martedì 16 febbraio 2016

75 La società nella seconda metà dell'Ottocento

LA SOCIETÀ NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO

Le grandi trasformazioni (politiche, economiche, tecnologiche) che avvennero nell’Ottocento ebbero, ovviamente, delle ripercussioni sulla composizione sociale.
La nobiltà, che da secoli era la classe dominante, perse il suo ruolo, a vantaggio della borghesia, che acquistò maggiori ricchezze e, grazie alle Costituzioni e al diritto di voto, anche più potere.
Molti nobili conservarono comunque grandi ricchezze, ma altri videro ridursi le loro rendite e furono costretti a cercare lavoro: poiché per tradizione un nobile poteva lavorare solo per il re e per la patria, essi scelsero la carriera diplomatica o quella militare, oppure cercarono impiego negli uffici pubblici.
Nobiltà e borghesia avevano un interesse comune: impedire i grandi cambiamenti sociali richiesti dal proletariato. Perciò si creò un’alleanza tra le due classi e divennero frequenti i matrimoni tra esponenti della borghesia e della nobiltà. Per i nobili questi matrimoni erano un mezzo per mantenere (o riprendere) un alto tenore di vita; per i borghesi invece essi offrivano la possibilità di entrare in una classe sociale considerata comunque superiore: nell’alta borghesia, infatti, molti aspiravano a ottenere un titolo nobiliare e a condurre la vita degli aristocratici, lasciando il mondo degli affari e vivendo di rendita.

Tre diversi dipinti (opere di fine Ottocento o dell’inizio del Novecento) del pittore ferrarese Giovanni Boldini, raffiguranti altrettante aristocratiche

La borghesia, dunque, divenne la classe dominante in tutta l’Europa industrializzata.
Al suo interno vi si distinguevano due gruppi: quello dell’alta e media borghesia e quello della piccola borghesia.
Il primo gruppo comprendeva i principali imprenditori (proprietari di industrie, di banche, di imprese commerciali) e coloro che svolgevano un lavoro ad alto reddito, sia in proprio (come medici e avvocati), sia alle dipendenze di altri (come i dirigenti delle grandi imprese o gli insegnanti delle Università). Si trattava quasi sempre di uomini: in Francia nel 1914, in un Paese e in un periodo in cui la condizione femminile era molto migliorata rispetto all’Ottocento, le donne avvocato erano solo una dozzina, quelle medico poche centinaia. Le donne della borghesia, quindi, raramente erano borghesi in quanto svolgevano una professione “borghese”: lo erano perché figlie o mogli di uomini appartenenti a questa classe sociale.

Un collegio femminile di medicina a New York nel 1870; una grande novità per l’epoca

La piccola borghesia era assai meno ricca e potente dell’alta e media borghesia, anche se più numerosa. Essa era costituita da artigiani, negozianti, osti e altri lavoratori in proprio. Di questa classe facevano parte anche gli impiegati (che lavoravano in uffici pubblici o in imprese private) e che venivano indicati solitamente come “ceto medio”.
Una parte della borghesia, soprattutto in alcuni Paesi come la Francia, non viveva del proprio lavoro, bensì di rendite, basate sui capitali investiti in edifici (case date in affitto) o in titoli di Stato, ossia in prestiti fatti allo stato, da cui ricavare degli interessi fino a che il prestito non fosse stato rimborsato. Tali rendite assicuravano un guadagno senza rischi. Molti liberi professionisti si ritiravano dal lavoro, dopo aver accumulato rendite sufficienti per vivere senza lavorare.

