Approfondimenti

giovedì 29 dicembre 2016

87 I fascismi in Europa tra le due guerre mondiali

I FASCISMI IN EUROPA TRA LE DUE GUERRE MONDIALI

Oltre a quello italiano di Mussolini e a quello tedesco di Hitler, altri fascismi nacquero e si diffusero in Europa nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Furono movimenti e partiti che ebbero, a volte, anche caratteristiche molto diverse nei vari Paesi, dato che, originandosi da un generale nazionalismo ottocentesco, ricevevano dalle proprie peculiarità nazionali elementi costitutivi specifici. Ma tutti si uniformavano per alcune somiglianze: l’anticapitalismo, l’antibolscevismo, l’antisemitismo.

I ritratti di Mussolini e di Hitler sopra i simboli dei loro regimi fascisti

Nella loro creazione fu fondamentale l’esperienza della Grande Guerra, che ebbe 4 conseguenze importanti:
1- la creazione di una nuova carta politica dell’Europa, con numerosi nuovi Stati, all’interno dei quali consistenti gruppi etnici (per esempio di tedeschi e di ungheresi) si vennero a trovare nella posizione di minoranze;

La carta politica dell’Europa dopo la Prima guerra mondiale

2- l’imposizione di democrazie parlamentari in Paesi non pronti ad accoglierle, soprattutto se avevano un’economia poco sviluppata, una numerosa popolazione contadina, un forte analfabetismo e tradizioni che assegnavano l’esercizio dell’autorità a ristretti gruppi di aristocratici, di capi militari e di burocrati di professione;
3- la formazione di Stati deboli, incapaci di contrastare le minacce rivoluzionarie (vere o gonfiate) di stampo comunista;
4- il forte contrasto generazionale, che contrappose i giovani che in guerra avevano conosciuto il cameratismo delle trincee e della vita in comune, ai “vecchi” che mantenevano il potere tra divisioni e intolleranze sociali; i giovani, idealisti e impazienti, si volsero spontaneamente a quei movimenti – di destra o di sinistra – che promettevano loro una trasformazione radicale della società.

Giovani austriaci partecipano a un rogo di libri a Salisburgo nel 1938

La crisi economica incominciata nel 1929 contribuì notevolmente ad aggravare le tensioni interne in Europa e in tutto il mondo: operai e contadini, ridotti dalla depressione in condizioni di miseria estrema, richiedevano riforme sociali, che i proprietari, già danneggiati nei loro interessi dalla crisi, rifiutavano di accettare. La borghesia, spaventata dalle richieste popolari, reagì favorendo la formazione di movimenti fascisti o di governi dittatoriali.

La Grande Depressione in Francia

Vediamo di seguito cosa accadde nei diversi Paesi europei.

L’AUSTRIA
In Austria esistevano condizioni simili a quelle italiane e tedesche: sconfitta militare (ricordiamo che l’Italia, pur vincitrice, si sentiva sconfitta dai trattati di pace), crisi economica, disgregazione sociale, paralisi parlamentare dovuta al fatto che i tre maggiori raggruppamenti politici (socialisti, cattolici e conservatori) avevano un peso uguale, antimarxismo, nazionalismo frustrato e presenza di una consistente massa di ex-combattenti. In queste condizioni il Paese vide sorgere due organizzazioni rivali di destra: le Heimwehren e le formazioni naziste. Le prime ebbero un fortissimo sviluppo a partire dal 1927, puntando sui timori antisocialisti e organizzando attività contro gli scioperi, nonché ottenendo da Mussolini dei finanziamenti. Nel 1936 decaddero, prive di organizzazione e in disaccordo sull’ideologia, a vantaggio dei nazisti. Questi si organizzarono più lentamente che in Germania, ma avevano la stessa base sociale: piccola borghesia urbana (soprattutto impiegati pubblici) e un 25% di operai. Messo fuori legge nel 1933 da Kurt von Schuschnigg, cancelliere di un governo “semifascista” e moderatamente aggressivo, nonché fortemente antihitleriano, il Partito nazista austriaco si avvantaggiò dell’Anschluss che nel 1938 portò la Germania a occupare l’Austria.

