Approfondimenti

lunedì 6 ottobre 2014

40 La via per le Indie e la scoperta dell'America


LA VIA PER LE INDIE E LA SCOPERTA DELL’AMERICA

Nel Basso Medioevo l’Europa importava dalle Indie (come veniva chiamata l’Asia orientale) numerose merci pregiate, in particolare spezie (pepe indiano, cannella di Ceylon, noce moscata e chiodi di garofano), sete e prodotti per tingere i tessuti, come l’indaco (una pianta dalle cui foglie si ricava un colore azzurro).
Per raggiungere le Indie, però, bisognava attraversare territori (come l’Asia centrale) o mari (come il Mediterraneo orientale e l’oceano Indiano) che erano sotto il controllo di diversi regni musulmani, i quali obbligavano i mercanti europei a pagare un tributo. Inoltre a fare affari con i musulmani, in particolare con i Turchi, erano soprattutto i Veneziani, che spadroneggiavano su tutte le merci provenienti dalle Indie e imponevano agli altri mercanti europei le loro condizioni.
Per questo i mercanti degli altri Paesi europei si lanciarono alla ricerca di nuove vie commerciali, che permettessero loro di raggiungere direttamente le Indie; nelle loro spedizioni essi vennero finanziati da molti re europei.
Del resto tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento erano avvenuti progressi nel campo della navigazione oceanica e della geografia, che avevano reso i viaggi per mare più sicuri e più lunghi.
Innanzitutto per la navigazione oceanica occorrevano navi a vela, essendo quelle a remi usate nel Mediterraneo poco adatte, sebbene meglio manovrabili; le navi a vela, inoltre, necessitavano di profonde conoscenze dei venti e delle tele. Queste esigenze e queste difficoltà portarono allo sviluppo della caravella, un tre alberi dotato sia di vele quadrate che lo rendevano veloce in presenza di forte vento di poppa, sia di vele triangolari (o latine) che rendevano più facile la manovra in caso di venti contrari; la caravella prende forma agli inizi del Quattrocento e attorno al 1440-1450 è ormai perfezionata, divenendo il mezzo nautico per eccellenza dei Portoghesi, ben presto imitati dagli Spagnoli. Per tenere meglio il mare la caravella è più rotonda delle galere mediterranee e più piena, ossia capace di un maggior carico; inoltre necessita di un minor equipaggio, poiché non ha bisogno di tanti rematori.


Caravella portoghese
Fondamentale fu poi la diffusione della bussola, inventata dai Cinesi alcuni secoli prima: essa serviva a indicare il nord magnetico e quindi era utilissima per navigare di notte, sebbene proprio il fatto che essa indichi il nord magnetico, anziché quello geografico, era in certi casi causa di errori anche vistosi.
Importante fu anche l’astrolabio, conosciuto fin dall’antichità ma perfezionato nei secoli XIV-XV, serviva per calcolare la latitudine ed aveva bisogno di tavole di misurazione che implicavano complessi calcoli trigonometrici.

Un astrolabio portoghese del 1608

Infine fu decisivo il miglioramento nella costruzione delle carte geografiche, in particolare i portolani (ossia la rappresentazione su carte del mare, delle coste e delle rotte) che avevano cominciato a diffondersi a metà del Duecento e che nel XIV secolo diventano sempre più precisi (essi erano realizzati soprattutto a Maiorca e in Catalogna; nell’isola delle Baleari erano il frutto del lavoro congiunto di cristiani, musulmani ed ebrei, questi ultimi sicuramente i maggiori conoscitori delle coste atlantiche africane e dell’interno del continente, grazie agli ebrei che vivevano in Marocco).

Portolano del 1492

Questi progressi avevano permesso ai navigatori (in particolare a quelli portoghesi) di spingersi lungo le coste africane dell’oceano Atlantico, imparando a riconoscerne i venti, le correnti e le maree.
Nella ricerca di una nuova via per le Indie il contributo dei Portoghesi fu fondamentale. Il Regno del Portogallo (che si era formato nel XII secolo) non era particolarmente ricco, per mancanza di suoli fertili e perché in posizione marginale rispetto al Mediterraneo, dove si svolgeva quasi tutto il commercio con l’Oriente; per il Portogallo una nuova rotta commerciale era quindi di primaria necessità e la possibilità di trovarla divenne più concreta nel XV secolo, in seguito al diffondersi delle novità illustrate più sopra.

Dettaglio sul Monumento alle Scoperte di Lisbona: il personaggio con una caravella in mano
è Enrico il Navigatore, figlio del re Giovanni I del Portogallo, figura fondamentale
delle esplorazioni portoghesi

Nel 1527 i Portoghesi si insediarono nelle Azzorre, da cui poterono ricavare un prodotto molto ambito come la canna da zucchero.

Due francobolli portoghesi moderni ricordano la coltivazione della canna da zucchero
nell’isola di Madera, la terra più prossima alle Azzorre

Negli anni successivi compresero la minaccia costituita dai venti alisei, i quali soffiano costantemente sulle coste africane e provocavano allora numerosi naufragi: l’invenzione della volta, una manovra che utilizzava la sola vela triangolare posta a poppa delle caravelle, permise alle navi di non essere spinte in pieno oceano e di continuare a navigare lungo le coste dell’Africa. Arrivarono così fino alle isole di Capo Verde e poi oltre e fondarono numerose basi commerciali, come quella di Elmina (nell’attuale Ghana), che nel 1482 era un castello (chiamato San Giorgio della Miniera), da cui si procurarono oro. Dall’Africa i Portoghesi ricavarono anche zucchero, pepe e schiavi.
Nel 1488 l’ammiraglio Bartolomeu Dias (italianizzato in Bartolomeo Diaz) raggiunse l’estremità meridionale dell’Africa, in quello che fu dapprima denominato Capo Tormentoso, poi Capo di Buona Speranza, in segno benaugurale. Un ammutinamento dei marinai di Dias, sfiniti ed esasperati da un viaggio durato mesi, impedirono all’ammiraglio di procedere oltre.

