Approfondimenti

giovedì 25 maggio 2017

93 La conclusione della Seconda guerra mondiale


A partire dal 1942 gli alleati anglo-americani e i russi incominciarono ad avanzare e ad infliggere le prime grandi sconfitte ai Paesi dell’Asse (Germania, Italia e Giappone).
Nel giugno 1942 i nazisti avevano cominciato una grande offensiva contro l’URSS, in direzione del Don e del Volga meridionali, del Caucaso e del mar Caspio: si trattava di territori importanti strategicamente, per le risorse petrolifere caucasiche e perché il corridoio tra i due fiumi costituiva il centro del sistema difensivo di Mosca. In poche settimane l’avanzata tedesca fu inarrestabile e i russi dovettero ripiegare al di là del Don, ma da quel momento le cose cambiarono: alle falde del Caucaso l’attacco tedesco si arrestò e l’epicentro della battaglia si spostò più a nord, intorno alla citta di Stalingrado.

Soldati sovietici combattono tra le macerie di Stalingrado (1942)

I combattimenti nella città iniziarono nel luglio del 1942, si trasformarono in un gigantesco assedio e si protrassero fino al febbraio del 1943: la battaglia che si scatenò a Stalingrado fu feroce e sanguinosa, combattuta all’interno dei quartieri cittadini, casa per casa, fabbrica per fabbrica. A fine novembre i tedeschi divennero da assedianti a assediati, mentre sul fronte del Don l’armata italiana subì lo sfondamento sovietico e iniziò una tragica ritirata a piedi per 800 chilometri nella neve. Nel marzo 1943 anche le truppe tedesche sul Caucaso furono costrette alla ritirata: da questo momento in poi la guerra in Russia fu a senso unico, con le truppe dell’Asse in ritirata e quelle sovietiche a incalzarle, fino alla resa definitiva a Berlino nel 1945.

I soldati italiani dell’ARMIR in ritirata nella steppa innevata, dopo lo sfondamento sovietico sul fronte del Don (inverno 1942-1943)

Nel secondo semestre del 1942 le sorti della guerra si rovesciarono anche sul fronte dell’Africa settentrionale: anche qui a un iniziale successo tedesco (fino alla conquista di Tobruch, in Libia, che era colonia italiana), seguì l’arresto a el-Alamein, dove lo scontro tra alleati e forze dell’Asse avvenne secondo modelli della Prima guerra mondiale, con trincee e camminamenti costruiti nella sabbia e scontri “all’antica” (bombardamenti dell’artiglieria, avanzata della fanteria, terribili mischie in trincea, combattimenti all’arma bianca).

Automezzi britannici avanzano a el-Alamein sotto il bombardamento dell’artiglieria italo-tedesca (giugno-luglio 1942)

Nel novembre 1942 scattò l’operazione Torch, con lo sbarco sulle coste marocchine e algerine degli alleati: era il primo intervento diretto delle forze americane nello scenario mediterraneo. Mentre i tedeschi occupavano i territori francesi in Tunisia, un ammiraglio della Repubblica di Vichy firmava l’armistizio con gli alleati, abbandonando così i tedeschi. Solo la flotta francese non accettò l’armistizio e si autoaffondò nella baia di Tolone, in modo da negare le proprie navi sia ai nazisti sia agli alleati.
Nella difesa della Tunisia gli Italo-Tedeschi decisero di profondere tutte le loro ultime risorse di mezzi e di uomini: 250.000 soldati si trovarono rovesciati sulle coste tunisine, costretti a combattere senza via d’uscita con il mare alle spalle. La battaglia infuriò dal marzo al maggio 1943; la capitolazione finale metteva fine alla presenza dell’Asse in Africa e spalancava agli alleati le porte della Sicilia e dell’Italia.

Prigionieri italiani nel deserto tunisino (marzo 1943)

Intanto in Asia si ripetevano operazioni simili a quelle europee: il Giappone aveva occupato isola su isola fino a quella di Guadalcanal (nelle Isole Salomone), dove era sbarcato nel luglio 1942. Dopo due grandi battaglie aereo-navali (quella del mar dei Coralli e quella delle isole Midway), fu proprio a Guadalcanal che si combatté una lunga battaglia (dall’agosto 1942 al febbraio 1943), che segnò la fine delle conquiste nipponiche e l’inizio della vittoria statunitense.

Carri armati americani a Guadalcanal (agosto 1942)

Lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia avvenne il 10 luglio 1943: cominciò così l’occupazione dell’Italia.

10 luglio 1943: gli alleati sbarcano in Sicilia

Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo decise di mettere fine al governo di Mussolini, che il re fece arrestare; capo del governo fu nominato il maresciallo Badoglio.
Il governo avviò trattative segrete tra l’Italia e gli alleati e firmò un armistizio (a Cassibile, il 3 settembre), secondo cui l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania e i soldati italiani avrebbero dovuto combattere contro i tedeschi. Ciò sarebbe stato possibile solo se l’azione fosse stata preparata con cura, ma l’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943) colse di sorpresa le truppe italiane, che furono facilmente disarmate dai tedeschi.

La firma dell’armistizio di Cassibile: in primo piano il commodoro Dick seduto al tavolo mentre procede alle operazioni sotto lo sguardo del generale Castellano in abito scuro

Mentre il re e il governo fuggivano da Roma, rifugiandosi a Brindisi nei territori sotto il controllo degli alleati, molti soldati, convinti che la guerra fosse finita, lasciarono le caserme per ritornare a casa. Quelli che vennero catturati dai tedeschi, furono fucilati o inviati in Germania in campi di prigionia (650.000 militari, di cui 35.000 morirono).
I reparti che opposero resistenza furono massacrati dai tedeschi: a Cefalonia, in Grecia, i tedeschi uccisero 5.000 soldati italiani, catturati dopo una resistenza di sette giorni. Altri massacri avvennero a Corfù e in altre isole greche.

L’eccidio di Cefalonia

I tedeschi liberarono Mussolini e lo misero a capo della Repubblica Sociale Italiana (o Repubblica di Salò, perché il governo aveva sede in questa cittadina sul lago di Garda).
Dal settembre 1943 fino alla fine della guerra, l’Italia si trovò divisa in due zone: una, controllata dagli alleati, sotto il governo monarchico; l’altra, controllata dai tedeschi, con il governo fascista (indicato anche come repubblichino). Il confine tra le due zone si spostò continuamente verso nord, man mano che gli alleati avanzavano.
L’annuncio dell’armistizio e la nuova situazione che si creò dopo l’8 settembre favorirono l’organizzazione della resistenza italiana, sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale centrale (CLN), di cui facevano parte i principali partiti di opposizione al fascismo.
Nell’Italia centrale e settentrionale si formarono bande partigiane, che giunsero a comprendere complessivamente circa 200.000 uomini: vi erano formazioni autonome e altre legate ai partiti, come le Brigate Garibaldi (Partito comunista) e le Brigate Giustizia e Libertà (Partito d’Azione). Mentre gli alleati risalivano lungo la penisola, liberando Roma (4 giugno 1944) e Firenze (6 agosto 1944), con la collaborazione dei partigiani, altre formazioni agivano nelle regioni sotto controllo tedesco e fascista, intervenendo sia in città sia soprattutto nelle zone di campagna.