Esponenti delle Heimwehren in parata a Vienna nel 1933: al centro vi è il cancelliere Dollfus, amico personale di Mussolini

L’UNGHERIA
A differenza dell’Austria, in Ungheria non esisteva una forte classe operaia: la società era di tipo quasi feudale, con vaste proprietà fondiarie, contadini che vivevano in condizioni servili e un personale dirigente di estrazione nobiliare. Per tutto il periodo tra le due guerre l’Ungheria fu governata da un regime moderatamente autoritario e contrario a ogni cambiamento, che però si fece influenzare notevolmente dai movimenti fascisti locali (in Ungheria più numerosi e variegati che in qualunque Paese europeo): ad esempio con leggi antisemite e con azioni squadristiche delle cosiddette «croci frecciate» nelle regioni di confine.
Il fascismo ungherese era sostenuto soprattutto da ex-funzionari e ufficiali di estrazione nobiliare, che si erano rifugiati in Ungheria essendosi trovati a vivere nei nuovi Stati creati dopo la guerra, all’interno dei quali costituivano una minoranza.
Il più cospicuo esponente dell’ideologia fascista fu proprio un ufficiale di carriera, Gyula Gömbös, che fondò un partito con lo scopo di difendere la «razza magiara» e divenne nel 1932 Primo ministro del suo Paese: egli si dichiarava seguace dell’Italia e della Germania.

Mussolini e Gömbös nel 1934

Un certo peso ebbe anche il partito delle «croci ferrate» di Ferenc Szálasi, il quale voleva creare una grande patria carpato-danubiana sotto il dominio “civilizzatore” dei magiari. Pur facendo presa su una massa interclassista (dall’aristocrazia tradizionalista agli ufficiali militari, dai burocrati agli artigiani, dai piccoli commercianti agli operai), le «croci frecciate» non riuscirono a impadronirsi del potere, salvo quando vi furono installate per breve tempo da Hitler nel 1944.

Ferenc Szálasi nel 1944

I PAESI BALCANICI
Negli anni Trenta negli Stati balcanici si assistette al fallimento totale della democrazia parlamentare, sostituita con dittature monarchiche di destra: avvenne in Jugoslavia (1929-1939), in Albania (1928-1939), in Romania (1938-1940), in Bulgaria (1935-1943), in Grecia (1936-1941). Tutti questi Stati erano caratterizzati dal forte predominio dell’economia agricola e dall’esiguità delle classi medie urbane, che si erano sviluppate in ritardo, avvantaggiando gli ebrei nel commercio, nella finanza e nell’industria: nei confronti degli ebrei vi era un radicato antisemitismo.
In Bulgaria e in Grecia il nazionalismo non assunse forme aggressive, però in entrambi i Paesi si creò un regime militare e autoritario che adottò forme esteriori di fascismo: ad esempio in Grecia ci fu un movimento giovanile che si esprimeva con grida di saluto e aveva adottato l’emblema della doppia scure cretese.
In Jugoslavia e in Romania vi erano consistenti minoranze etniche: in Jugoslavia il 54% della popolazione era costituito da Croati, Sloveni, Bulgari e Albanesi; in Romania Magiari, ebrei, Ucraini e Tedeschi rappresentavano il 24% della popolazione. La presenza di tali minoranze favorì il formarsi di movimenti fascisti, soprattutto dopo il 1933, in seguito alla depressione economica, mentre gli altri partiti (contadini o cattolici) si fascistizzarono per l’impulso dei regimi italiano e tedesco.
In Croazia nel 1929 si formò un movimento ustascia per opera di Ante Pavelić, che con metodi squadristi voleva coordinare la resistenza croata contro il regime autoritario imposto quell’anno dal re Alessandro. Protetti dall’Italia, dalla Germania e dall’Ungheria, che offrirono basi di addestramento, gruppi ustascia assassinarono nel 1934 re Alessandro a Marsiglia.