Statua a Bartolomeu Dias a Città del Capo (Sudafrica)


La circumnavigazione dell’Africa (ossia la navigazione completa attorno all’Africa) avvenne nel 1497-1498 ad opera di Vasco da Gama: egli giunse fino al Capo di Buona Speranza, lo oltrepassò, attraversò l’Oceano Indiano e arrivò a Calicut, nell’India sud-occidentale.

Ritratto di Vasco da Gama



I Portoghesi avevano così trovato una nuova rotta commerciale con l’Oriente, che fece arrivare in Europa gli stessi prodotti che prima si avevano pagando un tributo ai Turchi ottomani, o assoggettandosi a Venezia, la quale cominciò ad aver paura dei successi del Portogallo.
Senza contare che, ancor prima di Vasca da Gama, una nuova scoperta aveva stupito il mondo e aperto nuove vie commerciali: la scoperta dell’America.
Infatti, mentre i Portoghesi esploravano le coste africane, un navigatore genovese, Cristoforo Colombo, decise di raggiungere le Indie attraversando l’Oceano Atlantico: essendo ormai assodato, in seguito agli studi dello scienziato fiorentino Paolo Toscanelli, che la Terra è rotonda, anche navigando verso ovest si doveva per forza giungere nelle Indie, le terre che si trovano all’estremo est rispetto all’Europa.

Ritratto di Cristoforo Colombo di Sebastiano del Piombo (1519)


Secondo i calcoli (che però erano errati) di Colombo la distanza tra Europa e Asia orientale attraverso l’oceano era di 4.000 chilometri, navigabili in circa 40 giorni; in realtà era di 16.000 chilometri, per percorrere i quali sarebbero occorsi 160 giorni, troppi all’epoca per tenere in vita l’equipaggio di una caravella, che non poteva caricare gli alimenti necessari ad un viaggio di più di 5 mesi.
Colombo faticò notevolmente per ottenere il finanziamento necessario alla sua impresa: increduli nella sua realizzazione o impegnati ad affrontare altre prove, i Portoghesi a cui per primo il navigatore si rivolse rifiutarono e gli Spagnoli, a cui egli si rivolse in seguito, accettarono solo quando fu portata a compimento la cosiddetta Reconquista, ossia la liberazione delle terre iberiche ancora in mano agli Arabi. Ciò avvenne il 2 gennaio 1492, con la caduta dell’Emirato arabo di Granada, l’ultimo Stato islamico rimasto nella Penisola Iberica. Quel giorno l’intera Spagna festeggiò l’avvenimento con messe per il re Ferdinando (che fu insignito dal papa del titolo di “Re cattolico”) e processioni per Santiago Matamoros (san Giacomo di Compostela “Ammazzamori”) protettore della Spagna.
L’avvenimento suscitò un’ondata di entusiasmo religioso, che contribuì ad appoggiare l’impresa di Colombo: sia il re Ferdinando, sia sua moglie Isabella di Castiglia pensavano che entrare in diretto contatto con gli abitanti delle Indie avrebbe permesso di diffondere il cristianesimo in quelle terre, strappando migliaia di pagani alle fiamme dell’inferno.

La Vergine dei re cattolici, dipinto di anonimo (secondo alcuni di Fernando Gallego) conservato al Museo del Prado di Madrid: i due personaggi inginocchiati davanti alla Madonna 
sono Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia


Ma le motivazioni religiose erano secondarie a quelle economiche, che Colombo prospettava in continuazione, ricordando a tutti che Marco Polo aveva scritto nel Milione di aver visto in Cina oro a tonnellate!
Così Colombo ricevette dalla regina Isabella (che aveva preso in simpatia quel navigatore italiano che sognava un’impresa audace e mai tentata prima) tre caravelle e con esse e 90 uomini a bordo salpò il 3 agosto 1492 dal porto di Palos, in Castiglia.
Dopo una navigazione di più di 70 giorni, piena di difficoltà e timori, il 12 ottobre 1492 Colombo sbarcò in un’isola chiamata dagli indigeni Guanahaní e nei giorni successivi esplorò altre isole, di cui prese possesso in nome del re di Spagna. In una di queste isole, cui diede il nome di Hispaniola (l’odierna Haiti), fece costruire un forte dove sistemare i suoi uomini. Colombo credeva di aver raggiunto le Indie, poiché, come tutti in Europa, ignorava l’esistenza dell’America, e chiamò indios (cioè indiani) gli abitanti di quelle terre; ancora oggi noi li chiamiamo indiani d’America o Amerindi.