Un carro armato alleato entra a Firenze nell’agosto 1944

La repressione tedesca fu spietata, come in tutta l’Europa: a Roma, ad esempio, dopo un attentato dei partigiani che provocò 33 morti tra i soldati tedeschi, vennero fucilati 335 italiani (eccidio delle Fosse Ardeatine, 24-25 marzo 1944). Nelle zone in cui operavano i partigiani, interi paesi vennero distrutti e centinaia di persone di ogni età assassinate. Da Boves (16 settembre 1943, 55 morti) a Marzabotto (29 settembre 1944, 1830 morti) le rappresaglie naziste provocarono una lunga serie di stragi.

Le fosse Ardeatine in cui morirono 335 italiani; per nascondere il massacro compiuto all’interno di una cava, i tedeschi minarono la zona dell’eccidio

Già nella primavera del 1944 quasi tutta la Russia era stata liberata, ma l’avanzata sovietica cominciava a preoccupare gli alleati (in particolare il primo ministro inglese Winston Churchill): l’essere uniti in una guerra definita «democratica e antifascista» non bastava a cancellare di colpo anni di ostilità ideologiche e di rivalità geopolitiche, tra l’URSS e gli anglo-americani. Churchill, Roosevelt e Stalin si erano comunque incontrati nel tardo autunno del 1943 (conferenza di Teheran) ed avevano convenuto che era irrevocabile l’apertura di un secondo fronte contro Hitler.

Alla conferenza di Teheran Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di dare il via allo sbarco in Normandia

Iniziò così l’operazione Overlord, ossia lo sbarco anglo-statunitense nella coste della Normandia, quanto più possibile vicini ai confini nazionali della Germania. Lo sbarco avvenne nella notte tra il 5 e il 6 giugno 1944, con il dispiegamento da parte degli USA di una potenza notevole: tre milioni di uomini, 1.200 navi da guerra, 6.500 mezzi anfibi, 13.000 aerei. Un mese dopo già un milione e mezzo di uomini aveva occupato la Normandia e aveva scoperto che il «vallo atlantico» (la linea difensiva tedesca a difesa del proprio territorio) era poco più che un espediente propagandistico, aggirato tra l’altro dalle audaci incursioni di truppe paracadutate.

Truppe alleate poco prima dello sbarco a Omaha Beach

Nella foto dell’8 giugno 1944 gli alleati sono sbarcati in Normandia e hanno catturato alcuni soldati tedeschi

Il 15 agosto soldati al comando del generale De Gaulle erano sbarcati in Provenza, cominciando a risalire vittoriosamente la Francia meridionale ed entrando il 18 agosto nella stessa Parigi, insorta contro i tedeschi sotto la spinta dei partigiani francesi. In settembre gli alleati liberarono Bruxelles e Anversa ed entro la fine dell’anno la Francia e il Belgio furono quasi interamente liberati: sembrava l’inizio di una marcia inarrestabile, invece l’arrivo dell’inverno (l’ultimo della guerra) stabilizzò il fronte.
L’offensiva riprese nel 1945 su tutti i fronti. Su quello italiano gli alleati, che avevano raggiunto nell’autunno 1944 l’Appennino tosco-emiliano (la linea gotica, che univa Rimini a La Spezia), cominciarono in primavera l’occupazione dell’Italia settentrionale. Con loro combatterono anche truppe italiane reclutate nelle zone già liberate (Corpo italiano di liberazione, poi Gruppi di combattimento) e le brigate partigiane. A Milano, Torino e Genova l’insurrezione popolare costrinse i tedeschi alla fuga, prima dell’arrivo degli alleati, e il 25 aprile 1945 gran parte dell’Italia settentrionale era stata liberata. Mussolini, catturato dai partigiani mentre cercava di fuggire in Svizzera, venne fucilato (27-28 aprile): il suo corpo, assieme a quello dell’amante Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti, venne portato a Milano ed esposto in Piazzale Loreto, dove alcuni mesi prima erano stati uccisi 15 partigiani. La gente cominciò a radunarsi attorno al cadavere del duce e a prenderlo a calci, a sputi e una donna gli sparò contro 5 colpi di pistola; fu necessario sottrarre i corpi alla gente inferocita e si decise di appenderli per i piedi a una pensilina.

I cadaveri di Mussolini (secondo da sinistra), dell’amante Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti appesi per i piedi a Piazzale Loreto

In Germania, quando sembrava che la compattezza del regime stesse per sfaldarsi, Hitler decise la «mobilitazione totale»: mentre la propaganda gestita da Joseph Goebbels lanciava proclami illusori su «armi segrete» e «interventi divini», gli orari di lavoro furono intensificati al massimo e alla Wehrmacht affluirono reclute giovanissime (16 anni), impiegati pubblici, artisti, cantanti, tutto quello che alla Germania rimaneva in termini di uomini e mezzi.
Queste truppe raccogliticce e inesperte furono lanciate contro l’immensa forza d’urto alleata; riuscirono in uno sforzo disperato a resistere nelle Ardenne (dicembre 1944), poi le ultime riserve corazzate tedesche si esaurirono. Intanto le città tedesche erano sottoposte a spaventosi bombardamenti (a Dresda, nel febbraio 1945, si contarono più di 100.000 morti), che spezzarono definitivamente il morale della popolazione e dell’esercito.

Dresda dopo il bombardamento del 1945

Sul fronte orientale l’esercito sovietico riprese ad avanzare, avanzando in Polonia, in Ungheria e in Austria. Il 30 aprile 1945, mentre l’Armata rossa entrava a Berlino, Hitler si suicidò nel suo bunker; il 7 maggio la Germania si arrese «senza condizioni», come volevano alleati e russi; l’8 maggio, per la prima volta dopo anni, le armi tacquero in tutta Europa.

Churchill saluta la folla in strada a Londra nel giorno della vittoria e della fine della guerra con la Germania

La guerra continuava però nel Pacifico e in Asia. Gli americani avevano avviato nel 1944 una grande offensiva, sorretta dalla loro capacità di armarsi: basti pensare che in quell’anno gli USA produssero 96.000 aerei, contro i 21.000 del Giappone.
L’offensiva procedette «a balzi di montone», come si disse, cioè non attaccando tutte le isole in mano ai giapponesi, ma solo quelle strategicamente importanti. Nell’ottobre 1944 il Giappone, che come la Germania aveva deciso la «mobilitazione totale», impiegò per la prima volta i kamikaze, i piloti suicidi che piombavano con i loro aerei sulle navi nemiche, disposti a morire pur di distruggere gli obiettivi nemici. La disfatta nipponica durante l’assalto finale fu accompagnata anche da numerosi suicidi di generali e soldati, che credevano così di riscattarsi dalla sconfitta subita.

