A partire dal 1942 gli alleati
anglo-americani e i russi incominciarono ad avanzare e ad infliggere le prime
grandi sconfitte ai Paesi dell’Asse (Germania, Italia e Giappone).
Nel giugno 1942 i nazisti avevano
cominciato una grande offensiva contro l’URSS, in direzione del Don e del Volga
meridionali, del Caucaso e del mar Caspio: si trattava di territori importanti
strategicamente, per le risorse petrolifere caucasiche e perché il corridoio
tra i due fiumi costituiva il centro del sistema difensivo di Mosca. In poche
settimane l’avanzata tedesca fu inarrestabile e i russi dovettero ripiegare al
di là del Don, ma da quel momento le cose cambiarono: alle falde del Caucaso
l’attacco tedesco si arrestò e l’epicentro della battaglia si spostò più a
nord, intorno alla citta di Stalingrado.
Soldati sovietici combattono tra le macerie di Stalingrado (1942)
I combattimenti nella città
iniziarono nel luglio del 1942, si trasformarono in un gigantesco assedio e si
protrassero fino al febbraio del 1943: la battaglia che si scatenò a
Stalingrado fu feroce e sanguinosa, combattuta all’interno dei quartieri
cittadini, casa per casa, fabbrica per fabbrica. A fine novembre i tedeschi
divennero da assedianti a assediati, mentre sul fronte del Don l’armata
italiana subì lo sfondamento sovietico e iniziò una tragica ritirata a piedi
per 800 chilometri nella neve. Nel marzo 1943 anche le truppe tedesche sul
Caucaso furono costrette alla ritirata: da questo momento in poi la guerra in
Russia fu a senso unico, con le truppe dell’Asse in ritirata e quelle
sovietiche a incalzarle, fino alla resa definitiva a Berlino nel 1945.
I soldati italiani dell’ARMIR in ritirata nella steppa innevata, dopo
lo sfondamento sovietico sul fronte del Don (inverno 1942-1943)
Nel secondo semestre del 1942 le
sorti della guerra si rovesciarono anche sul fronte dell’Africa settentrionale:
anche qui a un iniziale successo tedesco (fino alla conquista di Tobruch, in
Libia, che era colonia italiana), seguì l’arresto a el-Alamein, dove lo scontro
tra alleati e forze dell’Asse avvenne secondo modelli della Prima guerra
mondiale, con trincee e camminamenti costruiti nella sabbia e scontri
“all’antica” (bombardamenti dell’artiglieria, avanzata della fanteria,
terribili mischie in trincea, combattimenti all’arma bianca).
Automezzi britannici avanzano a el-Alamein sotto il bombardamento dell’artiglieria
italo-tedesca (giugno-luglio 1942)
Nel novembre 1942 scattò
l’operazione Torch, con lo sbarco sulle coste marocchine e algerine degli
alleati: era il primo intervento diretto delle forze americane nello scenario
mediterraneo. Mentre i tedeschi occupavano i territori francesi in Tunisia, un
ammiraglio della Repubblica di Vichy firmava l’armistizio con gli alleati,
abbandonando così i tedeschi. Solo la flotta francese non accettò l’armistizio
e si autoaffondò nella baia di Tolone, in modo da negare le proprie navi sia ai
nazisti sia agli alleati.
Nella difesa della Tunisia gli
Italo-Tedeschi decisero di profondere tutte le loro ultime risorse di mezzi e
di uomini: 250.000 soldati si trovarono rovesciati sulle coste tunisine,
costretti a combattere senza via d’uscita con il mare alle spalle. La battaglia
infuriò dal marzo al maggio 1943; la capitolazione finale metteva fine alla
presenza dell’Asse in Africa e spalancava agli alleati le porte della Sicilia e
dell’Italia.
Prigionieri italiani nel deserto tunisino (marzo 1943)
Intanto in Asia si ripetevano
operazioni simili a quelle europee: il Giappone aveva occupato isola su isola
fino a quella di Guadalcanal (nelle Isole Salomone), dove era sbarcato nel
luglio 1942. Dopo due grandi battaglie aereo-navali (quella del mar dei Coralli
e quella delle isole Midway), fu proprio a Guadalcanal che si combatté una
lunga battaglia (dall’agosto 1942 al febbraio 1943), che segnò la fine delle
conquiste nipponiche e l’inizio della vittoria statunitense.