Uno dei tanti disegni di fantasia che nei secoli hanno rappresentato l’arrivo di Colombo in America


Noi oggi sappiamo che Colombo aveva scoperto un nuovo continente, che in seguito venne chiamato America, dal nome di un altro navigatore, il fiorentino Amerigo Vespucci, che esplorò quelle terre per conto dei re di Spagna e di Portogallo e che per primo capì essere parte di un mondo mai conosciuto prima, da lui stesso denominato Nuovo Mondo, espressione ancora in uso ai giorni nostri.
Rientrato in patria Colombo venne accolto in maniera trionfale; dopo quel primo viaggio ne fece altri tre verso l’America, ma essi furono accolti con minore entusiasmo dai contemporanei. Più importanti furono i viaggi di altri navigatori, come gli italiani Giovanni e Sebastiano Caboto (padre e figlio) e Giovanni da Verrazzano, i quali rispettivamente nel 1497 e nel 1524, per conto del re d’Inghilterra e di quello di Francia, aprirono nuove rotte per l’America del nord.
E nel 1519, per conto del re di Spagna Carlo V, partì il viaggio del portoghese Ferdinando Magellano verso l’America meridionale, con lo scopo di trovare un passaggio che permettesse di entrare nell’oceano a ovest dell’America e quindi di tracciare una rotta per giungere finalmente in Asia. Il passaggio fu trovato nell’estremità meridionale del continente (ancora oggi lo Stretto di Magellano), ma solo dopo settimane di tentativi, a causa dei venti impetuosi, Magellano riuscì a superarlo e a entrare in un mare che gli apparve così tranquillo da meritare il nome di Oceano Pacifico.
La spedizione continuò tra altre difficoltà, tra cui il fatto che l’oceano era molto più vasto di quanto si pensasse; nel 1521 Magellano morì in uno scontro con le popolazioni delle isole che più tardi vennero chiamate Filippine, in onore di Filippo di Spagna. L’italiano Antonio Pigafetta (il secondo ufficiale della spedizione) proseguì il viaggio fino a ritornare in Spagna nel 1522, con una sola nave, ma carica di spezie: era la prima nave che aveva compiuto il giro del mondo.

Da sinistra: Sebastiano Caboto, Giovanni da Verrazzano, Amerigo Vespucci


La data della scoperta dell’America è stata scelta come la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna. In effetti fu un avvenimento che cambiò la storia del mondo: da una parte si scoprì l’esistenza di un nuovo grandissimo continente, dall’altra le esplorazioni di questo periodo misero Europa, Asia, Africa e appunto America sempre più a contatto tra di loro: persone, prodotti, invenzioni, scoperte e anche malattie cominciarono da allora a spostarsi da un continente all’altro con sempre maggiore facilità.

APPROFONDIMENTI:
- Vita di Cristoforo Colombo
- Storia della cartografia medievale

39 Lo sviluppo scientifico e tecnologico nel Tardo Medioevo

LO SVILUPPO TECNOLOGICO E SCIENTIFICO NEL TARDO MEDIOEVO

Gli studiosi umanisti avevano ripreso dall’antichità e dal Medioevo la divisione del sapere in sette Arti liberali, suddivise nelle discipline del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (astronomia, musica, geometria e aritmetica). Se, quindi, per l’educazione di un uomo erano importanti queste discipline, e ad esse gli Umanisti avevano aggiunto almeno la letteratura, la storia e la filosofia, anche altre materie di studio divennero nel corso del Rinascimento fondamentali: le “scienze della natura”, la medicina, la botanica, la farmacologia, la geografia, la meccanica.

In questo affresco di Andrea Bonaiuti del 1365-1367 (Firenze, Santa Maria Novella) sono raffigurate le sette Arti liberali, in sette forme allegoriche, cui sono accostati i massimi rappresentanti dell’antichità nelle singole arti: da sinistra, l’Aritmetica (Pitagora), la Geometria (Euclide), l’Astronomia (Tolomeo), la Musica (Tubalcano), la Logica (Aristotele), la Retorica (Cicerone) e la Grammatica (Prisciano)

Quando nel XV secolo gli Umanisti diedero vita alle cosiddette accademie (cioè a delle associazioni che riunivano gruppi di intellettuali che amavano discutere con altri dotti e scambiarsi informazioni l’un l’altro), esse interessarono prima gli studi filosofici e letterari, poi quelli di arte e di musica e più tardi ancora quelli di scienza. Nacquero infatti varie accademie a Napoli, a Firenze, a Roma, a Venezia ed esse si diffusero anche fuori dell’Italia, diventando delle istituzioni dotate di regolamenti (statuti) ben precisi. Una di esse, l’Accademia della Crusca, sorta a Firenze nel 1583, si occupava di stabilire la purezza della lingua italiana: essa esiste ancora oggi e si interessa, tra le altre cose, della pubblicazione di un vocabolario della lingua italiana. Accanto alle accademie principali ne sorsero altre più piccole e spesso dai nomi ironici e burleschi (accademia degli Agiati, dei Concordi, degli Inquieti, degli Intronati, degli Umidi e così via).

Villa medicea di Castello (Firenze), sede dell’Accademia della Crusca

La nascita delle accademie che si occupavano di scienza, testimonia dell’interesse che si sviluppò nel Rinascimento nei confronti di una materia, la ricerca scientifica appunto, rimasta per secoli retaggio quasi esclusivo degli uomini di Chiesa: costoro avevano cercato una spiegazione dei fenomeni naturali nei testi del passato, in particolare nella Bibbia e nelle opere del filosofo greco Aristotele. Gli umanisti, invece, pur studiando i testi antichi, preferivano conoscere la realtà attraverso l’osservazione diretta della natura: questo permise un progresso nella scienza, che è alla base della rivoluzione scientifica che si avrà soprattutto nel Seicento.
È vero che molti umanisti si interessarono anche di astrologia e di alchimia (la credenza di poter tramutare i metalli di poco conto in oro) e di altre pratiche non propriamente scientifiche, che sfociavano nella magia, ma è anche vero che molti altri si dimostrarono più attenti all’analisi concreta e verificabile della natura.
Nel Quattrocento lo sviluppo nelle scienze si accompagnò allo sviluppo nella tecnica: spesso infatti gli scienziati progettavano anche macchinari, come fece ad esempio uno dei massimi geni del Rinascimento, cioè Leonardo da Vinci, il quale si occupò non solo di pittura, di disegno, di poesia e di musica, ma anche di fisica, di ottica, di formazione delle rocce, di movimento delle acque, del volo degli uccelli, di anatomia.

