ASIA E AFRICA NELLA PRIMA METÀ DEL ‘900
Nella prima metà del XX secolo
l’Asia e l’Africa subirono profondi cambiamenti. La Prima guerra mondiale, in
particolare, con la sconfitta della Germania e dell’Impero Ottomano, determinò
un nuovo assetto nelle numerose colonie appartenute ai due imperi sconfitti.
In particolare vale la pena
ricordare l’istituzione del «mandato»
fatta dalla Società delle Nazioni: nell’articolo 22, con cui la Società delle
Nazioni venne istituita, si dichiarò che le colonie e i territori che erano
appartenuti alla Germania e alla Turchia e che erano abitati da popoli non
ancora in grado di governarsi da sé, dovevano affidarsi alla tutela di nazioni
«progredite», che avrebbero esercitato tale tutela in nome della Società delle
Nazioni (o come “mandatarie” della Società stessa).
Il grado di autorità e la forma di amministrazione
esercitati dal mandatario erano esplicitamente determinati dalla Società delle
Nazioni, che definì tre tipi di mandato, chiamati A, B e C.
Il mandato di tipo A riguardava i Paesi arabi già
appartenenti all’Impero ottomano, che avevano raggiunto un grado di sviluppo
tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti poteva essere
provvisoriamente riconosciuta, salvo l’assistenza amministrativa di una potenza
mandataria (in sostanza Francia e Gran Bretagna).
Il mandato di tipo B riguardava le ex-colonie tedesche in
Africa, ritenute incapaci di governarsi da sole. L’amministrazione dello Stato
mandatario doveva garantire alle popolazioni indigene i diritti fondamentali
dell’uomo e assicurare contemporaneamente agli Stati aderenti alla Società
delle Nazioni uguali vantaggi per il commercio con questi Paesi.
Il mandato di tipo C si applicava a territori dell’Africa
del sud-ovest e del Pacifico australe (anch’essi ex-colonie tedesche) con
popolazione scarsa e dispersa; questi territori venivano affidati a potenze
mandatarie, che le potevano considerare come parte integrante del proprio
territorio e le avrebbero amministrate nel rispetto dei diritti fondamentali
delle popolazioni indigene.
Una pagina del
trattato costitutivo della Società delle Nazioni in cui si parla dei mandati e
una foto del primo incontro della Società il 15 novembre 1920 a Ginevra
L’AFRICA ARABA
I territori dell’Africa
settentrionale, uniti dalla comune religione islamica, erano dominati dalla
Francia, dalla Gran Bretagna, dall’Italia e dalla Spagna. Ma in questi
territori vi erano numerose zone non ancora «pacificate», cioè non completamente controllate dagli Stati
europei: in queste zone scoppiavano di continuo insurrezioni, che venivano
sistematicamente represse con la forza (in Marocco, in Libia, in Egitto). Se
l’uso della forza da parte degli europei riusciva a stroncare le rivolte
locali, il malcontento tra la popolazione, che viveva generalmente in
condizioni miserevoli, era molto diffuso.
In tutta l’Africa settentrionale nacquero movimenti
indipendentisti, o favorevoli ad una certa autonomia, ispirati da partiti
nazionalisti o anche da comunisti, capaci in misura minore o maggiore di trovare
adesioni tra la popolazione. In Egitto l’indipendenza venne proclamata nel
1922, ma il controllo inglese sulle terre lungo il Nilo durò fino al 1936.
Partigiani della
Guerra del Rif in Marocco nel 1925
IL MEDIO ORIENTE
Nel Medio Oriente la situazione
era ancor più complessa, perché accanto ai musulmani, che costituivano la
grande maggioranza della popolazione, vi erano numerose minoranze religiose ed
etniche (cristiani cattolici e ortodossi, nestoriani e maroniti, Greci e
Armeni, e così via); gli stessi musulmani erano divisi tra sunniti, sciiti e
altri gruppi minori, per non parlare dei Curdi, che erano musulmani sunniti, ma
non erano Arabi e parlavano una lingua vicina al persiano.
La società era poi fortemente
diversa, e in contrasto: vi era una borghesia colta e intraprendente, un
proletariato urbano per lo più disoccupato e numerose tribù del deserto, nomadi
e guerriere.