Carri armati americani a Guadalcanal (agosto 1942)
Lo sbarco degli anglo-americani
in Sicilia avvenne il 10 luglio 1943: cominciò così l’occupazione dell’Italia.
10 luglio 1943: gli alleati sbarcano in Sicilia
Il 25 luglio 1943 il Gran
Consiglio del fascismo decise di mettere fine al governo di Mussolini, che il
re fece arrestare; capo del governo fu nominato il maresciallo Badoglio.
Il governo avviò trattative
segrete tra l’Italia e gli alleati e firmò un armistizio (a Cassibile, il 3
settembre), secondo cui l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania e
i soldati italiani avrebbero dovuto combattere contro i tedeschi. Ciò sarebbe
stato possibile solo se l’azione fosse stata preparata con cura, ma l’annuncio
dell’armistizio (8 settembre 1943) colse di sorpresa le truppe italiane, che
furono facilmente disarmate dai tedeschi.
La firma dell’armistizio di Cassibile: in primo piano il commodoro Dick
seduto al tavolo mentre procede alle operazioni sotto lo sguardo del generale
Castellano in abito scuro
Mentre il re e il governo
fuggivano da Roma, rifugiandosi a Brindisi nei territori sotto il controllo
degli alleati, molti soldati, convinti che la guerra fosse finita, lasciarono
le caserme per ritornare a casa. Quelli che vennero catturati dai tedeschi,
furono fucilati o inviati in Germania in campi di prigionia (650.000 militari,
di cui 35.000 morirono).
I reparti che opposero resistenza
furono massacrati dai tedeschi: a Cefalonia, in Grecia, i tedeschi uccisero
5.000 soldati italiani, catturati dopo una resistenza di sette giorni. Altri
massacri avvennero a Corfù e in altre isole greche.
L’eccidio di Cefalonia
I tedeschi liberarono Mussolini e
lo misero a capo della Repubblica Sociale Italiana (o Repubblica di Salò,
perché il governo aveva sede in questa cittadina sul lago di Garda).
Dal settembre 1943 fino alla fine
della guerra, l’Italia si trovò divisa in due zone: una, controllata dagli
alleati, sotto il governo monarchico; l’altra, controllata dai tedeschi, con il
governo fascista (indicato anche come repubblichino). Il confine tra le due
zone si spostò continuamente verso nord, man mano che gli alleati avanzavano.
L’annuncio dell’armistizio e la
nuova situazione che si creò dopo l’8 settembre favorirono l’organizzazione
della resistenza italiana, sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale
centrale (CLN), di cui facevano parte i principali partiti di opposizione al
fascismo.
Nell’Italia centrale e
settentrionale si formarono bande partigiane, che giunsero a comprendere
complessivamente circa 200.000 uomini: vi erano formazioni autonome e altre
legate ai partiti, come le Brigate Garibaldi (Partito comunista) e le Brigate
Giustizia e Libertà (Partito d’Azione). Mentre gli alleati risalivano lungo la
penisola, liberando Roma (4 giugno 1944) e Firenze (6 agosto 1944), con la
collaborazione dei partigiani, altre formazioni agivano nelle regioni sotto
controllo tedesco e fascista, intervenendo sia in città sia soprattutto nelle zone
di campagna.
Un carro armato alleato entra a Firenze nell’agosto 1944
La repressione tedesca fu
spietata, come in tutta l’Europa: a Roma, ad esempio, dopo un attentato dei
partigiani che provocò 33 morti tra i soldati tedeschi, vennero fucilati 335
italiani (eccidio delle Fosse Ardeatine, 24-25 marzo 1944). Nelle zone in cui
operavano i partigiani, interi paesi vennero distrutti e centinaia di persone
di ogni età assassinate. Da Boves (16 settembre 1943, 55 morti) a Marzabotto
(29 settembre 1944, 1830 morti) le rappresaglie naziste provocarono una lunga
serie di stragi.