Disegni anatomici di Leonardo da Vinci sulle ossa del piede e i muscoli del collo (1510 circa)

I progressi tecnici furono anche favoriti dalle leggi, approvate a partire dalla fine del Quattrocento, che proteggevano gli interessi degli inventori: ad esempio nel 1474 una legge veneziana stabiliva che solo l’inventore poteva utilizzare e sfruttare economicamente una sua invenzione (è quello che noi chiamiamo un brevetto).
Il sistema tecnico rimase, fino al XVIII secolo, quello medievale: esso sfruttava come fonti di energia il lavoro animale, il movimento dell’acqua e il vento (mediante i mulini) e si serviva di macchinari in legno, con alcune parti in metallo. Furono però introdotti alcuni miglioramenti, ad esempio nell’albero a camme, che permetteva di trasformare un movimento circolare in movimento rettilineo, il che significò che i mulini potevano essere usati per diversi lavori.

Incisione raffigurante una ruota idraulica che fa girare un albero a camme in un mulino

Vi furono anche diverse invenzioni importanti. Venne introdotto l’altoforno, un forno di origine cinese, che permetteva di fondere il ferro e non soltanto di trasformarlo in una massa incandescente da martellare per dargli la forma voluta: esso permise la fabbricazione di cannoni e proiettili in ghisa (una lega di ferro contenente carbonio e altri elementi), oltre a oggetti di uso quotidiano come le pentole. Gli orologi meccanici a pesi (in uso già dal 1320 circa) e poi altri orologi più maneggevoli (fino ad arrivare all’orologio portatile nel Cinquecento) permisero di misurare il tempo con grande precisione. La produzione di lenti in grado di correggere i diversi difetti visivi (lenti per presbiti e miopi erano in uso già dalla fine del Duecento, mentre occhiali a lenti divergenti entrarono nella vita quotidiana verso il 1400) rese possibile continuare a svolgere le proprie attività anche a chi aveva qualche difetto visivo. Della polvere da sparo e della nascita delle armi da fuoco ci siamo già occupati nella lezione n° 36.

A sinistra una miniatura sugli studi di orologeria di Giovanni Dondi dell’Orologio; a destra particolare da un affresco di Tommaso da Modena (Treviso, Sala del Capitolo) del 1352, che è la prima rappresentazione pittorica di un paio di occhiali

L’invenzione più importante di questo periodo fu quella della stampa a caratteri mobili, ad opera del tedesco Johann Gutenberg. Non conosciamo molti particolari della vita di Gutenberg: sappiamo che nacque a Magonza, nell’impero Germanico, verso il 1400, in una famiglia nobile che, però, a causa dei contrasti tra nobili, dovette allontanarsi più volte dalla città. Tra il 1434 e il 1444 Gutenberg visse a Strasburgo, dove fece i primi tentativi di stampa.

Ritratto (immaginario) di Johann Gutenberg in un’incisione di André Thevet del 1584

In quegli anni si usava già stampare incisioni (ad esempio giochi di carte e figure di santi), partendo da una lastra metallica (di solito rame) o da un blocco di legno, i quali, una volta che su di essi veniva tracciato il disegno, venivano inchiostrati e poi pressati su fogli di carta: il disegno tracciato sulla tavola di legno o sulla lastra di rame veniva così riportato su ogni foglio. Gutenberg mise a punto un sistema in cui non si utilizzavano blocchi di legno per stampare l’intero foglio (come alcuni stavano incominciando a fare in quegli anni), bensì lettere metalliche, ognuna delle quali veniva accostata alle altre in modo da formare le parole necessarie. Ogni lettera veniva realizzata mediante uno stampo, in cui veniva versato metallo fuso.

Una pagina pronta per essere stampata, con i caratteri mobili a formare le parole, in una stamperia scozzese dell’Ottocento (la Robert Smail's Printing Works) ancora funzionante

Nel 1448, ritornato a Magonza, Gutenberg creò la prima stamperia. Per affrontare la spesa ricorse a un prestito di 1600 fiorini. Tra il 1452 e il 1455 stampò un’edizione della Bibbia in latino in 180 esemplari: una trentina su pergamena, 150 su carta. Ci voleva ancora molto tempo per stampare questi volumi, poiché bisognava scegliere manualmente tutte le lettere che formavano le diverse righe, pagina per pagina, del libro: la Bibbia di Gutenberg di pagine ne aveva 1282, inoltre comprendeva delle decorazioni e dei titoli colorati, che venivano eseguiti a mano.