L’attacco di un kamikaze giapponese a una corazzata statunitense nell’aprile 1945 durante la battaglia di Okinawa

Dopo la conquista delle Filippine (febbraio 1945), gli USA puntarono contro l’arcipelago giapponese, alternando massicce incursioni aeree su molte città (il 9 marzo Tokyo subì il più terrificante bombardamento aereo di tutta la guerra) ad attacchi diretti in territorio nipponico (il primo avvenne nella piccola isola vulcanica di Iwo Jima, dove i soldati giapponesi si arresero dopo un mese di accaniti combattimenti).
L’attacco a Okinawa, l’ultimo baluardo difensivo del Giappone verso le coste cinesi, che provocò più di 100.000 morti tra i difensori e 7.000 tra gli americani, sembrò preludere alla capitolazione dello Stato asiatico; poiché essa non avveniva, il nuovo presidente degli USA, Harry Truman (Roosevelt era morto il 12 aprile 1945), decise di accelerare la fine del conflitto e stroncare la resistenza nipponica, sperimentando su due città giapponesi una nuova arma, un tipo di bomba che sfruttava la reazione atomica, ovvero gli effetti della disintegrazione dell’atomo di uranio.
Una prima bomba atomica fu sganciata sulla città giapponese di Hiroshima il 6 agosto 1945, provocando oltre 100.000 morti; una seconda bomba atomica colpì il 9 agosto Nagasaki e le vittime furono quasi 40.000.

Hiroshima dopo la bomba atomica

Le bombe atomiche indussero il governo giapponese alla resa (annunciata dall’imperatore Hirohito il 15 agosto e firmata il 2 settembre a bordo della corazzata statunitense Missouri), ma aprirono una nuova era: quella in cui le armi costruite dall’uomo sarebbero state in grado di distruggere la vita sul pianeta.

Un delegato giapponese firma l’atto di capitolazione del suo Paese a bordo della corazzata americana Missouri nella baia di Tokyo il 2 settembre 1945




sabato 13 maggio 2017

92 Dall'antisemitismo all'Olocausto


L’odio per gli ebrei fu una componente fondamentale della dottrina nazista e fu presente anche negli altri fascismi europei. L’antisemitismo, del resto, era un fenomeno antico.
Alla fine del XIX secolo in Francia al tradizionale antisemitismo cattolico, fondato sull’odio per il popolo “deicida” (in quanto aveva condannato a crocifissione Gesù Cristo), si erano aggiunti un antisemitismo socialista (contrario al capitalismo) e un antisemitismo apertamente razzista.
Nei territori imperiali austriaco e tedesco e nel mondo slavo (Impero russo compreso) la situazione non era molto diversa: all’antisemitismo cristiano di origine medievale e a quello razzista, si era aggiunta una forma di nazionalismo, nata nell’ultimo trentennio del XIX secolo, detta Völkisch, dal termine tedesco Volk, che significa non solo “popolo”, ma anche “nazione” e “stirpe”.

Manifesto per un movimento ideologico dello scrittore Ludwig Fahrenkrog (il Germanische Glaubens Gemeinschaft = Comunità di Fede Germanica) vicino al Völkisch: si noti il simbolo della svastica

Il movimento Völkisch era impregnato più di razzismo “spiritualista” (per cui un popolo è superiore a un altro per cultura, valori, visione del mondo), che di razzismo “biologicista” (che comunque c’era e distingueva da un punto di vista biologico tra singoli individui, popoli e persino sessi). Era inoltre un movimento che rigettava l’assimilazione, la mescolanza tra i popoli, anzi, che invitava a far di tutto per impedirla, e propugnava insieme l’antisemitismo, l’antislavismo e l’antifemminismo. Per questo movimento, che si accrebbe in seguito agli sconvolgimenti della Prima guerra mondiale, gli ebrei divennero i capri espiatori di tutte le difficoltà della Germania: per esso gli ebrei simboleggiavano la modernità, il capitalismo, l’espansione urbana, la distruzione della cultura e della società tradizionali.
Questo antisemitismo esercitò una notevole influenza in quei partiti politici di destra che si affermarono all’inizio del Novecento e di conseguenza su Hitler, che aderì a uno di tali partiti; Hitler vedeva negli ebrei il principio di ogni male, perché secondo lui avevano corrotto la purezza razziale dei tedeschi (gli “ariani”) e avevano distrutto la cultura germanica.

Hitler e altri capi del Partito nazionalsocialista a Monaco nel 1930

Quando Hitler salì al potere (1933), la Germania si trovò perciò guidata da un gruppo di politici fieramente antisemiti: già nel marzo del 1933 il governo nazista sosteneva il boicottaggio contro negozi, grandi magazzini, studi legali e altre attività economiche ebraiche. In aprile venne varata una legge che cacciò tutti i funzionari, gli impiegati e gli operai ebrei dalle istituzioni statali (ministeri, comuni, teatri pubblici, ospedali, farmacie comunali).
Era considerato ebreo chiunque dicesse di esserlo, o – in caso di non ammissione – chiunque avesse avuto almeno tre nonni di religione ebraica: secondo un censimento del 1933 le persone di religione ebraica erano lo 0,77% dell’intera popolazione.

Sfilata di miliziani delle SA per le vie di Berlino con cartelli che invitano al boicottaggio dei negozi e delle imprese degli ebrei (aprile 1933)

La propaganda antisemita dovette procedere per gradi, perché non voleva compromettere gli affari degli ariani e perché ci voleva tempo per istigare la maggioranza della popolazione tedesca contro la minoranza ebraica: vennero diffusi scritti antisemiti e venne preparata una speciale letteratura antisemita per i bambini delle scuole elementari.
Questi ed altri provvedimenti provocarono una fuga in massa soprattutto di coloro che esercitavano professioni da cui furono estromessi: presso le università, gli istituti superiori di studio e di ricerca, i teatri, gli ospedali, la stampa, l’editoria, gli ambiti giudiziari (magistrati, pubblici ministeri e avvocati).
Nel 1935 gli ebrei furono dichiarati «non degni di portare le armi» (cioè di lavorare nell’esercito) e poi si stabilì che tutti gli ebrei senza eccezione sarebbero stati considerati cittadini di seconda classe. A seguito di queste leggi vennero progressivamente emanate delle disposizioni, fino a quella del 1941 che privò completamente della cittadinanza gli ebrei tedeschi, relegati nei ghetti, deportati nei campi di annientamento e espropriati del loro patrimonio.

Le SS scortano una lunga fila di ebrei verso un campo di concentramento nel 1934 a Berlino

Nel frattempo l’antisemitismo si diffondeva nei territori conquistati dalla Germania: in Austria gli ebrei vennero vessati in tutti i modi e alcuni di essi furono deportati nel campo di concentramento di Dachau, per spingere gli altri a darsi alla fuga oltre confine.
In Germania vennero organizzati pogrom, come quello della «notte dei cristalli» (9-10 novembre 1938); 26.000 ebrei di sesso maschile vennero deportati in vari campi di concentramento, dove molti morirono in seguito a torture fisiche e psichiche, a malattie e alla mancanza di cure mediche adeguate. La maggioranza dei superstiti venne rilasciata dopo settimane o mesi di prigionia, in cambio dell’impegno scritto a espatriare immediatamente.