Ante Pavelić (a sinistra) e re Alessandro I di Jugoslavia

Malgrado l’efficienza terroristica, Ustascia non riuscì ad allargare in Croazia il suo influsso al di fuori dei circoli urbani di studenti e di intellettuali, perché il Partito contadino croato restava forte nelle campagne. Soltanto nel 1941, in seguito all’occupazione nazifascista, gli ustascia giunsero al potere nello Stato Croato che venne creato in quell’occasione, scorporandolo dall’Jugoslavia.
In Romania il fascismo fu diverso che nel resto dei Balcani: era il fascismo di una maggioranza nazionale, anziché di una minoranza, e non doveva nulla né al fascismo italiano, né a quello tedesco, pur avendo in comune con essi il nazionalismo xenofobo, l’antisemitismo e l’antibolscevismo. Si caratterizzò per un fervore religioso, che portò alla costituzione della legione di Michele Arcangelo, concepita come un austero ordine religioso, a cui aderirono soprattutto studenti, che praticava una specie di mistico recupero del cristianesimo ortodosso, prima che esse venisse occidentalizzato. Numerosi legionari, tra cui il loro capo Corneliu Zelia Codreanu, vennero uccisi nel 1938, dopo che avevano assassinato vari dirigenti del Partito contadino, che aveva la maggioranza. Perseguitati da re Carol dopo un colpo di stato del 1938, essi praticarono un terrorismo continuo, giunsero al potere nel 1940, ma furono poi soppressi con il consenso di Hitler.

Alcuni legionari di Michele Arcangelo (al centro, Corneliu Zelia Codreanu)


LA CECOSLOVACCHIA
In Cecoslovacchia, Paese più industrializzato degli altri, la democrazia rimase in vigore fino al 1938. Anche qui, però, vi erano forti minoranze etniche: il 54% era costituito da Slovacchi, Tedeschi, Magiari, Ucraini, Polacchi ed ebrei. In Cecoslovacchia esisteva il Partito del popolo slovacco, nazionale-populista, dominato dal clero cattolico, conservatore e autoritario, sostenuto ampiamente dal popolo: l’ala destra del partito portò lo stesso alla fascistizzazione, così come avvenne alla minoranza tedesca che, dopo la crisi del 1929, appoggiò massicciamente il Partito nazista dei Sudeti.

I PAESI BALTICI
Gli Stati del Baltico orientale furono caratterizzati più che dal fascismo da regimi autoritari. Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia erano tutte nate dopo la Prima guerra mondiale: al loro interno vi erano minoranze etniche e tutte avevano subito la minaccia concreta del comunismo russo negli anni 1918-1921.
Nella cattolica Lituania nel 1926 vi fu un colpo di mano militare che portò Antanas Smetona (già precedentemente presidente del Paese) a instaurare un regime che negli anni Trenta divenne a partito unico.

Antanas Smetona

Nella protestante Estonia, di fronte alla minaccia fascista di un gruppo di ex-combattenti, si ebbe un colpo di stato, che instaurò un regime moderatamente autoritario, mantenendo comunque in vita un Parlamento.
In Lettonia, anch’essa protestante, si ebbe un analogo colpo di stato, rivolto sia contro i comunisti, sia contro un’organizzazione (le «croci tonanti») di ispirazione nazista.
Nei tre Paesi baltici il timore del potente vicino germanico era assai forte.
Lo stesso accadeva in Polonia, dove al sentimento antitedesco si aggiunse anche quello antirusso. Anche quando nella seconda metà degli anni Trenta l’influenza nazista aumentò di forza nel Paese, i fascisti polacchi rimasero visceralmente antitedeschi, resistendo attivamente all’invasione nazista del 1939. Ma in Polonia i movimenti fascisti rimasero marginali, per la presenza di un regime autoritario, quello del maresciallo Piłsudski, che divenne ancora più repressivo alla morte del militare (1935).

Il maresciallo Józef Piłsudski

In Finlandia nelle elezioni del 1929 i comunisti guadagnarono voti e ciò provocò un’esplosione di violenza anticomunista fra gli agricoltori ricchi e le guardie civili (organizzazioni paramilitari con compiti di protezione e vigilanza). Nello stesso anno la crisi economica mondiale spinse il movimento fascista Lapua a organizzarsi in vari modi, fino al tentativo di colpo di stato militare del 1932, che però fallì. Nacque allora un altro movimento fascista (IKL) che nel 1936 ottenne l’8,3% dei voti e aveva tra i dirigenti molti ecclesiastici; ma subito dopo iniziò il suo declino, sia in seguito alla ripresa economica, sia perché il sistema parlamentare finlandese seppe coinvolgere i partiti politici e la popolazione contro i pericoli di un movimento che stava assomigliando sempre di più a quello nazista.