Una pagine della Bibbia detta «delle 42 linee» di Gutenberg, considerata il primo libro stampato utilizzando il sistema dei caratteri mobili

Nel 1455 Johannes Fust, che aveva prestato a Gutenberg il denaro necessario per l’impresa, richiese la restituzione del prestito. Gutenberg non aveva il denaro e fu costretto a cedere a Fust la sua stamperia: Fust poté così appropriarsi dell’invenzione di Gutenberg e proseguirne l’opera. Fortunatamente nel 1465 l’arcivescovo di Magonza assicurò a Gutenberg una rendita, che permise all’inventore una certa sicurezza economica, anche se per poco tempo: infatti Gutenberg morì nel 1468.
L’invenzione di Gutenberg permise di ottenere molte copie di uno stesso testo senza doverle scrivere tutte a mano, perciò ridusse moltissimo il costo dei libri e ne favorì la circolazione in una cerchia più ampia di persone. Anche il fatto che questi libri fossero corredati di incisioni in serie, anziché di miniature fatte a mano (come accadeva con i codici scritti dagli amanuensi), garantiva la rapidità di fabbricazione e il minor costo. L’invenzione di Gutenberg si diffuse molto in fretta in tutta l’Europa, perché rispondeva alle esigenze degli studiosi e anche della Chiesa: non a caso il primo libro stampato fu proprio la Bibbia, che venne pubblicata prima in latino, poi in diverse lingue nazionali (in italiano nel 1471, in francese tra il 1473 e il 1474, in olandese nel 1477 e così via).
In tutte le grandi città sorsero tipografie, in cui si stampavano libri: la prima stamperia italiana fu creata a Subiaco (nel Lazio) nel 1464. Venezia divenne uno dei maggiori centri di produzione libraria d’Europa: qui operò Aldo Manuzio, a cui si deve la prima edizione delle opere di Aristotele in greco (cinque volumi apparsi nel 1495).

Miniatura francese del XVI secolo raffigurante l’interno di una stamperia cinquecentesca con le fasi di lavorazione di un libro


38 Umanesimo e Rinascimento


UMANESIMO E RINASCIMENTO

La presenza di molte corti, in Italia e in Europa, favorì lo sviluppo culturale e artistico. Molti studiosi infatti trovavano impieghi a corte, ad esempio nelle cancellerie (gli uffici che si occupano della stesura dei documenti ufficiali di uno Stato), dove erano ricercati perché scrivessero nel latino più elegante le lettere del principe o perché istruissero gli impiegati nell’uso del latino e nella composizione dei testi. Altri furono bibliotecari, astrologi, astronomi e precettori. Nelle corti gli studiosi potevano dedicarsi con tranquillità ai loro studi, avendo a disposizione biblioteche ben fornite, quali solo il signore, oltre alle università, poteva permettersi.
A partire dal XIV secolo in Italia e poi in tutta Europa gli studiosi ripresero a occuparsi dell’antichità greca e romana: essi cercarono e ritrovarono, soprattutto nelle biblioteche dei monasteri, i codici con opere degli scrittori greci e latini, ne ricostruirono il testo originale confrontando versioni diverse e lo fecero conoscere a un pubblico più ampio. Molti si dedicarono allo studio dei filosofi greci, cercando nelle loro opere risposte ai problemi del tempo in cui vivevano.

Donato Bramante, Eraclito e Democrito (1480 circa, Milano, Pinacoteca di Brera): i personaggi sono due filosofi greci di epoche diverse, ma dal Quattrocento spesso raffigurati insieme

L’interesse per l’antichità contribuì anche allo sviluppo degli studi storici, soprattutto della storia politica: le vicende delle città greche e di Roma e dei loro uomini politici divennero oggetto di studio e furono confrontate con la realtà contemporanea, per ricavarne norme di comportamento.

L’imperatore romano Decio, il condottiero Scipione l’Africano e lo scrittore e filosofo Cicerone, affrescati nel 1480 circa da Domenico Ghirlandaio (Firenze, Palazzo Vecchio): i tre personaggi appartengono a tre momenti diversi della storia romana

Coloro che studiavano l’antichità latina e greca furono chiamati umanisti e il movimento culturale a cui diedero vita fu detto Umanesimo: benché gli umanisti fossero di solito credenti, al centro dei loro interessi era l’uomo, non la religione.
Gli umanisti preferirono non usare il volgare, ma il latino, che permetteva loro di comunicare con gli studiosi di tutta l’Europa. In questo modo lo studio e l’insegnamento del latino si diffusero anche al di fuori della Chiesa, che da sempre lo utilizzava come lingua ufficiale. Il latino della Chiesa però si era molto modificato nel tempo, mentre gli umanisti cercarono di ritornare al latino usato dagli scrittori romani, cioè il latino classico. La grande importanza data al latino e all’antichità portò a disprezzare le opere scritte nelle diverse lingue parlate in quel tempo: ad esempio, il poeta toscano Francesco Petrarca pensava di diventare celebre per le sue opere latine e non per le poesie scritte in volgare italiano e raccolte nel Canzoniere. Invece oggi la fama di questo autore è legata proprio a queste sue poesie.

Francesco Petrarca nel suo studium (affresco del XIV secolo nella Sala dei Giganti a Padova)

Presso le corti il signore affidava agli artisti l’esecuzione di opere (dipinti, musiche, testi letterari) che dovevano essere destinate a renderlo famoso e a conservare il suo ricordo nel tempo. Per i signori italiani, come per i nobili e i re, era infatti importante ottenere la gloria, cioè la fama che l’uomo può acquistare in vita con le sue opere e per cui sarà ricordato anche dopo la sua morte.