Vetrine infrante in seguito alla “notte dei cristalli”

Una serie di decreti antisemiti venne emanata nel tempo: negozi e aziende artigianali di proprietà o gestite da ebrei furono costretti a chiudere, e i loro proprietari, impiegati e operai perdettero il lavoro. Ai bambini ebrei fu vietato frequentare la scuola pubblica. Vennero limitati il diritto di spostarsi liberamente all’interno del territorio tedesco e quello di risiedere dove si voleva. Talvolta fu imposto agli ebrei di vendere le proprietà (negozi, aziende, beni immobili), talaltra fu vietata la vendita dei patrimoni personali (preziosi, gioielli, oggetti d’arte e così via). Venne loro proibito l’accesso ad alcune zone metropolitane (come strade e piazze del centro di Berlino) e venne loro inibito l’esercizio delle professioni di ostetrico, dentista, medico, veterinario, farmacista, terapista e infermiere.
Nel 1939 si adottarono misure per favorire l’emigrazione degli ebrei: i più giovani abbandonarono il territorio del Reich, mentre molti dei più anziani non accettarono di venir sradicati dalla Germania. Nel censimento di quell’anno gli ebrei (compresi quelli con un solo genitore ebreo) risultarono essere lo 0,35% della popolazione. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale in Germania vi erano ancora 190.000 ebrei: le possibilità di espatrio a quel punto furono estremamente esigue.

Ebrei imbarcati sul transatlantico MS St. Louis nel 1939, famoso proprio per aver portato in America 963 ebrei in fuga dalla Germania nazista

Con l’inizio della guerra le misure antisemite vennero rafforzate: agli ebrei fu imposto uno specifico coprifuoco, che impediva loro di uscire dalle abitazioni per una parte del giorno. Il razionamento alimentare metteva a loro disposizione generi in quantità minore rispetto alla popolazione ariana e alcune merci (come l’abbigliamento e i tessuti) furono loro interdette; quindi fu loro imposta la consegna degli apparecchi radio che possedevano.
Nel 1939 cominciarono anche le prime deportazioni dall’Austria e dalla Cecoslovacchia (territori annessi alla Germania) verso la Polonia occupata e da alcune regioni tedesche verso la Francia di Vichy.
L’occupazione polacca fece insorgere un nuovo problema, in quanto in Polonia vivevano 2-3 milioni di ebrei: si decise di rinchiuderli in ghetti nelle maggiori città, con l’intento poi di trasferirli ancora più a oriente, giacché Hitler considerava come imminente l’allargamento a est dei confini tedeschi. Tra il 1939 e il 1940 vennero istituiti in Polonia circa 400 ghetti: la ghettizzazione fu accompagnata da stragi e condotta con metodi brutali, che provocarono migliaia di morti, per mano delle cosiddette Einsatzgruppen (= gruppi operativi).

Nel ghetto di Varsavia si potevano verificare scene come questa: una persona crolla a terra per strada, vinta dalla denutrizione

Con l’inizio dell’operazione Barbarossa (l’invasione della Russia, giugno 1941) le Einsatzgruppen operarono massacri indiscriminati di ebrei, zingari, militanti comunisti e soldati russi fatti prigionieri, come quello di Babij Jar, in Ucraina, che costò la vita a 30.000 ebrei di Kiev.
Complessivamente le quattro Einsatzgruppen attive sul fronte orientale uccisero da 1 milione a 1,5 milioni di persone, in grande maggioranza ebrei. Inizialmente le vittime venivano fucilate in massa nei pressi di cave, miniere, fosse o gigantesche buche, spesso scavate dai prigionieri stessi. Ma l’eliminazione sistematica, in particolare di donne e bambini, ebbe conseguenze sullo stato di salute psichica dei carnefici: molti manifestarono segni di disagio, che si espressero attraverso la diffusione dell’alcolismo, disturbi psicosomatici e crolli psicologici. Perciò nell’agosto 1941 si decise di mettere a disposizione di questi “gruppi operativi” un nuovo metodo di sterminio, che era già stato sperimentato in Germania per la soppressione di malati mentali, malati incurabili, anziani ospedalizzati cronici, portatori di gravi handicap fisici o psichici: questo metodo consisteva in camere a gas mobili montate su autocarri, che utilizzavano i gas di scarico delle stesse vetture.

Un’esecuzione di ebrei da parte di una Einsatzgruppe in Ucraina nell’estate-autunno del 1941

L’occupazione dei territori russi da parte della Wehrmacht portò alla creazione di nuovi ghetti: a Minsk, a Kaunas (in Lituania), a Vilnius, a Riga. Molti dei ghetti creati nei territori sovietici ebbero vita breve e così avvenne con altri ghetti in Polonia, che furono sottoposti a durissimi rastrellamenti: centinaia di migliaia di ebrei vennero trasportati verso i campi di sterminio appositamente allestiti (Treblinka, Belzec, Sobibor, Majdanek). Era già cominciata l’era della «soluzione finale», il termine usato nel linguaggio burocratico del Terzo Reich per indicare lo sterminio di massa degli ebrei d’Europa.
Il 20 gennaio 1942 si tenne la conferenza di Wannsee, in cui il capo della polizia politica tedesca Reinhard Heydrich comunicò ai partecipanti di aver «ricevuto l’incarico di preparare la soluzione definitiva della questione ebraica»; tale conferenza non decise lo sterminio degli ebrei, ma lo coordinò e lo estese a quelle aree dell’Europa occidentale e meridionale che fino ad allora erano state risparmiate. In effetti lo sterminio ebraico era in atto già da mesi.

Un ritratto di Reinhard Heydrich, uno dei più potenti gerarchi nazisti; venne ucciso nel 1942 (pochi mesi dopo la Conferenza di Wannsee) da partigiani cecoslovacchi

Nell’ottobre 1941 era stata decisa la costruzione in territorio polacco di sei lager di nuovo tipo (Vernichtungslager, cioè campo di sterminio, o di annientamento), destinati all’eliminazione totale di masse enormi di esseri umani.
Sebbene le autorità naziste li chiamassero ancora “campi di concentramento”, la storiografia successiva ha preferito chiamarli “campi di sterminio”: la loro stessa architettura, che prevedeva spazi limitati per l’accoglienza dei deportati, rivelava la fine a cui era destinata la quasi totalità dei prigionieri.
Il 3 settembre 1941 nel campo di Auschwitz venne provata per la prima volta su 600 deportati, in gran parte prigionieri di guerra sovietici, l’efficacia dei cristalli di acido prussico (il famigerato Zyklon B) per la gassazione degli internati.
Numerosi campi di sterminio vennero costruiti in molti luoghi dell’Europa orientale e rimasero in attività fino al novembre del 1944, anche se in maggioranza vennero chiusi alla fine del 1943. Diversamente da quanto accadeva con i campi di concentramento, la cui esistenza era nota, anche per scoraggiare gli oppositori al regime nazista, per i campi di sterminio le autorità si sforzarono di mantenere la massima segretezza; ma la popolazione civile che risiedeva nei pressi di tali campi aveva sufficienti informazioni per comprendere quello che vi avveniva.