La politica applicata dai Paesi
europei in questa zona fu, infine, particolarmente contradditoria, poiché da
una parte sembravano favorevoli alla nascita di Stati arabi indipendenti,
dall’altra, attraverso il sistema dei mandati, Francia e Inghilterra si
spartirono la regione; alla Francia andarono la Siria e il Libano,
all’Inghilterra l’Iraq, la Transgiordania e la Palestina.
Anche qui ci furono rivolte, in
particolare in Siria dal 1925 al 1927, mentre altrove si formarono Stati
apparentemente indipendenti (come l’Iraq), nei quali però l’indipendenza era
illusoria, dato che i Paesi europei si riservarono il diritto di mantenere in
questa regione truppe e basi aeree.
Un sultano arabo con ufficiali inglesi all’inizio del ‘900
Il caso più complicato fu quello
della Palestina: essa era considerata dagli ebrei la terra che Dio aveva promesso
loro, anche se da molti secoli la quasi totalità della popolazione era araba e
gli ebrei presenti in Palestina erano una piccola minoranza.
L’antisemitismo che alla fine
dell’Ottocento era ancora presente in Europa, soprattutto in quella dell’Est,
spinse molti ebrei a lasciare l’Europa orientale per trasferirsi in quella
occidentale (dove le leggi che discriminavano gli ebrei erano state abolite), o
negli Stati Uniti d’America, o anche, in numero minore, in Palestina. Era
infatti nato un movimento politico, chiamato sionismo (dal nome Sion, una
collina di Gerusalemme), che sosteneva la necessità di creare uno Stato ebraico
in Palestina, in cui gli ebrei potessero vivere in pace; il fenomeno
dell’emigrazione degli ebrei in Palestina ricevette un notevole impulso a
partire dal 1901, quando venne creato il Fondo nazionale ebraico, che aveva lo
scopo di raccogliere i fondi per l’acquisto di terre in Palestina.
Nel 1917 la Palestina venne
occupata dagli Inglesi e quindi affidata all’Inghilterra dalla Società delle
Nazioni nel 1922. Nel 1917 l’Inghilterra si era impegnata con la dichiarazione
di Balfour a permettere che gli ebrei si insediassero in Palestina, creandovi
un proprio Stato.
Dopo la Prima guerra mondiale e
in particolare dopo il 1929, l’aggravarsi dell’antisemitismo spinse molti ebrei
a trasferirsi in Palestina: le comunità ebraiche nel mondo raccolsero denaro
per finanziare l’acquisto di terreno dai grandi proprietari arabi. Ciò portò a
una massiccia emigrazione ebraica in Palestina, dove si crearono forti tensioni
con gli arabi, che costituivano la maggioranza della popolazione e che si
videro scacciati dai nuovi arrivati: nel 1929 e nel 1936-1939 scoppiarono due
rivolte, che vennero represse dagli Inglesi.
Sfilata araba antiebraica a Gerusalemme nel 1920
L’INDIA
L’India era la più estesa colonia
del mondo, con una popolazione nel 1921 di 319 milioni di abitanti; il
territorio del subcontinente indiano era stato diviso, dopo la rivolta dei sepoys del 1857 (vedi lezione 76), in
India inglese, con lo status di colonia, e in centinaia di staterelli vassalli.
Il dominio inglese continuava a
provocare malcontento e proteste, mentre lo sfruttamento impoveriva il Paese:
gli Inglesi rifiutavano di proteggere l’industria indiana nascente con barriere
doganali, per paura che l’industria britannica potesse soffrirne.
Nel 1885 era nato il Partito del
Congresso, che puntava ad ottenere lo statuto di dominion, cioè di territorio autonomo, ma fedele alla corona
britannica: era una prima forma di rivendicazione dell’indipendenza, che però
rimase estranea al 90% della popolazione.
La Prima guerra mondiale diede un
forte impulso al movimento nazionale indiano: 800.000 volontari indiani si
arruolarono e combatterono a fianco degli Inglesi in Europa. Al termine del
conflitto l’India si aspettava qualche riconoscimento, che però non ci fu.