Federico da Montefeltro con il figlio Guidubaldo, dipinto del 1476-1477 dello spagnolo Pedro Berruguete; il duca di Urbino è attorniato da numerosi oggetti militari, che rimandano al suo valore come capitano di ventura, e con un codice in mano, simbolo della sua ricchezza e delle sue doti intellettuali

La presenza di numerose corti che rivaleggiavano nell’attirare artisti favorì in Italia, tra il XV e il XVI secolo, un grande sviluppo culturale e artistico, che venne chiamato Rinascimento: per gli uomini di quel periodo infatti esso costituiva una rinascita delle arti e delle scienze, che erano fiorite nell’antichità in Grecia e a Roma e che poi erano decadute; essi consideravano il periodo tra la fine dell’Impero Romano d’Occidente e il Rinascimento solo un’età di mezzo (da cui il nome Medio Evo), caratterizzata da ignoranza e superstizione.
Il Rinascimento ebbe inizio in Italia e dalle città italiane le innovazioni artistiche, le scoperte e le invenzioni si diffusero a tutta l’Europa, dove nacquero altri grandi centri culturali e artistici, come nelle Fiandre, gli attuali Paesi Bassi e Belgio, in Francia, in Inghilterra, in Germania, a Vienna: il Rinascimento infatti fu un fenomeno europeo e non solo italiano.

A sinistra San Sebastiano di Andrea Mantegna (1481), a destra Le tre Grazie di Hans Baldung (1539 circa): due esempi di Rinascimento italiano e tedesco, ma anche di interesse per i santi cristiani e le divinità pagane

Le corti furono grandi centri di produzione artistica perché i signori erano i principali committenti, cioè quelle persone che richiedono a un artista un’opera d’arte. Per loro artisti diversi realizzavano molti tipi di opere: canzoni e musiche da ballo, per allietare le feste e i banchetti; testi teatrali per gli spettacoli da allestire davanti alla corte; quadri con ritratti del signore e della sua famiglia; decorazioni di pareti e soffitti per abbellire il palazzo del signore; poemi per cantare le imprese eroiche del principe; statue del signore per le piazze o per il monumento funebre.

Ludovico Gonzaga, signore di Mantova, rappresentato con la sua corte in una serie di affreschi di Palazzo Ducale, opera di Andrea Mantegna (1465-1474)

Perciò i soggetti di dipinti, sculture, canzoni, poesie e testi teatrali non furono più esclusivamente di tipo religioso e si ebbe un notevole sviluppo dell’arta profana (di argomento non sacro). La religione continuò a essere molto importante, perciò furono realizzate diverse opere di soggetto religioso, dalle grandi chiese ai quadri e alle sculture che le abbellivano, dalla musica sacra al teatro religioso, dalle vite dei santi ai libri di preghiere. Accanto ai testi religiosi ebbero però grande diffusione opere del tutto diverse: poesie d’amore, come quelle del Petrarca (1304-1374), che cantò Laura, la donna amata; racconti, come le cento novelle che Giovanni Boccaccio (1313-1375) raccolse nel Decameron; poemi epici, come l’Orlando furioso, in cui Ludovico Ariosto (1474-1533) narrò le gesta del paladino Orlando alla corte di Carlo Magno; quadri e affreschi con scene mitologiche greche e romane e con scene di vita di corte.

L’interesse non solo per la religiosità, ma anche per altri aspetti dell’umanità può essere ben spiegato dalle opere pittoriche di Leonardo da Vinci: a sinistra Ritratto di Ginevra Benci (una donna che Leonardo conosceva), a destra la seconda versione della cosiddetta Vergine delle rocce

Poiché vi era un grande interesse per l’arte greco-romana, molti pittori e scultori raffiguravano eroi e figure storiche del mondo greco e romano e i testi letterari riprendevano personaggi e vicende della letteratura greca e latina.
Oltre ai cambiamenti nei soggetti, il Rinascimento vide anche un rinnovamento degli stili e un perfezionamento delle tecniche: ad esempio venne inventata la matita, o si diffuse l’uso del gesso per disegnare o delle tele su cui dipingere con i colori a olio, o ancora divennero di più facile utilizzo le opere su smalto, su vetro o su ceramica. Con l’invenzione della stampa (1434) si passò alle prime incisioni con la xilografia, prima in bianco e nero, poi a colori.

Due pagine illustrate di un libro di Francesco Colonna, stampate nel 1499 da Aldo Manuzio, uno dei più celebri editori italiani, che operò a Venezia, pubblicando tra il 1495 e il 1515 un centinaio di libri

Nelle arti figurative il cambiamento più importante fu l’applicazione nella pittura della prospettiva, ossia quella tecnica che permette di raffigurare un corpo solido e tridimensionale su una superficie piana, in modo che esso venga dipinto esattamente come appare all’occhio umano, che distingue i soggetti in primo piano da quelli sullo sfondo e percepisce la profondità spaziale.

Piero della Francesca, Annunciazione, opera del 1465 circa conservata a Perugia alla Galleria Nazionale dell’Umbria

In architettura vi fu una ripresa di alcuni elementi tipici dell’arte greco-romana, in particolare le colonne e i capitelli, e vennero costruiti edifici regolari e simmetrici.
La musica fu rinnovata dall’invenzione di nuovi strumenti (come il clavicembalo) e dal perfezionamento di quelli esistenti (ad esempio il liuto e la tromba), mentre si diffondevano nuovi tipi di composizione.
Nel Rinascimento vi fu uno sviluppo dell’urbanistica, cioè la progettazione di nuove città o di interi quartieri nelle città anche antiche: è il caso, ad esempio, di Ferrara, che venne ampliata con la cosiddetta Addizione Erculea, voluta dal duca Ercole I d’Este e ideata da Biagio Rossetti tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Un tratto dell’addizione Erculea di Ferrara, con le sue ampie strade rettilinee fiancheggiate da splendidi palazzi