Deportati ebrei in un lager dell'est europeo (1942)

Lo scopo e il funzionamento dei campi di concentramento era in parte diverso da quello dei campi di annientamento. Al loro arrivo in alcuni dei campi di concentramento, i prigionieri subivano una prima selezione: solo gli uomini e le donne giovani e dall’aspetto sano (circa il 25% ad Auschwitz, il più noto dei lager) venivano inviati al lavoro. Gli altri, anziani, malati, bambini, venivano immediatamente eliminati nelle camere a gas.
Ai prigionieri che non venivano eliminati subito veniva tatuato sull’avambraccio un numero, che diventava il loro nuovo nome: durante gli appelli al mattino e alla sera, i prigionieri venivano chiamati con quel numero, naturalmente in tedesco, che i detenuti dovevano imparare in fretta per evitare maltrattamenti, se non rispondevano subito. Quindi gli internati venivano obbligati a diversi lavori da svolgere nel campo o nelle fabbriche vicine. Nel corso della guerra infatti le industrie tedesche, in particolare quelle belliche, avevano un bisogno crescente di manodopera, perché gli uomini validi erano in larga maggioranza al fronte. Perciò in tutti i lager i prigionieri erano costretti a lavorare come schiavi, con orari e ritmi massacranti e sotto il controllo ferreo delle SS o dei kapò, che erano dei prigionieri a cui si dava il controllo delle varie baracche: poiché venivano scelti tra coloro che più si dimostravano obbedienti e poiché il loro compito dava ad essi qualche privilegio in più rispetto agli altri prigionieri, i kapò spesso si comportavano ancor più crudelmente dei tedeschi con le persone rinchiuse nei lager.

Un kapo ebreo del lager di Salaspils (Lettonia)

Il lavoro nei lager costava pochissimo agli industriali (dovevano pagare solo una quota per prigioniero alle SS), che così traevano notevoli guadagni da quella manodopera sfruttata fino all’esaurimento delle forze: poi i prigionieri che non erano più in grado di lavorare, per le malattie e il deperimento, venivano eliminati nelle camere a gas e sostituiti con nuovi prigionieri. La vita media di un prigioniero in lager era inferiore a un anno, perché l’alimentazione era insufficiente, i ritmi di lavoro massacranti, gli abiti troppo leggeri per riparare dal freddo intenso dei mesi invernali, le condizioni igieniche disastrose: i prigionieri spesso dormivano in due o tre per letto e non avevano sapone per lavarsi. Fatica, freddo, fame, malattie portavano rapidamente alla morte.

Un medico americano osserva i forni crematori del lager di Buchenwald (aprile 1945)

In molti lager i prigionieri vennero usati come cavie per esperimenti scientifici. Medici tedeschi (tra cui il famigerato dottor Mengele) studiarono ad esempio farmaci e vaccini o lo sviluppo di alcune malattie, iniettando i batteri nel sangue dei prigionieri, oppure la resistenza del corpo e la durata dell’agonia in condizioni estreme (immersione in acqua gelata, mancanza di ossigeno e così via; a Dachau si costruì una camera a vuoto, in cui i prigionieri venivano gettati da grande altezza, per verificare gli effetti sul corpo umano dopo una caduta di molti metri). Altri prigionieri vennero usati per studiare il trapianto di tessuti da un corpo all’altro.
I prigionieri usati come cavie quasi sempre morivano durante l’esperimento, oppure per le sue conseguenze. Altrimenti venivano di solito eliminati, perché i tedeschi non volevano lasciare testimonianze di questi esperimenti.

Il dottor Klein medico di Bergen Belsen tra i corpi dei cadaveri del lager

Quando i tedeschi dovettero abbandonare i campi di fronte all’avanzata russa (il campo di Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio 1945, giorno che è stato scelto per la celebrazione della Giornata della Memoria, a ricordo degli orrori compiuti nei lager), essi cercarono di distruggere tutti i documenti e i campi stessi, in modo da non lasciare tracce delle stragi compiute. I prigionieri vennero eliminati o trasferiti in altri campi con grandi marce, in cui morirono a decine di migliaia. È perciò difficile calcolare con precisione il numero complessivo delle vittime dei lager, di concentramento e di sterminio. Complessivamente si calcola che vi morirono da quattro a otto milioni di persone, in prevalenza ebrei: dettagliate ricerche hanno fornito la certezza che la cifra oscilla tra un minimo di 5.290.000 e un massimo di poco più di 6.000.000 di individui.


Se in grande maggioranza le vittime furono ebree, nei lager morirono anche soldati polacchi o russi presi prigionieri, oppositori e partigiani di diverse nazionalità, zingari, omosessuali, testimoni di Geova e criminali comuni.

Grafico didattico per SS con i diversi simboli usati per distinguere i detenuti nei lager

Va infine ricordato che tutto questo non poté avvenire senza la zelante partecipazione delle burocrazie dei Paesi occupati. Con l’unica eccezione della Danimarca, dove le autorità permisero alla piccola comunità ebraica danese di mettersi in salvo nella vicina e neutrale Svezia, i governi collaborazionisti dei vari Stati occupati si attivarono ampiamente per consegnare gli ebrei ai tedeschi, o per prendere in prima persona iniziative persecutorie contro i propri concittadini di religione ebraica. Per permette, cioè, la Shoah, termine ebraico che significa “distruzione”.

Un medico ceco esamina un detenuto di Buchenwald morto di inedia sotto gli occhi di altri prigionieri (aprile 1945)






venerdì 12 maggio 2017

91 L'Europa sotto il dominio nazifascista


La Germania non era in grado di competere con le potenze riunite degli Stati Uniti, dell’URSS e dell’Inghilterra, però riuscì a resistere a lungo sfruttando le risorse minerali, alimentari e industriali, che venivano prese nell’Europa occupata e portate in Germania. A ciò va aggiunta la deportazione di manodopera lavorativa: nel 1942 giunsero in Germania 5 milioni di lavoratori stranieri (di cui solo un milione e mezzo costituito da prigionieri di guerra), che salirono a più di 8 milioni nel dicembre 1944, in maggioranza trasferiti a forza dai Paesi occupati.
Nel «nuovo ordine» europeo previsto da Hitler, la Germania non solo era al vertice della gerarchia economica e politica, ma doveva esserlo anche dal punto di vista sociale, con una evidente ideologia razzista. In fondo a questa piramide gerarchica c’erano gli slavi e gli ebrei: per i primi si prospettava il ritorno a una condizione di schiavi da impiegare nelle campagne, nelle miniere e in tutte le fatiche pesanti; per i secondi il loro completo sterminio.

 Operai in una fabbrica tedesca durante la Seconda guerra mondiale


All’occupazione tedesca e ai regimi nazifascisti si oppose una parte della popolazione, dando vita al fenomeno della Resistenza, che fu diversa da Paese a Paese, nelle forme in cui agì, negli obiettivi che si diede, negli aiuti che ricevette dall’estero (in particolare dagli Stati Uniti e dall’URSS).
Ci fu così una resistenza armata, formata da organizzazioni segrete di lotta, che agivano contro gli occupanti tedeschi e italiani (così come contro quelli giapponesi in Asia), con assalti alle truppe di occupazione, uccisione di soldati e di uomini di potere e sabotaggi contro le linee ferroviarie e i mezzi di comunicazione.