Un colonnello inglese con ufficiali britannici e indiani a fine ‘800
Tra le due guerre la lotta per
l’indipendenza fu guidata soprattutto da Gandhi, chiamato il Mahatma (grande anima). Come molti indiani di
famiglia ricca, Mohandas Karamchand Gandhi studiò in Inghilterra, dove divenne
avvocato. Si recò poi in Sudafrica per conto di una compagnia indiana: qui
vivevano numerosi indiani, fatti arrivare dagli Inglesi e dai boeri (= i discendenti
degli Olandesi nell’Africa meridionale) per lavorare nelle fattorie e Gandhi,
constatando le condizioni discriminatorie in cui lavoravano, si batté in loro
favore. In Sudafrica cominciò a sviluppare la teoria dell’azione non-violenta:
egli si proponeva di rifiutare con tenacia ogni ingiustizia, ma senza ricorrere
mai all’uso della violenza e rendendo pubbliche le proprie azioni. Egli chiamò
questo modo di procedere satyagraha,
che vuol dire «forza della
verità».
Gandhi in una foto
giovanile
Tornato in India nel 1914, visitò
il Paese, scoprendo l’immensa miseria dei villaggi e le devastazioni provocate
dal dominio inglese, e ciò lo spinse a entrare in politica. Nel 1916 difese i
coltivatori indiani sfruttati dai grandi proprietari inglesi, nel 1918 gli
operai tessili, che guidò negli scioperi da essi organizzati.
Cominciò allora a utilizzare il
digiuno come arma di lotta: rinunciava a nutrirsi fino a che coloro a cui si
opponeva non acconsentivano ad accogliere almeno in parte le sue richieste.
Al termine della guerra si
impegnò nella lotta per l’indipendenza dell’India, proponendo la
non-cooperazione: egli sosteneva la necessità di non collaborare in alcun modo
con gli oppressori inglesi, rifiutandone le leggi ingiuste. Questa
“disobbedienza civile”, come venne anche chiamata, lo spinse ad una serie di
azioni, alle quali il governo inglese rispose con severe misure di repressione,
culminate nel 1919 con il massacro di Amritsar, che provocò 379 morti.
Gandhi riteneva anche
indispensabile che gli indiani ritornassero alle loro tradizioni, rifiutando
gli abiti e le usanze occidentali, ed egli stesso cominciò a fare uso del
filatoio a mano per produrre il filo con cui realizzare i propri abiti:
l’immagine di Gandhi, vestito con un panno bianco e seduto a filare, divenne
celebre in tutto il mondo.
Gandhi mentre fila all’arcolaio alla fine degli anni Venti
Nel 1920 tornò a guidare, come
presidente del Congresso nazionale indiano, il movimento indipendentista, ma
nuove violenze, delle quali si assunse la responsabilità, portarono al suo
arresto e a una condanna a sei anni di carcere (scontata solo parzialmente, a
causa delle sue condizioni di salute).
Una nuova campagna di
disobbedienza civile venne organizzata nel 1930 e si aprì con la marcia del sale,
con cui Gandhi sfidò il monopolio inglese del sale in India, guidando un gruppo
di indiani, via via più numerosi, a raccogliere il sale sulle rive del mare
Arabico. Interruppe però le manifestazioni quando si verificarono episodi di
violenza contro gli Inglesi o tra musulmani e induisti. Gli Inglesi lo
imprigionarono più volte, ma non riuscirono a fermare il movimento per
l’indipendenza.
Gandhi si occupò anche dei
problemi sociali dell’India e in particolare della situazione degli
intoccabili, cioè di coloro che erano al di fuori del sistema sociale indiano
ed erano vittime di ogni tipo di discriminazione: egli li ribattezzò “harijan”,
cioè “figli di Dio” e subordinò l’obiettivo dell’indipendenza dell’India al
riscatto di questa parte della popolazione.
La Seconda guerra mondiale
congelò in parte la situazione politica: il Congresso indiano offrì al viceré
la collaborazione del popolo indiano, a patto che la Gran Bretagna concedesse
l’indipendenza; la proposta venne respinta e una nuova campagna di disobbedienza
civile venne organizzata nel 1940, portando di nuovo all’arresto di Gandhi e
dei capi del Congresso.
Dopo la guerra il processo che
avrebbe portato all’indipendenza cominciò con spaventosi scontri fra induisti e
musulmani; l’indipendenza, ottenuta nel 1947, non mise fine alle violenze e
portò alla divisione tra India (a maggioranza induista) e Pakistan (a
maggioranza musulmana). Gandhi si recò allora a Calcutta, in una regione dove
induisti e musulmani erano molto numerosi, e digiunò ancora, riuscendo a
riportare la pace tra le due comunità. Ritornò poi a Delhi, dove il 30 gennaio
1948 venne assassinato da un fanatico induista, che criticava la sua politica
di collaborazione con i musulmani.