L’EUROPA OCCIDENTALE
Se, in conclusione, si può dire che nell’Europa orientale il fascismo fallì perché nei vari Paesi si instaurarono regimi autoritari meno radicali (i quali, pur avendo un consenso sociale analogo a quello dei fascisti, seppero mantenere il potere, a volte anche contro la minaccia fascista), nell’Europa occidentale, invece, fallì perché la democrazia, l’economia e la cultura costituivano un elemento di aggregazione molto forte per la popolazione, tale da fronteggiare le proposte di un cambiamento radicale predicate dai fascisti.
Solo in Irlanda, in Belgio e soprattutto in Spagna e in Portogallo queste condizioni non prevalsero. In Irlanda vi erano condizioni favorevoli al fascismo, ma esso rimase un movimento protestatario di agricoltori (le «camicie azzurre» di Eoin O’Duffy): il nazionalismo irlandese era stato soddisfatto dall’indipendenza raggiunta nel 1922 ed aveva nella Chiesa cattolica un elemento culturale molto forte.

Eoin O’Duffy con alcuni membri delle camicie azzurre negli anni Trenta

In Belgio nacquero numerosi movimenti fascistoidi, che puntavano sul nazionalismo fiammingo, violentemente antifrancofono, e cavalcarono le spettro della depressione economica, ma furono tutti destinati al fallimento, poiché i partiti politici democratici seppero trovare l’unità, in un Paese fortemente industrializzato, con un alto livello di istruzione e di sviluppo.
Negli altri Stati occidentali (Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Norvegia, Svizzera, Gran Bretagna) il fascismo rimase ai margini, ottenendo l’adesione di poche migliaia di persone, per lo più giovani. Inoltre in questi Paesi i movimenti fascisti sorsero troppo tardi (generalmente dopo il 1933) per poter cavalcare gli scontenti popolari derivati dalla Grande Depressione.
In Francia il fascismo si caratterizzò per l’adesione ad esso di intellettuali di alto livello e per alcuni aspetti vistosi, quali il terrorismo dell’organizzazione la Cagoule, che assassinò nel 1937 i fratelli Carlo e Nello Rosselli, dietro mandato del governo italiano. Ma anche in Francia, dopo aver esercitato una certa attrazione sui giovani, sugli intellettuali delusi sia di sinistra sia di destra, sui piccoli commercianti e agricoltori, non fu in grado di consolidare il consenso di fronte all’organizzarsi dei partiti politici democratici.

Quattro cagoulards e (a destra) i fratelli Rosselli

Il Portogallo e la Spagna erano differenti dal resto dell’Europa occidentale: avevano una maggiore arretratezza economica, il potere era nelle mani di grandi proprietari terrieri e della Chiesa, l’esercito interferiva nella vita politica e i partiti di massa si erano diffusi in ritardo. Entrambi gli Stati, inoltre, avevano sperimentato anche prima dittature autoritarie, per lo più militari.
In Portogallo António Salazar istituzionalizzò la dittatura militare già esistente, instaurando nel 1933 uno Stato corporativo, autoritario e rigorosamente cattolico.
In Spagna fascisti e antifascisti si scontrarono nella guerra civile (vedi prossima lezione): la vittoria di Francisco Franco permise alla sua dittatura di restare al potere della Spagna fino alla sua morte (1975).
Gli storici si sono chiesti se i regimi portoghese e spagnolo furono effettivamente fascisti: sia Salazar sia Franco si affrettarono (dopo il 1945!) a prendere le distanze dal fascismo; ma fino alla Seconda guerra mondiale è indubbio che entrambi adottarono stili fascisti (la milizia, i movimenti giovanili, il controllo della cultura popolare) e si appoggiarono ai tradizionali detentori dell’autorità (la Chiesa, l’esercito, i proprietari terrieri, gli industriali). Diversamente, i due Paesi non adottarono una politica estera aggressiva e non usarono il partito come strumento di mobilitazione.
Per questo (e per altre ragioni) Spagna e Portogallo vengono definiti pienamente fascisti da alcuni, semplicemente autoritari da altri.

Falangisti a San Sebastián nel 1936





mercoledì 28 dicembre 2016

86 Il nazismo

IL NAZISMO

Sconfitta nella Prima guerra mondiale, la Germania era diventata una Repubblica nel 1918, in seguito all’abdicazione del kaiser Guglielmo II e a una rivoluzione socialista: fu la cosiddetta Repubblica di Weimar. Il Paese, costretto a pagare una somma enorme come riparazioni di guerra, si trovò colpito da una crisi economica difficilissima, che portò a un’inflazione galoppante: il marco tedesco perse completamente di valore, come rivelano le cifre seguenti sul valore di un dollaro rispetto al marco:


L’inflazione portò alla miseria tutti i salariati tedeschi e gran parte della classe media. Ovunque in Germania vi erano ex combattenti, disoccupati ed esaltati da quattro anni di violenza, pronti ad ogni colpo di mano, pur di vendicare l’offesa subita dal loro Paese.