Le fosse Ardeatine in cui morirono 335 italiani; per nascondere il
massacro compiuto all’interno di una cava, i tedeschi minarono la zona dell’eccidio
Già nella primavera del 1944
quasi tutta la Russia era stata liberata, ma l’avanzata sovietica cominciava a
preoccupare gli alleati (in particolare il primo ministro inglese Winston
Churchill): l’essere uniti in una guerra definita «democratica e antifascista» non bastava a cancellare di
colpo anni di ostilità ideologiche e di rivalità geopolitiche, tra l’URSS e gli
anglo-americani. Churchill, Roosevelt e Stalin si erano comunque incontrati nel
tardo autunno del 1943 (conferenza di Teheran) ed avevano convenuto che era
irrevocabile l’apertura di un secondo fronte contro Hitler.
Alla conferenza di
Teheran Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di dare il via allo sbarco in
Normandia
Iniziò così l’operazione Overlord, ossia lo sbarco
anglo-statunitense nella coste della Normandia, quanto più possibile vicini ai
confini nazionali della Germania. Lo sbarco avvenne nella notte tra il 5 e il 6
giugno 1944, con il dispiegamento da parte degli USA di una potenza notevole:
tre milioni di uomini, 1.200 navi da guerra, 6.500 mezzi anfibi, 13.000 aerei.
Un mese dopo già un milione e mezzo di uomini aveva occupato la Normandia e
aveva scoperto che il «vallo atlantico» (la linea difensiva tedesca a difesa
del proprio territorio) era poco più che un espediente propagandistico,
aggirato tra l’altro dalle audaci incursioni di truppe paracadutate.
Truppe alleate
poco prima dello sbarco a Omaha Beach
Nella foto dell’8
giugno 1944 gli alleati sono sbarcati in Normandia e hanno catturato alcuni
soldati tedeschi
Il 15 agosto soldati al comando del generale De Gaulle erano
sbarcati in Provenza, cominciando a risalire vittoriosamente la Francia
meridionale ed entrando il 18 agosto nella stessa Parigi, insorta contro i
tedeschi sotto la spinta dei partigiani francesi. In settembre gli alleati
liberarono Bruxelles e Anversa ed entro la fine dell’anno la Francia e
il Belgio furono quasi interamente liberati: sembrava l’inizio di una marcia
inarrestabile, invece l’arrivo dell’inverno (l’ultimo della guerra) stabilizzò
il fronte.
L’offensiva riprese nel 1945 su
tutti i fronti. Su quello italiano gli alleati, che avevano raggiunto
nell’autunno 1944 l’Appennino tosco-emiliano (la linea gotica, che univa Rimini
a La Spezia), cominciarono in primavera l’occupazione dell’Italia
settentrionale. Con loro combatterono anche truppe italiane reclutate nelle
zone già liberate (Corpo italiano di liberazione, poi Gruppi di combattimento)
e le brigate partigiane. A Milano, Torino e Genova l’insurrezione popolare
costrinse i tedeschi alla fuga, prima dell’arrivo degli alleati, e il 25 aprile
1945 gran parte dell’Italia settentrionale era stata liberata. Mussolini,
catturato dai partigiani mentre cercava di fuggire in Svizzera, venne fucilato
(27-28 aprile): il suo corpo, assieme a quello dell’amante Claretta Petacci e
di altri gerarchi fascisti, venne portato a Milano ed esposto in Piazzale
Loreto, dove alcuni mesi prima erano stati uccisi 15 partigiani. La gente
cominciò a radunarsi attorno al cadavere del duce e a prenderlo a calci, a
sputi e una donna gli sparò contro 5 colpi di pistola; fu necessario sottrarre
i corpi alla gente inferocita e si decise di appenderli per i piedi a una
pensilina.
I cadaveri di Mussolini (secondo da sinistra), dell’amante Claretta
Petacci e di altri gerarchi fascisti appesi per i piedi a Piazzale Loreto
In Germania, quando sembrava che
la compattezza del regime stesse per sfaldarsi, Hitler decise la «mobilitazione totale»: mentre
la propaganda gestita da Joseph Goebbels lanciava proclami illusori su «armi
segrete» e «interventi divini», gli orari di lavoro furono intensificati al
massimo e alla Wehrmacht affluirono reclute giovanissime (16 anni), impiegati
pubblici, artisti, cantanti, tutto quello che alla Germania rimaneva in termini
di uomini e mezzi.