Il cadavere di Gandhi
L’INDOCINA
Nella penisola Indocinese i Francesi
dominavano su un territorio composto da una colonia (la Cocincina, grande
produttrice di riso) e dai protettorati dell’Annam (su cui regnava ancora un
imperatore), del Tonchino (ricco di carbone, stagno e altri minerali), della
Cambogia e del Laos.
Malgrado nel periodo della Prima
guerra mondiale una gioventù locale assumesse sempre più uno stile di vita
occidentale (si formò una borghesia di medici, avvocati, insegnanti, funzionari
statali), i coloni francesi costituivano una società chiusa, con scarsi
contatti con gli indigeni e fortemente pervasa da uno spirito di superiorità
razziale. Inoltre, il reddito annuo dei civili europei era molto superiore a
quello della classe media indigena (5-6.000 piastre per i primi, 168 per i
secondi); ancora inferiore era quello dei contadini, che avevano tratto dalla
colonizzazione francese solo alcuni vantaggi: la pace, l’eliminazione del
brigantaggio e un certo miglioramento igienico, grazie alla lotta contro la
malaria e le epidemie.
Qualsiasi riforma politica venne
inceppata dalla Francia e gli intellettuali locali giunsero alla conclusione
che solo il ricorso alla forza avrebbe permesso qualche cambiamento: alcune
insurrezioni vennero organizzate nel 1930 dai due maggiori partiti locali, uno
nazionalista e uno comunista. Sebbene la repressione sia stata durissima, in
Indocina era avvenuto un fatto importante: il nazionalismo tradizionale e le
aspirazioni sociali del proletariato si erano saldati e solo lo scoppio della
Seconda guerra mondiale provocherà il rinvio della rivoluzione.
L’INDONESIA
Le Indie olandesi, o Indonesia,
erano dopo l’India la più ricca colonia al mondo: il commercio delle materie
prime e dei prodotti esotici provenienti dall’Indonesia arricchirono l’Olanda
in modo considerevole.
Fino all’inizio del Novecento il
colonialismo olandese ebbe delle caratteristiche particolari: i coloni non
avevano alcun contatto con le popolazioni indigene e trattavano per i loro
affari solo con l’aristocrazia locale, formata da vari sultani, reggenti e alti
magistrati: nelle più di 3.000 isole che formano l’Indonesia si erano
costituiti numerosi Stati locali (nel 1938 erano ben 269). Agli aristocratici i
coloni chiedevano la fornitura di alcuni prodotti; gli aristocratici a loro
volta esigevano dai contadini delle quantità di prodotti superiori a quelle
richieste dagli olandesi e si arricchivano grazie a queste eccedenze; inoltre,
a fare da collegamento tra nobili e contadini c’erano spesso i Cinesi, che in
più praticavano l’usura. In questo modo i contadini venivano sfruttati tre
volte (dagli Olandesi, dagli aristocratici e dai Cinesi) e vivevano nella
miseria. Solo al principio del Novecento alcune compagnie olandesi insediarono
delle piantagioni in Indonesia, favorendo un’amministrazione del territorio più
diretta e sviluppata.
Un gruppo di studenti di Giacarta e un contadino dell’isola di Sumatra
nel 1919
In tale situazione nel XX secolo
si svilupparono 3 diversi orientamenti politici miranti all’indipendenza:
- quello di matrice religiosa,
che si riconosceva nell’Islam, penetrato nel Paese fin dal Cinquecento e poi
diffusosi progressivamente;
- quello nato dal Partito
socialdemocratico fondato nel 1914 e dal quale nel 1920 era nato il Partito
comunista indonesiano, il quale organizzò una serie di sommosse represse
violentemente;
- quello di ispirazione laica,
che si raccoglieva attorno a studenti “occidentalizzati” sempre più numerosi.
Dal malcontento generale nacque
nel 1927 il Partito nazionale indonesiano, fondato da Sukarno, abile oratore e
diplomatico, influenzato dall’Islam ma libero da spirito chiesastico; egli nel
1928 riuscì a raggruppare in una federazione tutti i partiti politici
indonesiani, ma negli anni Trenta venne più volte arrestato. Nel 1939 i vari
partiti si riunirono in un congresso nazionale, che decise di adottare una
lingua, una bandiera e un inno nazionali e reclamò l’unità nazionale, un
parlamento liberamente eletto e il diritto all’autodeterminazione. La richiesta
di negoziati con il governo olandese non fu accolta, in seguito all’occupazione
dei Paesi Bassi da parte dei nazisti.