In questa foto del periodo della grande inflazione in Germania il cartello dice: “Si vende e si ripara in cambio di cibo”

Uno di essi era un ex caporale, ferito tre volte durante la Grande Guerra: Adolf Hitler.
Nato a Braunau, in Austria, il 20 aprile 1889, Hitler era figlio di un doganiere austriaco, un uomo volgare e violento, che voleva fare del figlio un modesto funzionario. Adolf, invece, aveva ambizioni artistiche: respinto due volte all’Accademia di belle arti di Vienna, quando morirono i genitori si trovò solo e senza denaro. Andò a vivere a Vienna, dove esercitò diversi mestieri, dormendo negli ospizi la notte. Nel 1913, per non fare il servizio militare per gli Asburgo (che detestava, ritenendoli l’ostacolo principale all’unione dell’Austria e della Germania) si trasferì a Monaco di Baviera, dove condusse lo stesso tipo di vita che aveva seguito a Vienna. In questo periodo elaborò le teorie che lo caratterizzarono in seguito: odio per i socialisti, la democrazia e gli ebrei, razzismo contro tutti coloro che non fossero tedeschi, che egli considerava una razza superiore.
Si arruolò in un reggimento bavarese e combatté coraggiosamente durante la guerra. Sfuggito alla morte (nel 1918 venne colpito dai gas e rimase per un po’ di tempo accecato), fu profondamente sconvolto dalla sconfitta della Germania: l’armistizio non era per lui la conseguenza del successo degli alleati, bensì il frutto di un tradimento politico perpetrato dalla stessa Germania, in particolare dagli ebrei.

Hitler nel 1914

Dopo la guerra tornò a Monaco, dove trovò un piccolo impiego che gli permise di sbarcare il lunario. Nella capitale bavarese pullulavano i gruppi ultranazionalisti, tra cui uno fondato nel 1918 dal fabbro Anton Drexler, a una cui riunione Hitler partecipò nel 1919. Nell’ottobre di quell’anno parlò in pubblico per la prima volta: si dimostrò un oratore straordinario, capace di scuotere le folle. Parlava dapprima a voce bassa e quasi monotona, poi s’infiammava progressivamente, trascinando l’uditorio fino a creare una sorta di isterismo collettivo.
Hitler prese in mano il piccolo partito di Drexler e ne cambiò il nome in Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, abbreviato in Partito nazista. Eliminato Drexler, Hitler assunse i pieni poteri all’interno del partito. Cominciò a girare per la Germania per reclutare aderenti, i quali si diedero un’uniforme (una camicia bruna) e si armarono, per scontrarsi con i comunisti. Nel 1923 tentò un colpo di stato (il putsch di Monaco), che fallì: Hitler venne condannato a cinque anni di carcere, ma ne scontò meno di uno. In prigione Hitler scrisse gran parte del suo libro, che divenne il vangelo del nazismo: Mein Kampf (La mia battaglia).

Hitler nel 1924 dopo il putsch di Monaco, assieme ad altri nazisti (il secondo da destra è Rudolf Hess)

L’espansione economica che si registrò tra il 1924 e il 1929 in molti Stati, e che migliorò anche le condizioni della Germania, mise in secondo piano il partito nazista: nel 1929 esso aveva solo 120.000 iscritti, che venivano generalmente considerati come un gruppo di esaltati e le cui sfilate in camicia bruna facevano ormai soltanto sorridere.
Invece, la depressione seguita al crollo della Borsa di New York, favorì il partito nazista. Nella difficile situazione economica e politica provocata dalla crisi, i nazisti si presentarono come i salvatori della patria, in grado di risollevare il Paese dalla miseria. Essi accusavano gli ebrei di essere i responsabili delle difficoltà della Germania: per quanto questa accusa fosse priva di fondamento, essa veniva creduta facilmente perché l’antisemitismo era molto diffuso. La presenza di ebrei nella finanza e in particolare in alcune banche fu usata come pretesto per presentare gli Ebrei come individui spregevoli che si arricchivano rubando al popolo tedesco. I nazisti, inoltre, continuarono i loro attacchi ai socialisti e ai comunisti, accusati di dividere il Paese. In questo modo la propaganda nazista riuscì ad assicurare a Hitler il voto della borghesia, dei ceti medi e degli agricoltori.