Queste truppe raccogliticce e inesperte furono lanciate
contro l’immensa forza d’urto alleata; riuscirono in uno sforzo disperato a
resistere nelle Ardenne (dicembre 1944), poi le ultime riserve corazzate
tedesche si esaurirono. Intanto le città tedesche erano sottoposte a spaventosi
bombardamenti (a Dresda, nel febbraio 1945, si contarono più di 100.000 morti),
che spezzarono definitivamente il morale della popolazione e dell’esercito.
Dresda dopo il
bombardamento del 1945
Sul fronte orientale l’esercito sovietico riprese ad
avanzare, avanzando in Polonia, in Ungheria e in Austria. Il 30 aprile 1945,
mentre l’Armata rossa entrava a Berlino, Hitler si suicidò nel suo bunker; il 7
maggio la Germania si arrese «senza condizioni», come volevano alleati e russi;
l’8 maggio, per la prima volta dopo anni, le armi tacquero in tutta Europa.
Churchill saluta
la folla in strada a Londra nel giorno della vittoria e della fine della guerra con la Germania
La guerra continuava però nel
Pacifico e in Asia. Gli americani avevano avviato nel 1944 una grande
offensiva, sorretta dalla loro capacità di armarsi: basti pensare che in
quell’anno gli USA produssero 96.000 aerei, contro i 21.000 del Giappone.
L’offensiva procedette «a balzi di montone», come si
disse, cioè non attaccando tutte le isole in mano ai giapponesi, ma solo quelle
strategicamente importanti. Nell’ottobre 1944 il Giappone, che come la Germania
aveva deciso la «mobilitazione totale», impiegò per la prima volta i kamikaze,
i piloti suicidi che piombavano con i loro aerei sulle navi nemiche, disposti a
morire pur di distruggere gli obiettivi nemici. La disfatta nipponica durante
l’assalto finale fu accompagnata anche da numerosi suicidi di generali e
soldati, che credevano così di riscattarsi dalla sconfitta subita.
L’attacco di un
kamikaze giapponese a una corazzata statunitense nell’aprile 1945 durante la
battaglia di Okinawa
Dopo la conquista delle Filippine (febbraio 1945), gli USA
puntarono contro l’arcipelago giapponese, alternando massicce incursioni aeree
su molte città (il 9 marzo Tokyo subì il più terrificante bombardamento aereo
di tutta la guerra) ad attacchi diretti in territorio nipponico (il primo
avvenne nella piccola isola vulcanica di Iwo Jima, dove i soldati giapponesi si
arresero dopo un mese di accaniti combattimenti).
L’attacco a Okinawa, l’ultimo baluardo difensivo del
Giappone verso le coste cinesi, che provocò più di 100.000 morti tra i
difensori e 7.000 tra gli americani, sembrò preludere alla capitolazione dello
Stato asiatico; poiché essa non avveniva, il nuovo presidente degli USA, Harry
Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile 1945), decise di accelerare la fine
del conflitto e stroncare la resistenza nipponica, sperimentando su due città
giapponesi una nuova arma, un tipo di bomba che sfruttava la reazione atomica,
ovvero gli effetti della disintegrazione dell’atomo di uranio.
Una prima bomba atomica fu
sganciata sulla città giapponese di Hiroshima il 6 agosto 1945, provocando
oltre 100.000 morti; una seconda bomba atomica colpì il 9 agosto Nagasaki e le
vittime furono quasi 40.000.
Hiroshima dopo la bomba atomica
Le bombe atomiche indussero il
governo giapponese alla resa (annunciata dall’imperatore Hirohito il 15 agosto
e firmata il 2 settembre a bordo della corazzata statunitense Missouri), ma aprirono una nuova era:
quella in cui le armi costruite dall’uomo sarebbero state in grado di
distruggere la vita sul pianeta.
Un delegato giapponese firma l’atto di capitolazione del suo Paese a
bordo della corazzata americana Missouri
nella baia di Tokyo il 2 settembre 1945