Akmed Sukarno, che nel 1945 divenne il primo presidente della
Repubblica di Indonesia
LA CINA E IL GIAPPONE
La Cina, dopo che la rivoluzione
del 1911 aveva messo fine al governo imperiale e instaurato la repubblica, si trovò
dilaniata dalla guerra civile tra i generali imperiali, detti “signori della
guerra”, e i due principali partiti: quello dei nazionalisti (Guomindang) guidato
da Chiang Kai-shek e quello comunista, il cui leader era Mao Tse-tung.
Della debolezza cinese scossa
dalla guerra approfittò il Giappone, che era lo Stato militarmente più forte ed
economicamente più sviluppato dell’Asia, ma che era stato duramente colpito
dalla crisi del 1929: come nel resto del mondo, anche in Giappone i prezzi
crollarono, le esportazioni si contrassero, imprese di ogni tipo e grandezza
fallirono, gli stipendi degli operai diminuirono, la disoccupazione aumentò e a
pagare il peso maggiore della crisi furono, come sempre, gli strati più poveri
del mondo rurale. In Giappone si formò così un governo autoritario che, alla
ricerca di nuovi mercati e di materie prime a basso costo, diede inizio a una
nuova fase di espansione: tra gli anni Trenta e il 1940 il Paese avanzò sempre
più in direzione della fascistizzazione e dell’aggressività internazionale:
- nel 1931 l’esercito giapponese
invase la Manciuria (nella Cina nord-orientale);
- nel 1932 il Giappone uscì dalla
Società delle Nazioni, poiché condannato proprio per l’aggressione in
Manciuria;
- nel 1936 si alleò con la
Germania (e nel 1937 con l’Italia) nel Patto anti-Komintern (contro cioè
l’Internazionale Comunista);
- nel 1937 attaccò la Cina,
occupando alcune tra le principali città (Shanghai, Canton, Nanchino);
- nel 1940 vennero sciolti i
partiti giapponesi;
- nel dicembre dello stesso anno
il bombardamento della flotta statunitense ancorata a Pearl Harbor, segnò
l’inizio della Guerra del Pacifico.
Un poster cinese antigiapponese
del 1930 circa
L’AFRICA NERA
L’Africa a sud del Sahara era un
mosaico complesso di lingue, di gruppi etnici, di generi di vita; nel complesso
le popolazioni africane erano organizzate in tribù, strutturate secondo
principi anarchici, o, al contrario, sottomesse a una rigida centralizzazione.
Fatta eccezione per l’Etiopia e
la Liberia, tutta l’Africa nera era colonizzata: era stata spartita dopo la
Prima guerra mondiale principalmente fra Inglesi, Francesi, Belgi e Portoghesi
(i territori appartenenti alla Germania erano divenuti dei mandati assegnati a
Gran Bretagna, Francia, Belgio e Unione Sudafricana).
Il colonialismo europeo non si
espresse tutto allo stesso modo; se i Francesi governavano i loro territori con
un apparente rispetto delle amministrazioni locali, ma in realtà in modo
diretto, gli Inglesi governavano indirettamente, decentrando i poteri e
affidandoli anche a indigeni. Se i Belgi praticavano di fatto la segregazione
tra bianchi e neri e consideravano gli indigeni come dei bambini incapaci di
intendere e di volere, cioè se praticavano un paternalismo a volte anche capace
di tutelare la popolazione nera (per esempio con la proibizione delle bevande
alcoliche, o affidando l’insegnamento in lingua locale alle missioni
cattoliche), i Portoghesi, che solo nel 1878 avevano soppresso la schiavitù
nelle colonie, consideravano le colonie (Angola e Mozambico erano le due
principali) come parte integrante del Portogallo e ogni decisione politica
veniva presa a Lisbona.
Le prime manifestazioni
nazionalistiche nell’Africa nera provennero quasi ovunque da coloro che avevano
studiato nelle università europee; questi giovani intellettuali colti, sognando
il futuro della loro nazione, se lo immaginavano come quello di uno Stato
moderno, largamente simile a quello che avevano visto con i propri occhi in
Europa. Ma la Seconda guerra mondiale bloccherà ovunque qualunque sogno dei
neri d’Africa.
Un missionario bianco con
bambini congolesi all’inizio del ‘900
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