In questo celebre dipinto (Bal au Moulin de la Galette) l’autore (Pierre-Auguste Renoir) ha rappresentato nel 1876 la spensieratezza di una piccola e media borghesia in uno dei momenti storici più importanti della sua esistenza

I contadini delle campagne costituivano all’inizio del secolo la maggioranza della popolazione in tutti gli Stati europei, ma il loro numero andò continuamente diminuendo negli Stati industrializzati. Anche se non mancavano i contadini ricchi, molti di loro vivevano in condizioni di grande povertà, certamente non migliori di quelle degli operai, che facevano parte del proletariato urbano.
Questo ceto sociale era formato da salariati che svolgevano lavori diversi: nelle fabbriche erano impiegati, appunto, gli operai, il cui numero crebbe notevolmente con la diffusione della seconda rivoluzione industriale; molti lavoratori, per lo più donne, lavoravano a domicilio (cioè in casa) per le industrie tessili, grazie alla macchina da cucire; altri erano domestici, che lavoravano nelle case dei nobili e dei borghesi.

Sarta a domicilio a Quinto di Treviso nel 1884

A causa della grande povertà, il proletariato viveva in case sovraffollate e in cattive condizioni igieniche. Questa situazione provocava una forte mortalità: le epidemie di colera del XIX secolo colpirono soprattutto i quartieri popolari e nel 1832 questa malattia uccise 18.602 persone nella sola Parigi.
Ancora peggiori erano le condizioni di coloro che non avevano un lavoro fisso e vivevano di lavori precari, se non di elemosina o di attività criminali; diffusa era la prostituzione femminile.

Dall’alto a sinistra e in senso orario: contadini italiani, minatori statunitensi, bambini mendicanti a New York, allevatori di pecore in Nuova Zelanda

Stipendiati con salari molto bassi, che garantivano di solito la pura sopravvivenza, e costretti a orari di lavoro massacranti, gli operai delle industrie cominciarono fin dai primi decenni dell’Ottocento ad avanzare (a richiedere) due rivendicazioni principali: l’aumento del salario e la riduzione dell’orario di lavoro.
Per far accettare le loro richieste, essi ricorrevano allo sciopero, cioè al rifiuto di lavorare: lo sciopero danneggiava il proprietario delle fabbriche, perché ogni interruzione della produzione comportava un mancato guadagno. Sciopero e manifestazioni accompagnarono la diffusione delle industrie, prima in Inghilterra (1816-1819), poi negli altri Paesi dell’Europa occidentale (come la Francia: Lione 1831; Parigi 1834).

“Sciopero”, un dipinto del 1895 dell’ungherese Mihaly Munkacsy

Perché lo sciopero avesse successo, i lavoratori dovevano organizzarsi: nacquero perciò i primi sindacati, che erano appunto associazioni di lavoratori, riuniti per organizzare scioperi e manifestazioni di protesta.
Nacquero anche movimenti e partiti politici, che ponevano al centro della loro azione proprio la questione sociale, vale a dire il problema delle condizioni di lavoro e di vita della parte più numerosa della società (dapprima il proletariato urbano, poi anche quello rurale); per questo motivo essi furono chiamati partiti socialisti o partiti dei lavoratori, come in Germania nel 1875 o in Italia nel 1892. Tali partiti rappresentavano inizialmente gli interessi degli operai e richiedevano una profonda trasformazione della società: essi volevano l’estensione del diritto di voto a tutti, una redistribuzione delle ricchezze tra i cittadini e talvolta l’abolizione della proprietà privata e la messa in comune tra tutti dei beni esistenti (coloro che sostenevano questo vennero detti comunisti e comunismo il loro movimento).

Manifesto per il giornale “Avanti!” e copertina di una pubblicazione mensile socialista

Movimenti e partiti diffondevano le loro idee attraverso i giornali, anche se gli operai erano spesso in maggioranza analfabeti; trovarono però persone istruite (scrittori o maestri di scuola), che spiegavano le loro richieste ai salariati e che facevano di tutto per spingere gli operai ad alfabetizzarsi, magari frequentando delle scuole serali dopo il lavoro.
All’interno del socialismo (come venne chiamato genericamente il movimento che sosteneva la creazione di una società basata su una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani) si crearono però delle posizioni molto diverse, che resero sempre difficile la collaborazione.
I socialisti rivoluzionari si ispiravano alle teorie di Karl Marx, un filosofo tedesco che assieme al connazionale Friedrich Engels aveva pubblicato nel 1848 il Manifesto del Partito Comunista, in cui sosteneva che il proletariato avrebbe dovuto prendere il potere con una rivoluzione.