Inoltre le città rinascimentali si arricchirono di edifici che prima non esistevano: ad esempio il palazzo del Signore, che era il centro della vita politica e culturale della città (come il Castello Sforzesco di Milano); il teatro, in cui la corte poteva assistere a spettacoli di vario genere (come il Teatro Olimpico di Vicenza, ideato dall’architetto veneto Andrea Palladio); gli edifici destinati ad accogliere e curare i bambini abbandonati o le persone bisognose (come lo Spedale degli Innocenti a Firenze, costruito su progetto dell’architetto Filippo Brunelleschi); i monumenti che celebravano il signore in vita e in morte (come le Arche scaligere, ossia le tombe monumentali dei signori di Verona).

Interno del Teatro Olimpico di Vicenza

Chiese e conventi continuarono ad essere i centri della vita religiosa, ma si abbellirono con nuovi elementi anche tecnicamente complessi, come la cupola della basilica di Santa Maria del Fiore a Firenze, capolavoro di Filippo Brunelleschi. Nelle chiese rinascimentali le famiglie più importanti facevano costruire le cappelle di famiglia, luoghi in cui ospitare le tombe di famiglia, ma anche opere pittoriche e scultoree (come la Cappella dei Pazzi nel chiostro della basilica di Santa Croce a Firenze).
Infine molte città rinascimentali si dotarono di mura e fortezze molto diverse da quelle medievali, perché dovevano essere in grado di resistere all’artiglieria (vedi lezione n° 36).

Veduta di Firenze con il duomo di Santa Maria del Fiore e la celebre cupola del Brunelleschi







37 L'Italia delle Signorie

L’ITALIA DELLE SIGNORIE

Tra la fine del Duecento e il Quattrocento negli Stati italiani si verificarono due cambiamenti politici importanti: il passaggio del potere nelle mani di un signore e la formazione di Stati regionali.
Già a partire dalla fine del Duecento in molte città i contrasti tra le classi sociali avevano permesso ad alcune famiglie, talvolta nobili (come gli Este a Ferrara, dal XIII secolo), talvolta borghesi (come i Medici a Firenze, dal XV secolo), di impadronirsi dello Stato, appoggiandosi a una delle fazioni in lotta. In questi casi il capo della famiglia, dopo aver eliminato i rivali, diveniva signore dello Stato.
Gli Stati governati da un signore furono detti Signorie (o Principati, quando il signore riceveva un titolo nobiliare), come quella degli Scaligeri a Verona, degli Estensi a Ferrara, dei Caminesi a Treviso, dei Gonzaga a Mantova.

Statua di Cangrande della Scala conservata a Castelvecchio a Verona. I Della Scala (o famiglia Scaligera) furono signori di Verona dal 1262 al 1387, quando Gian Galeazzo Visconti conquistò la città

Non tutti gli Stati italiani divennero signorie: Venezia, Genova, Firenze (fino a metà del Quattrocento, quando ne divennero signori i Medici), Siena, Lucca rimasero repubbliche, ma al loro interno il potere fu sempre più nelle mani di un ristretto gruppo di famiglie, che ne escludevano tutti gli altri cittadini. Si trattava perciò di repubbliche oligarchiche, cioè di Stati in cui il governo era in mano a poche persone (spesso le più ricche), che governavano nel proprio esclusivo interesse.

Il doge Sebastiano Venier ritratto da Jacopo Tintoretto: sullo sfondo a destra è dipinta la battaglia di Lepanto (1571), che fu una cocente sconfitta per i Turchi e permise al Venier di diventare doge di Venezia

Tra il Trecento e il Quattrocento in tutta l’Italia centro-settentrionale gli Stati più potenti, Signorie o repubbliche, riuscirono a estendere il loro territorio a danno degli Stati meno forti, che scomparvero, come avvenne a Verona, conquistata da Venezia (1405) o a Pisa, conquistata da Firenze (1406): si formarono così Stati regionali, che in maggioranza si conservarono fino alla del Settecento.
I più importanti Stati italiani erano la repubblica di Venezia, il ducato di Milano, il ducato di Savoia, la repubblica di Genova, la repubblica di Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.

La cartina mostra la divisione politica dell’Italia dopo la pace di Lodi (1454), di cui si parlerà più avanti

La repubblica di Venezia era al centro del più vasto impero commerciale mediterraneo e Venezia era una delle più popolose città europee, con oltre 100.000 abitanti. Nel corso del Quattrocento Venezia estese il suo dominio nell’entroterra, conquistando Vicenza, Padova, Verona, Brescia, Bergamo e l’attuale Friuli, ma il suo dominio marittimo fu minacciato dall’espansione dei Turchi Ottomani. La repubblica di Venezia fu l’unico Stato italiano che seppe sostenere gli interessi generali e sviluppare le economie locali (cioè delle città che entrarono a far parte dei suoi domini), anche se il governo rimase strettamente in mano alla classe più ricca, che però non ne approfittò per depredare le ricchezze delle città conquistate, come avveniva generalmente nelle altre Signorie.