 Partigiani francesi in addestramento militare: il movimento di resistenza francese si chiamava maquis


In Germania la resistenza al regime nazista si manifestò già nei primi anni della dittatura hitleriana, soprattutto nelle fabbriche, dove gli operai organizzarono scioperi o svolgevano passivamente il proprio lavoro, finendo così nei campi di prigionia. In seguito ci furono altre forme di resistenza al nazismo, fino al fallito attentato contro Hitler del 20 luglio 1944 organizzato da diverse personalità politiche e militari. I tedeschi condannati a morte per attività contro il regime nazista arrivano secondo alcuni dati a 40.000 circa.

 Hitler mostra a Mussolini i danni provocati dalla bomba che doveva uccidere il führer


Ci fu anche una resistenza non violenta: stampa di volantini, opuscoli e giornali di propaganda antitedesca; organizzazione di manifestazioni e di scioperi; sabotaggio della produzione industriale, soprattutto di armi. Nella diffusione di volantini e giornali, o nel trasporto di materiale e ordini, si impegnarono anche numerose donne. Nella Polonia smembrata dalla Germania a ovest e dall’Unione Sovietica a est, dove gli occupanti abolirono le strutture scolastiche, i polacchi resistenti crearono un insegnamento clandestino che arrivava sino all’università. Anche aiutare gli ebrei a nascondersi, come fecero molti in tutta Europa, fu una forma di resistenza.
La repressione tedesca a qualsiasi forma di resistenza fu durissima: i partigiani (cioè coloro che resistevano contro i tedeschi) erano considerati banditi e se fatti prigionieri venivano condannati a morte: spesso i loro cadaveri venivano esposti pubblicamente per giorni, affinché servissero da monito contro altri resistenti, o anche contro la popolazione che a volte aiutava i partigiani.

I 31 partigiani che vennero impiccati a Bassano del Grappa (Vicenza) il 26 settembre 1944 e rimasero esposti per 20 ore

I Tedeschi stabilirono inoltre che per ogni soldato tedesco ucciso, dovevano essere giustiziati dieci o più cittadini, scelti a caso: nel marzo del 1945, dopo un attentato contro il capo della polizia tedesca in Olanda, furono fucilati 400 olandesi.
Anche l’esercito italiano effettuò feroci rappresaglie (= azioni di vendetta) in Iugoslavia, Albania e Grecia, fucilando ostaggi, saccheggiando e distruggendo paesi.
All’interno di ogni Stato occupato alcuni cittadini scelsero di collaborare con i tedeschi. Il collaborazionismo fu un fenomeno diffuso in tutta Europa: alcuni collaborarono con gli occupanti perché ne condividevano le idee, ad esempio l’anticomunismo; altri lo fecero per raggiungere i propri obiettivi politici, ad esempio per imporre all’interno dello Stato il dominio di una popolazione sulle altre (come avvenne in Iugoslavia, dove durante la guerra esplosero le tensioni tra Serbi e Croati); molti per ricavarne vantaggi personali, raggiungere una posizione di potere o anche solo avere maggiori possibilità di sopravvivere.
Molti, e furono la maggioranza, non si impegnarono nella Resistenza, ma non collaborarono neppure con il nemico, mirando esclusivamente a sopravvivere in attesa che la guerra finisse: questa posizione è detta attendismo.

Alcuni francesi che aderirono alla “Legione volontaria contro il bolscevismo” istituita dai tedeschi nel 1941, poco dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa contro l’URSS

In Europa la guerra provocò molti più morti e danni di tutte le guerre precedenti, soprattutto tra la popolazione civile. Non si trattò solo della repressione tedesca e del razionamento nella vendita dei generi alimentari, che provocò ovunque fame e miseria: il maggior numero di morti fu dovuto ai bombardamenti aerei e allo sterminio nei lager.
I bombardamenti sia tedeschi sia degli alleati, venivano effettuati preferibilmente di notte, quando i bombardieri correvano meno rischi di essere abbattuti dalla contraerea. Essi non colpivano solo obiettivi militari, perché, a causa dell’oscurità, era difficile raggiungere e colpire un obiettivo preciso.
Si preferì perciò adottare il bombardamento a tappeto sulle città, grandi obiettivi facilmente raggiungibili anche quando veniva imposto l’oscuramento, ossia l’eliminazione nelle ore serali e notturne di ogni fonte di luce (illuminazione pubblica o casalinga, fari delle automobili, luci nei cimiteri, eccetera) che doveva servire appunto a proteggere la città dagli attacchi aerei.

Un avviso del 1940 di oscuramento totale italiano

All’arrivo dei bombardieri (segnalato da lugubri sirene) la popolazione correva nei rifugi antiaerei, costruiti in diverse città. Coloro che potevano, sfollarono nelle campagne, meno esposte ai bombardamenti: il numero degli sfollati, cioè di coloro che si erano allontanati dai luoghi molto popolosi o a forte rischio di attacco nemico (ad esempio, in Italia, le città industriali di Torino, Milano, Genova) fu assai alto.
Malgrado queste misure, i bombardieri fecero moltissime vittime: un solo bombardamento statunitense su Tokyo (9 marzo 1945) provocò oltre 80.000 morti. Migliaia furono i morti dovuti ai bombardamenti alleati su città tedesche come Lubecca, Dresda, Colonia, Amburgo, Berlino: il numero dei morti non è mai stato conteggiato esattamente, poiché molti furono disintegrati dalle esplosioni e i resti umani rinvenuti sono stati parziali. Inoltre le cifre rese note all’epoca erano generalmente gonfiate a scopi propagandistici.

La città di Colonia com’era nel 1945 dopo una serie di bombardamenti

Nei primi anni della guerra le truppe italiane controllavano alcune regioni della penisola Balcanica e anche qui si sviluppò una forte resistenza contro l’occupazione, alla quale anche gli italiani, come i tedeschi, risposero con feroci rappresaglie contro la popolazione civile, che spesso appoggiava i partigiani.
La repressione da parte dell’esercito italiano fu particolarmente feroce in Slovenia: circa 35.000 sloveni furono deportati e rinchiusi in campi di concentramento, in cui le condizioni di vita non erano molto diverse da quelle dei lager tedeschi: nel solo campo dell’isola di Arbe (Rab) morirono circa 4.500 persone, di cui molte per denutrizione, e complessivamente dei 35.000 deportati almeno 7.000 non sopravvissero alla prigionia.

Un uomo nel campo di concentramento italiano di Arbe

Prima della guerra i tedeschi avevano scacciato dalla Germania molti degli ebrei che vi abitavano, ma la fulminea espansione tedesca portò sotto dominio tedesco milioni di ebrei presenti in tutta Europa. In tutti i territori occupati gli ebrei furono costretti a portare una stella di Davide (a sei punte) gialla cucita sugli abiti, che li rendeva immediatamente riconoscibili e i loro diritti vennero fortemente limitati.