Karl Marx e Friedrich Engels ai lati della copertina del loro “Manifesto del Partito Comunista”

Ai socialisti rivoluzionari si opponevano i socialisti riformisti (o socialdemocratici), secondo i quali la condizione operaia avrebbe potuto essere migliorata attraverso una serie di riforme pacifiche, senza quindi il ricorso a una rivoluzione.
Altri invece sostenevano che solo eliminando ogni governo, e quindi ogni potere di un uomo su altri uomini, sarebbe stato possibile costruire una società più giusta: costoro erano gli anarchici. Essi ritenevano che qualunque tipo di stato poteva solo creare una situazione di disuguaglianza, in quanto qualcuno avrebbe avuto comunque più potere degli altri. Per questo prevedevano la creazione di consorzi (cioè associazioni) agrari e industriali, formati da contadini e operai, all’interno dei quali essi avrebbero organizzato da sé il proprio lavoro: tutti gli uomini, infatti, dovevano essere completamente liberi, senza nessun limite, se non quello imposto dal rispetto della libertà altrui.

Due modi diversi di vedere l’anarchia: a sinistra un’illustrazione brasiliana in cui un anarchico guarda sorgere la libertà, mentre calpesta i teschi del clero, del capitalismo, del militarismo, eccetera; a destra una vignetta statunitense che rappresenta un anarchico intento ad attentare alla libertà, simboleggiata dalla Statua della Libertà

Nel 1864 sindacalisti inglesi e francesi diedero vita alla Prima Associazione Internazionale degli operai (o semplicemente Prima Internazionale), perché pensavano che sarebbero riusciti a ottenere risultati migliori solo se avessero unito le loro forze. Nonostante i disaccordi interni tra i riformisti e i rivoluzionari, la Prima Internazionale riuscì ad avere una notevole importanza politica, tanto che la borghesia la considerò una grave minaccia per i suoi interessi economici e il suo potere politico.

Disegno illustrativo dei lavori preparatori per la Prima Internazionale a Londra

Dopo la Comune di Parigi, la Prima Internazionale si sciolse (1872), anche a causa dei gravi dissidi al suo interno. Una Seconda Internazionale fu ricostituita solo nel 1891. I contrasti tra riformisti e rivoluzionari continuarono, ma le tendenze riformatrici divennero maggioritarie, anche perché in diversi Paesi europei, come la Germania, stavano formandosi partiti socialdemocratici, contrari a una rivoluzione.

Manifesto per la Seconda Internazionale: sopra la “Bandiera dell’Umanità” ci sono le scritte della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, solidarietà

Anche gli anarchici parteciparono ai lavori delle Internazionali, ma per le nette diversità di opinione ne furono espulsi. Ciò non impedì che le teorie anarchiche si diffondessero, in particolare tra i lavoratori dei Paesi meno industrializzati, come l’Italia e la Spagna, ma anche la Russia e la Svizzera. In quegli anni alcuni anarchici sostennero la necessità di passare all’azione diretta contro il potere, uccidendo re, imperatori, presidenti. Organizzarono una serie di attentati, che provocarono la morte del presidente francese Carnot (1894), di quello spagnolo Canovas del Castillo (1897), dell’imperatrice d’Austria Elisabetta (la famosa principessa Sissi di una serie di film del XX secolo, 1898), del re d’Italia Umberto I (1900) e del presidente statunitense McKinley (1901).

