovie, che permettevano di raggiungere rapidamente i porti, da dove le materie prime venivano imbarcate per l’Europa e i manufatti europei partivano per i villaggi dell’interno. Le attività artigianali locali furono ostacolate o anche eliminate, per assicurare la vendita dei prodotti europei.
In Africa vi furono anche colonie di popolamento, soprattutto nell’Africa settentrionale, dove nel 1914 c’erano oltre due milioni di europei residenti: francesi, italiani, spagnoli, greci.
Tra gli Stati europei nascevano spesso contrasti per il controllo dei territori coloniali e il diffuso nazionalismo rendeva molto forti le tensioni tra gli Stati. Perciò le potenze europee arrivarono più volte sull’orlo di una guerra.

Una carovana francese attaccata da ribelli marocchini in un’illustrazione del “Petit Journal” del 1903: l’occupazione francese del Marocco creò una grave frizione con la Germania

Per non trovarsi isolati in una possibile guerra, gli Stati europei che avevano interessi comuni si unirono in alleanze politico-militari: la Triplice Alleanza, che riuniva Germania, Austria-Ungheria e Italia (1882), e la Triplice Intesa, che legava Francia, Inghilterra e Russia (1904 e 1907).
L’alleanza tra Francia, Inghilterra e Russia portò a un accerchiamento della Germania, i cui territori confinavano a est con la Russia e a ovest con la Francia; così pure le colonie tedesche erano attorniate dai domini coloniali inglesi e francesi. Il governo tedesco vide in questo accerchiamento una minaccia per la Germania e tra il 1904 e il 1914 le tensioni esistenti in Europa aumentarono fino a provocare lo scoppio della Prima guerra mondiale.


Il colonialismo europeo modificò enormemente la situazione politica extra-europea: l’America, che fino al 1776 era interamente sotto controllo europeo, alla fine del XIX secolo era costituita da Stati quasi tutti indipendenti; l’Africa e l’Asia, dove fino a metà Settecento i domini europei erano limitati, erano passate in gran parte sotto controllo europeo.
A controllare l’Africa (a eccezione dell’Etiopia), gran parte dell’Asia e l’Oceania erano poche potenze europee: Inghilterra e Francia in primo luogo, poi Russia, Germania, Belgio e Paesi Bassi, e, in misura ancora minore, Italia, Spagna e Portogallo.
L’altra grande potenza mondiale, Gli Stati Uniti d’America, possedeva solo alcuni territori (tra cui le isole Filippine in Asia e Puerto Rico in America, tolte alla Spagna nel 1898).

Illustrazione del 1885, contemporanea all’avvenimento rappresentato: la presa di Lang Son (nell’attuale Vietnam) da parte dell’esercito francese

In Asia rimanevano ancora alcuni Stati indipendenti, tra cui tre (Cina, Giappone e Impero Ottomano) avevano una certa importanza economica e politica a livello internazionale.
Il Giappone rifiutò a lungo ogni contatto con l’Europa, mantenendo i porti chiusi alle navi europee, ma tra il 1853 e il 1854 una flotta statunitense impose al Giappone l’apertura di relazioni commerciali con gli stati Uniti, a cui seguirono trattati commerciali anche con Gran Bretagna e Francia (1858). L’ingresso del Giappone nel circuito dell’economia mondiale cambiò profondamente la sua società e la sua economia: il Giappone esportava tè, cotone e soprattutto seta greggia, e importava prevalentemente tessuti di lana e di cotone.
In seguito all’apertura al commercio con gli europei e gli statunitensi, cambiò anche la politica del Paese asiatico che conobbe un profondo rinnovamento. L’imperatore riprese il potere (1867), che per secoli era rimasto in mano a funzionari chiamati shogun: gli storici parlano perciò di restaurazione Meiji, cioè ripresa del potere da parte dell’imperatore Mutsuhito, che prese il nome di Meiji, l’illuminato. Vennero allora chiamati esperti europei per avviare lo sviluppo industriale, costruire ferrovie e rinnovare la marina militare. Nel 1889 venne promulgata una costituzione, che trasformava l’Impero in una monarchia parlamentare, ma lasciava un grande potere all’imperatore.

L’imperatore Mutsuhito nel 1888; fu imperatore dal 1867 al 1912; in Giappone viene chiamato solo con il suo nome postumo, Meiji Tennō

Per il Giappone incominciò un periodo di crescita economica e politica, che lo portò ad avviare un’espansione in Asia (annessione di Taiwan, 1895; della Corea, 1910). In questa espansione il Giappone si scontrò con le principali potenze della regione, la Cina (1895) e la Russia (1905), e le sconfisse entrambe, dimostrando di essere ormai una grande potenza.

La presa del Forte di Chinchow (1894) di Kobayashi Kiyochika: la creazione di un esercito moderno con armamento occidentale era uno dei primi obiettivi della restaurazione Meiji

L’apertura del Giappone all’Europa segnò anche, sul piano culturale, il diffondersi nel nostro continente del “giapponismo”, ossia della passione per l’arte giapponese, in particolare delle stampe e soprattutto di quelle del tipo ukiyo-e, che influenzò moltissimi artisti europei.

La grande onda di Kanagawa (1830 circa) di Katsushika Hokusai, forse la stampa giapponese più conosciuta in Occidente

La Cina aveva raggiunto nel Settecento, sotto la dinastia manciù dei Qing, la sua massima estensione. Nell’Ottocento ebbe però inizio un periodo di crisi e di rivolte interne, mentre gli europei riuscivano a ottenere con la guerra prima l’apertura dei porti e alcune basi commerciali, poi il controllo di diversi territori.
La sconfitta subita nella guerra contro il Giappone (1894-1895) e la presenza delle grandi potenze europee e degli USA provocarono un forte malcontento popolare, che esplose in rivolte (rivolta dei Boxer, 1899-1900) e poi, nel 1911, portò a una rivoluzione. Il giovane imperatore fu deposto, fu proclamata la repubblica e si aprì un periodo di scontri tra diverse fazioni che miravano a conquistare il potere.

Anche l’Impero Ottomano era in crisi, per le sconfitte subite nelle guerre in Europa e per l’occupazione dell’Egitto da parte dell’Inghilterra nel 1882. La crisi favorì la disgregazione dell’Impero in Europa e in Africa: l’Italia conquistò la Libia (1911-1912), ultimo dominio turco in Africa; alcuni Stati della penisola Balcanica (Serbia, Grecia, Montenegro e Bulgaria) sconfissero l’Impero (1912-1913) e gli tolsero tutti i possedimenti europei, a eccezione della Tracia (la regione di Istanbul e degli stretti).
La crisi favorì un certo rinnovamento all’interno dell’Impero, anche per l’azione del gruppo politico dei Giovani Turchi: la loro rivolta (1908) costrinse il sultano a concedere una costituzione.

Il nazionalismo dei Giovani Turchi portò a una feroce repressione delle minoranze esistenti all’interno dei domini turchi, culminata nello sterminio degli Armeni: oltre un milione e mezzo di armeni vennero massacrati tra il 1894 e il 1918.