Gentile Bellini, Processione in Piazza san Marco (1496)

Milano, un altro dei grandi centri economici europei, dominava su un territorio che comprendeva Novara, Alessandria, Parma e Piacenza, oltre a molte città lombarde: Milano passò sotto la signoria dei Visconti (dal 1277 al 1447), che ottennero il titolo di duchi, e poi sotto quella degli Sforza.
Il ducato di Savoia, che aveva il suo centro in Francia, comprendeva Torino e nel 1338 ottenne uno sbocco al mare con la città di Nizza.
La repubblica di Genova comprendeva quasi tutta la Liguria attuale e Genova era un grande centro commerciale e finanziario.
Firenze, grande centro artigianale, commerciale e finanziario, estese il suo dominio su gran parte della Toscana, ma rimase a lungo una repubblica, fino a che i Medici non ottennero il potere.

Quattro protagonisti della storia delle Signorie italiane: da sinistra, Ludovico Maria Sforza, Amedeo VIII di Savoia, Federico da Montefeltro duca di Urbino, Cosimo de’ Medici

Lo Stato della Chiesa, nell’Italia centrale, sotto il dominio del papa, non era molto diverso dagli altri Stati italiani. Ancora nel Trecento alcuni papi, come Bonifacio VIII (1294-1303) avevano cercato di proclamare la superiorità del papa sui re e sugli imperatori, ma ormai, dopo la cattività avignonese, i re europei si opponevano a ogni ingerenza del pontefice nei loro affari. Tra il XV e il XVI secolo i papi cercarono di rafforzare il loro potere temporale sull’Italia centrale, sottomettendo i signori locali.
Nell’Italia meridionale invece si estendeva l’unico grande Stato italiano, il Regno di Napoli, retto dalla dinastia francese degli Angiò. Esso passò poi agli Aragonesi (1442), che regnavano già sulla Sicilia e sulla Sardegna: tutta l’Italia meridionale si trovò così legata alla Spagna e lo sfruttamento spagnolo portò a un impoverimento di queste regioni, un tempo tra le più ricche d’Italia. È proprio sul finire del Medioevo che si verificò quella spaccatura sociale ed economica tra un’Italia centro-settentrionale più avanzata e un’Italia meridionale più regredita, perché più a lungo legata al sistema feudale di governare.

Veduta di Napoli nel XV secolo nella cosiddetta Tavola Strozzi di autore incerto

Tra i diversi Stati italiani si stabilì una situazione di equilibrio, grazie a un accordo tra i regni e i principati più importanti (Milano, Venezia, Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli sotto Alfonso d’Aragona), per evitare che uno Stato diventasse più potente degli altri. Questo accordo (la pace di Lodi del 1454) consentì all’Italia di vivere un lungo periodo di pace (1454-1494), ma gli Stati italiani non si rafforzarono come i grandi regni dell’Europa occidentale.
Infatti, essendo militarmente meno forti, gli Stati italiani non erano in grado di opporsi ai grandi regni europei. A partire dalla fine del Quattrocento gli Stati italiani furono più volte invasi da eserciti francesi, spagnoli e poi austriaci: le guerre d’Italia, così chiamate perché combattute in Italia da eserciti stranieri, resero evidente la debolezza degli Stati italiani.
Si aprì così un periodo di dominio straniero su diverse città e di interventi degli altri Stati nella politica italiana: ad esempio il ducato di Milano passò alla Francia e poi alla Spagna, perdendo definitivamente la sua indipendenza, mentre Genova e Torino furono anch’esse sotto dominio straniero, per un breve periodo.

Le truppe francesi entrano a Firenze, dipinto di Francesco Granacci su un episodio della Prima guerra d’Italia (1494-1498) che portò il re Carlo VIII di Francia a scendere in Italia con un esercito di mercenari svizzeri

I signori italiani, come i re europei, si circondavano di una corte, termine che designa l’insieme di persone che vive presso un re, un principe o un personaggio della più eminente nobiltà. La corte era formata da nobili vari (detti gentiluomini) da pittori, scultori, architetti, scrittori, musicisti, studiosi di diverse discipline e uomini di chiesa. Una corte poteva comprendere anche centinaia di persone: nel Cinquecento la corte di Urbino ne contava circa 350, quella di papa Leone X a Roma ben 2000. Coloro che vivevano a corto erano chiamati cortigiani.

Ritratto di papa Leone X con due cardinali, opera di Raffaello Sanzio

La vita a corte divenne sempre più raffinata e furono scritti anche veri e propri trattati sull’educazione e sul perfetto comportamento di un cortigiano: ad esempio Il libro del cortigiano (1513-1518) di Baldassarre Castiglione e Il galateo (1558) di Monsignor Giovanni Della Casa. Ancora oggi il termine galateo viene usato per indicare le regole della “buona educazione”, delle “buone maniere”, cioè di un comportamento accettabile in società. Fu attraverso le corti che si diffuse l’uso della forchetta (nel XVI secolo) e le pratiche igieniche, come l’uso del sapone e del dentifricio, già noti da secoli, ma poco usati.

Edizioni cinquecentesche de “Il Cortegiano” e “Il Galateo”

Molta importanza veniva data all’istruzione, che distingueva le persone delle classi sociali superiori: coloro che appartenevano a famiglie di rango inferiore non potevano permettersi di far studiare i figli.
Se l’Italia delle Signorie uscì sconfitta politicamente da quanto stava avvenendo in Europa, per molto tempo ancora essa primeggiò in ambito culturale: fu proprio nell’Italia del Quattrocento che nacque e si diffuse quel grande sviluppo artistico che chiamiamo Rinascimento.

Palazzo del Capitano, la parte più antica del Palazzo ducale di Mantova, dove vissero prima i Bonacolsi, quindi i Gonzaga, e vi lavorarono numerosi artisti rinascimentali