Da sinistra, 3 illustrazioni d’epoca sugli attentati anarchici contro l’imperatrice Elisabetta, il presidente Carnot e il re Umberto I

Questi attentati portarono a una durissima repressione del movimento anarchico: molti tra i principali esponenti furono arrestati e condannati a lunghi periodi di carcere e in diversi Stati vennero emanate leggi volte a reprimere completamente il movimento.
Ma anche contro i socialisti e contro qualunque forma di protesta sociale la reazione dei vari governi europei fu inizialmente basata sulla repressione: la formazione di sindacati fu vietata e l’esercito venne inviato ovunque ci fossero operai che protestavano (come successe a Milano nel 1898, quando al generale Bava Beccaris fu ordinato di prendere a cannonate la folla in tumulto contro il carovita, provocando un centinaio di morti e circa 450 feriti).

La guardia nazionale spara contro i manifestanti durante uno sciopero a Chicago nel 1894

La repressione dei governi, però, aggravò le tensioni esistenti tra gli operai e gli imprenditori e non furono rari gli episodi di violenza sia contro i proprietari, sia contro quegli operai che rifiutavano di scioperare (ed erano detti crumiri, da un termine francese a sua volta derivato dal nome di una tribù dell’Africa settentrionale che si era ribellata alla Francia). Le tensioni sociali portarono anche a rivolte locali ed ebbero una grande importanza nelle rivoluzioni di Parigi del 1848 e del 1871.
Per questo molti governi scelsero successivamente di intervenire per ridurre le tensioni ed evitare rivolte. Venne regolato il lavoro minorile e quello femminile: ad esempio in Prussia nel 1839 venne proibita l’assunzione nelle fabbriche di bambini al di sotto dei nove anni e l’orario per i ragazzi fu limitato a dieci ore (in Italia qualcosa di analogo avvenne con una legge del 1886). In Inghilterra, Germania, Francia vennero approvate leggi che proibivano alle donne il lavoro in miniera, il lavoro notturno, il lavoro domenicale e imponevano una riduzione dell’orario lavorativo. Leggi di questo tipo erano spesso richieste dai sindacati maschili, che temevano la concorrenza maschile, e finirono per ridurre le possibilità di lavoro delle donne.

Donne in una fabbrica (probabilmente a fine Ottocento)

In Australia e Nuova Zelanda venne anche realizzata una legislazione sociale a tutela dei lavoratori: in Australia il governo stabilì la giornata lavorativa di 8 ore nel 1856; la Nuova Zelanda introdusse le pensioni di vecchiaia, per chi non era più in grado di lavorare, nel 1898. In Europa leggi che tutelavano i lavoratori adulti vennero approvate solo all’inizio del Novecento.

Nella società ottocentesca il ruolo delle donne merita un approfondimento.
Se fino alla metà del XIX secolo le donne della borghesia avevano collaborato con i mariti nel lavoro (tenendo i conti, occupandosi del negozio quando il marito era in giro per affari, sorvegliando i dipendenti), nella seconda metà dell’Ottocento molte donne borghesi assunsero uno stile di vita simile a quello delle aristocratiche, per le quali ogni attività lavorativa era disonorevole: il loro compito era esclusivamente quello di occuparsi della casa e della famiglia.

“The Bayswater Omnibus”, un dipinto del 1895 di George W. Joy, raffigura tre donne della borghesia (sulla destra) e una donna del popolo (a sinistra)

Nelle classi sociali inferiori, invece, molte donne avevano necessità di un lavoro, che permettesse di arrotondare il magro stipendio del marito. Così lavoravano in fabbrica e si occupavano dei figli e di tutte le faccende domestiche: dalla ricerca del cibo a un prezzo conveniente alla preparazione dei pasti, dalla provvista dell’acqua (perché nelle case non c’era acqua corrente) alla pulizia della casa e degli abiti. Altre donne si dedicavano anche a piccoli lavori, come le pulizie presso qualche famiglia e, negli ultimi decenni del secolo, al lavoro a domicilio per conto delle industrie di abbigliamento.
Nelle campagne le contadine lavoravano tanto quanto gli uomini: lavoravano anche in stato di gravidanza e riprendevano pochi giorni dopo aver partorito.