Una coppia di ebrei con la stella di Davide a Budapest nel 1945

I tedeschi progettarono per ciò la “soluzione finale” della questione ebraica: lo sterminio completo degli ebrei. Durante l’invasione dell’URSS gli ebrei vennero spesso massacrati non appena le truppe tedesche occupavano una nuova regione (tra 800.000 e un milione di ebrei sovietici assassinati tra il giugno 1941 e il gennaio 1942); altri invece vennero utilizzati nella costruzione di grandi opere pubbliche (ad esempio strade), in condizioni talmente dure che molti morivano, mentre i sopravvissuti venivano eliminati al termine dei lavori.
In Polonia, dove era maggiore il numero di ebrei, tutti gli ebrei furono progressivamente rinchiusi in ghetti, in particolare nelle due città che già avevano una consistente popolazione giudaica, Varsavia e Łódź: in questi due ghetti, del tutto isolati dal mondo esterno, vennero portati anche gli ebrei di altre regioni. Qui essi vennero utilizzati in lavori forzati per l’industria tedesca. Le razioni di cibo vennero ridotte fino oltre il limite di sopravvivenza, per cui moltissimi morirono di fame, oltre che per le malattie dovute alle condizioni igieniche spaventose e al sovraffollamento: a Łódź i morti furono oltre 45.000.

Il ghetto di Łódź nel 1940-41, con un soldato tedesco e un uomo ebreo che dirigono la folla nel transitare da una parte all’altra del ghetto; il cartello dice “Area residenziale giudaica. Vietato entrare”

Progressivamente però i ghetti vennero chiusi e i loro abitanti deportati nei campo di concentramento, dove trovarono la morte. Quando i nazisti decisero di chiudere il ghetto di Varsavia e di deportarne la popolazione, scoppiò una rivolta, che i nazisti repressero distruggendo l’intero ghetto (19 aprile – 16 maggio 1943) e provocando la morte di altri 56.000 ebrei.

Una celebre foto del 1943 scattata nel ghetto di Varsavia

APPROFONDIMENTO:
Canti dell'antifascismo e della Resistenza

giovedì 11 maggio 2017

90 Lo scoppio della Seconda guerra mondiale


Dopo l’annessione dell’Austria al Reich tedesco (marzo 1938) e dopo la conquista della Cecoslovacchia, smembrata in un protettorato di Boemia e Moravia e in una Slovacchia, entrambi sottomessi alla Germania (marzo 1939), nell’estate del 1939 Hitler cominciò a preparare l’invasione della Polonia. La conquista di questo Stato, nato dopo la Prima guerra mondiale, era un obiettivo importante per la Germania: la Polonia, infatti, oltre a comprendere anche regioni un tempo tedesche (Posnania, Pomerania), divideva il territorio tedesco della Prussia orientale dal resto della Germania.
L’aggressività tedesca (e quella italiana, che nell’aprile 1939 s’impadronì dell’Albania) non trovò nell’Inghilterra e nella Francia una valida opposizione (le due nazioni credevano ancora che la spinta tedesca si potesse contenere pacificamente), tanto che Hitler riteneva i due stati, quelli che maggiormente avrebbero potuto contrastare le sue mire, incapaci di qualunque resistenza; lo preoccupava molto di più l’URSS, che, data anche la contiguità alla Polonia, poteva portare un aiuto immediato allo Stato che divideva la Russia dalla Germania. Per questo nell’agosto del 1939 Hitler firmò con Stalin un patto di non aggressione (detto patto Ribbentrop-Molotov, dal nome dei due primi ministri tedesco e sovietico), che prevedeva che le regioni perse dalla Russia nel 1917-1918 sarebbero state in gran parte restituite all’URSS, la quale in compenso non sarebbe intervenuta contro la Germania.

La firma del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin del 1939, con i primi ministri Ribbentrop (a sinistra) e Molotov (seduto) alla presenza di Stalin

Hitler attaccò la Polonia il 1 settembre 1939; il 3 settembre Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania; il 5 Usa e Giappone proclamarono la propria neutralità. Ebbe così inizio la Seconda guerra mondiale, il conflitto con il numero maggiore di vittime mai combattuto nella storia dell’umanità.

In una strada di Londra un uomo vende l’edizione straordinaria di un quotidiano con la notizia della dichiarazione di guerra inglese alla Germania (settembre 1939)

I tedeschi effettuavano azioni molto rapide ed efficaci, utilizzando tutte le forze disponibili ed in particolare quelle aeree: i bombardamenti costringevano l’esercito nemico a ritirarsi, rendendo così possibile una rapida avanzata delle truppe e dei mezzi corazzati. Questa tecnica militare, detta guerra-lampo, permise alla Germania di conquistare gran parte dell’Europa senza affrontare una lunga guerra, che non sarebbe stata in grado di sostenere da un punto di vista economico e materiale.
Una guerra di logoramento (il contrario della guerra-lampo) non avrebbe permesso a Hitler di affrontare un nemico che poteva contare sul possesso di molte materie prime necessarie ad alimentare il conflitto: il carbone per la produzione industriale; la benzina per i trasporti; il cotone per gli esplosivi; la lana, il ferro, la gomma, il rame, il nichel, il piombo, la glicerina, la cellulosa, il mercurio, il platino, il manganese, l’acido nitrico, lo zolfo per le armi e le munizioni.
Di qui la necessità per la Germania di fare in fretta: l’esercito tedesco conquistò la Polonia in poche settimane (settembre-ottobre 1939), malgrado la disperata resistenza polacca; poi invase la Danimarca e la Norvegia (aprile 1940).

Soldati tedeschi divelgono le sbarre al confine tedesco-polacco dopo l’invasione della Polonia

Nel frattempo l’URSS, che aveva chiesto alla Finlandia la cessione dell’istmo di Carelia come punto strategico contro la Germania e ne aveva ricevuto un diniego, dichiarò guerra allo stato scandinavo, sconfiggendolo nel marzo 1940.
Ora Hitler poteva occuparsi del fronte occidentale, dove Francia e Inghilterra non erano riuscite a trovare un vero intento offensivo antitedesco: consideravano ancora possibile arrivare ad una “pace” con Hitler, magari a spese dell’URSS, verso la quale il sentimento anticomunista era più forte di quello antinazista. Il 10 maggio 1940 l’esercito tedesco invase il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, violando, come era successo con la Prima guerra mondiale, la neutralità di questi stati; entro giugno l’esercito francese venne sconfitto, con una guerra-lampo che aveva portato le divisioni della Wehrmacht ad entrare in Francia attraverso le Ardenne e a bloccare il nemico, chiudendolo in una sacca lungo il Canale della Manica.

Un medico della Wehrmacht (le forze armate tedesche) soccorre un ferito in Francia nel giugno 1940

Il 22 giugno la Francia dovette firmare l’armistizio, che prevedeva il passaggio sotto il controllo tedesco dei tre quinti del territorio francese, con le spese dell’occupazione interamente a carico degli sconfitti; inoltre, un milione e mezzo di prigionieri di guerra vennero trattenuti come pegno nei campi di lavoro in Germania. La Francia centromeridionale, con capitale Vicky e un governo guidato dal maresciallo Pétain, rimaneva “indipendente”, ma collaborazionista: in pratica, alleata della Germania.