Un dipinto del 1880 di Julien Dupré, intitolato “Le raccoglitrici di grano”

In generale i lavori femminili erano meno qualificati e, anche quando svolgevano gli stessi lavori, le donne ricevevano salari inferiori. Inoltre diverse leggi limitavano le possibilità di lavoro femminile.
In tutta l’Europa la donna aveva una posizione nettamente inferiore a quella dell’uomo: doveva ubbidire al marito e non poteva disporre liberamente dei suoi beni, né del suo salario, se lavorava, perché era il marito a controllarli (o il padre, se era, come spesso succedeva, una ragazza non ancora sposata).
Inoltre le donne non potevano in nessun modo liberarsi dall’autorità del marito, neanche se venivano picchiate o trascurate. Per le legge la donna non poteva lasciare la casa del marito e in molti Stati il divorzio non era consentito: in Francia, dove era stato ammesso nel periodo rivoluzionario (1792), fu eliminato durante la Restaurazione (1816), per essere reintrodotto solo nel 1884.

“La dote”, dipinto di Vasili Pukirev del 1873: un uomo osserva attentamente ciò che la moglie ha portato in dote

Il comportamento della donna era molto più soggetto alle critiche e alla condanna sociale di quello dell’uomo, sia in città, sia in campagna. Ad esempio era considerato normale che un uomo avesse relazioni con altre donne o cercasse di averle; una donna invece non doveva avere relazioni prima del matrimonio e una volta sposata doveva rimanere fedele al marito. Era considerato naturale che il marito la sorvegliasse, che aprisse le lettere a lei indirizzate e che le impedisse di uscire.
Le donne che rimanevano incinte senza essere sposate cercavano di nasconderlo e spesso abbandonavano il bambino dopo la nascita (quando addirittura non lo uccidevano), perché la vita di una donna non sposata con un figlio era molto difficile: i casi di abbandono dei neonati erano perciò frequenti (furono 121.000 in Francia nel solo 1835) e solo verso la fine del secolo si cominciò a proibire le “ruote degli esposti”, una specie di cilindro girevole collocato nelle chiese o negli ospedali, dove si abbandonavano i figli indesiderati (in Italia la prima abolizione della ruota avvenne a Ferrara nel 1867).

Ruota degli esposti nell’antico ospedale di Santo Spirito in Saxia (a Roma)

Le donne erano svantaggiate anche nel campo dell’istruzione: erano escluse dagli studi superiori e nei Paesi cattolici l’analfabetismo femminile, molto diffuso, era maggiore di quello - pur alto - maschile. Molti uomini ritenevano infatti che non fosse necessario dare un’istruzione alle ragazze, che avrebbero potuto imparare dalle madri come occuparsi della famiglia e della casa, poiché questi erano i soli lavori concessi al genere femminile.
Le donne erano escluse dal voto, anche nei Paesi in cui esisteva un suffragio universale maschile (come in Francia, dal 1848).
Nella seconda metà dell’Ottocento molte donne però cominciarono a rivendicare il loro diritto a votare. Si formarono organizzazioni di donne che lottavano per ottenere questo diritto, come in Inghilterra, dove nel 1860 nacque la Women Suffrage Association (Associazione per il voto alle donne). Le suffragette, come furono chiamate per derisione le donne che chiedevano il diritto di voto, organizzarono proteste e manifestazioni. Nel corso dell’Ottocento le donne ottennero talvolta il diritto di voto a livello locale (in Inghilterra nel 1869 per i consigli comunali e nel 1880 per i consigli di contea), ma non a livello nazionale, ad eccezione della Nuova Zelanda (1893) e dell’Australia (1894); nel 1906 lo ottennero in Finlandia e poi in Norvegia.

Due foto emblematiche dei primi del ‘900: chi è a favore, chi è contrario al suffragio femminile



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