Carta della Francia durante la seconda guerra mondiale

Il successo tedesco fu tanto rapido che la guerra sembrò sul punto di finire. L’Italia si trovava in condizioni di inferiorità rispetto all’alleato tedesco: non aveva scorte militari sufficienti, le armi leggere e le mitragliatrici in dotazione all’esercito erano ancora quelle del Primo conflitto, i carri pesanti e gli aerei erano pochi e tecnologicamente superati; solo la marina era decentemente efficiente, però pativa la mancanza di un coordinamento con l’aviazione. Mussolini, che inizialmente aveva dichiarato di non poter permettersi una guerra prima del 1943, si sentì obbligato a intervenire, se non voleva rimanere escluso da qualsiasi conquista territoriale: il 10 giugno 1940 dichiarò guerra alla Francia e la prima operazione bellica avvenne tra il 21 e il 24 giugno, con quella ingloriosa «guerra dei tre giorni», che portò le truppe italiane ad attaccare senza esiti brillanti un esercito francese già sconfitto dai tedeschi: un’esigua striscia di territorio francese (fino a Mentone) passò all’Italia, che perse in quei tre giorni 59 ufficiali e 572 soldati, mentre altri 4.600 soldati rimasero feriti o congelati.

Soldati italiani

Nell’estate 1940 scoppiava la guerra in Africa e l’Italia, che vi partecipò con un’assoluta impreparazione militare, venne sconfitta dagli Inglesi, perdendo 140.000 uomini. In ottobre Mussolini lanciò un attacco contro la Grecia muovendo dall’Albania, ma anche qui senza ottenere risultati positivi e dimostrando che per l’Italia la guerra-lampo era impraticabile. La Germania intervenne occupando la Iugoslavia e la Grecia (aprile 1941): l’Italia ottenne l’annessione della Slovenia e un protettorato sul Montenegro, venne creato un Regno di Croazia affidato al ramo cadetto dei Savoia, gli Aosta, e la Grecia fu sottoposta a un regime congiunto, italo-tedesco, di occupazione militare.

La bandiera nazista viene issata sull’Acropoli di Atene nel 1941

Mentre l’esercito tedesco dilagava in Europa, solo l’Inghilterra resisteva. La guerra aerea tra l’Inghilterra e la Germania (i previsti piani di sbarco tedesco nell’isola non diventarono mai operativi, poiché la marina inglese non perse mai il dominio del mare) si ampliò nel luglio con i bombardamenti sulle città inglesi, Londra compresa, fino alla distruzione in novembre di Coventry e di Birmingham (dal massiccio bombardamento che rase al suolo Coventry, è derivato il termine “coventrizzare”, col significato appunto di distruggere totalmente mediante bombardamento aereo).

Il primo ministro inglese Winston Churchill tra le rovine della cattedrale di Coventry nel 1941

Gli inglesi, isolati e costretti alla difensiva, non erano in grado di fermare l’avanzata tedesca in Europa: dopo una serie di accordi diplomatici che Hitler firmò con la Bulgaria, la Romania e l’Ungheria (che divennero suoi «Stati satelliti»), nell’estate del 1941 la Germania controllava quasi tutta l’Europa e poteva perciò dare il via al «piano Barbarossa» contro l’URSS.
L’accordo con l’Unione Sovietica, che era servito alla Germania nazista per poter invadere la Polonia senza il rischio di un intervento sovietico, non poteva durare: i progetti di espansione di Hitler non potevano essere realizzati senza sconfiggere l’URSS. Da una parte il governo sovietico non poteva accettare un’ulteriore espansione della Germania ad oriente, dall’altra per Hitler quelle terre erano uno spazio vitale, necessario alla popolazione tedesca in crescita: i popoli slavi, considerati inferiori, sarebbero stati ridotti in schiavitù, trasferiti altrove o sterminati.
Perciò nel giugno 1941 la Germania invase l’Unione Sovietica, contando di vincere rapidamente. Tre milioni di uomini attaccarono l’URSS lungo tre direttrici: in Ucraina, sul Baltico e direttamente verso Mosca. In un primo tempo l’avanzata fu rapida, tanto che i Tedeschi riuscirono a strappare ai Russi il 36% dei loro territori coltivati, il 33% della produzione agricola, il 55% del carbone, il 60% del ferro e dell’acciaio. Ma quando arrivò l’inverno, che rendeva difficili i collegamenti e le operazioni militari, i tedeschi dovettero fermarsi e nel dicembre l’esercito russo contrattaccò. La guerra-lampo si trasformò in una guerra di logoramento.

Soldati tedeschi sul confine russo nel giugno 1941

Il governo fascista mandò un corpo di alpini in appoggio alle truppe tedesche in URSS: essi si trovarono a combattere nelle grande pianura russa, un ambiente del tutto diverso dalle montagne in cui erano stati addestrati a muoversi. La sorte di queste truppe fu drammatica: circa metà dei 220.000 uomini inviati da Mussolini non fece ritorno a casa.

Soldati italiani in ritirata nel gelo dell’inverno russo (1943)

Nel dicembre del 1941 si verificò anche un altro avvenimento decisivo: l’ingresso in guerra del Giappone, a cui seguì quello degli Stati Uniti. Il Giappone aveva iniziato da tempo la sua espansione in Asia, sostenuta sia dai governi ancorati al culto nipponico per il passato e a una politica antioccidentale (espressa dallo slogan «l’Asia agli asiatici»), sia da gruppi industriali e finanziari aggressivi, potenti e moderni. Nel 1937 c’era stata l’aggressione alla Cina; nel 1940 l’occupazione dell’Indocina francese; nel luglio 1941 quella dell’Indonesia meridionale. Il primo dicembre 1941 il governo giapponese decise di attaccare gli Stati Uniti, cosa che avvenne il 7 dicembre, quando l’aviazione nipponica attaccò di sorpresa la flotta statunitense all’ancora nel porto di Pearl Harbor (nelle Hawaii): tutte le 88 navi statunitensi vennero colpite, 230 aerei distrutti, più di 4.000 uomini uccisi. Immediato fu l’ingresso in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone e poi la Germania.

Navi della marina statunitense colpite dai Giapponesi a Pearl Harbor

Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti la guerra continuò ancora per quasi quattro anni: ci volle infatti molto tempo prima che gli Stati Uniti si armassero, e inizialmente gli aerei e i sottomarini tedeschi riuscirono a ostacolare le comunicazioni tra Stati Uniti e Inghilterra, rallentando l’arrivo degli aiuti statunitensi. Perciò per alcuni anni gran parte dell’Europa rimase sotto occupazione tedesca, come pure parte dell’Africa settentrionale (1941-1942).
In Asia il Giappone colse altri spettacolari successi: conquistò, in seguito a bombardamenti aerei e a invasioni terrestri, Hong Kong e la Tailandia, poi Manila nelle Filippine, Singapore, la Malesia, la Birmania, Giava, Sumatra. Dalla Birmania i Giapponesi premevano verso l’India e dalla Nuova Guinea minacciavano l’Australia.
La guerra iniziata nel 1939 era divenuta nuovamente, come 25 anni prima, una guerra mondiale.

Un bombardiere americano sorvola una postazione giapponese nel 1943