Migliaia di giovani sostennero Hitler negli anni della sua ascesa al potere

Grazie al successo elettorale, Hitler divenne cancelliere, cioè primo ministro, nel 1933: fin da subito fece emanare una legge che gli dava ogni autorità. Eliminò ad uno ad uno gli altri partiti e stabilì che l’unico partito della Germania fosse quello nazionalsocialista. Soppresse i sindacati e numerosi militanti furono inviati nei campi di concentramento (lager), affinché fossero “rieducati” attraverso il lavoro. Costituì una polizia di stato speciale – la Gestapo – affidata ad Heinrich Himmler, capo delle SS (Schutz Staffeln, squadre di protezione), un gruppo paramilitare che costituiva una sorta di corpo scelto nazista. Un altro gruppo paramilitare, le SA (Sturm Abteilungen, reparti d’assalto), si abbandonò frequentemente alla violenza e al saccheggio con la sicurezza dell’impunità. I parlamenti locali (cioè dei vari stati che formavano la Germania) furono affidati a uomini di fiducia di Hitler e all’inizio del 1934 del tutto soppressi.

Hitler nel 1933 con il presidente Paul von Hindenburg

Nello stesso anno, alla morte del presidente della repubblica, Paul von Hindenburg, Hitler ne prese il posto; venne eletto con un plebiscito di voti (l’89,93%), nonostante il voto contrario di 4 milioni e mezzo di tedeschi. Rimasto il solo padrone della Germania, Hitler prese il titolo di Führer (= condottiero) ed eliminò ogni libertà, dando vita a un regime totalitario: la stampa venne messa sotto controllo e migliaia di libri vennero bruciati pubblicamente, gli oppositori vennero assassinati o incarcerati. Socialisti e comunisti furono le prime vittime della repressione, ma anche all’interno del partito nazista vennero eliminati coloro sulla cui lealtà Hitler aveva dei dubbi: i capi delle SA, che chiedevano alcune riforme, vennero fatti assassinare dalle SS (30 giugno 1934, notte dei lunghi coltelli).

Cartolina del 1935 con i simboli delle SS: il motto dice “Unità tedesca – Potere tedesco”

Molti oppositori vennero inviati, come i delinquenti comuni, nei campi di concentramento, assieme ai testimoni di Geova, che rifiutavano la violenza, gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali: nel 1939 nei lager erano rinchiusi oltre 20.000 prigionieri.
Negli anni successivi si ebbe in Germania, come in altri Paesi europei, una ripresa economica, grazie anche a una serie di grandi lavori pubblici e allo sviluppo dell’industria bellica, voluto dal governo. La ripresa economica avrebbe potuto essere ottenuta anche puntando su altri tipi di industrie, ma Hitler voleva ad ogni costo che la Germania sviluppasse le proprie industrie belliche e quindi il riarmo, violando gli accordi di pace del 1919. Le spese militari aumentarono vertiginosamente, venne creata un’aviazione e fu reso obbligatorio il servizio militare. La ripresa permise di ridurre il numero dei disoccupati dai 6 milioni del 1933 ai 200.000 del 1939 e allargò il consenso al nazismo.

Apparecchio radio del 1935: il regime nazista utilizzò efficacemente la radio come strumento di propaganda

Secondo i nazisti i tedeschi costituivano una razza superiore, che era destinata al dominio sul mondo e doveva mantenere la sua purezza: ogni elemento estraneo alla razza tedesca, come gli ebrei e gli zingari tedeschi, avrebbe dovuto essere eliminato e non dovevano essere permesse mescolanze tra la razza superiore e le razze inferiori.
Le leggi razziali (leggi di Norimberga del 1935) vietarono i matrimoni tra tedeschi ed ebrei e diedero inizio alla discriminazione contro gli ebrei, che cominciarono ad essere inviati nei lager. Essi furono oggetto di attacchi da parte delle squadre paramilitari naziste, di persecuzioni e di veri e propri pogrom, come successe il 9 novembre 1938, in quella che viene definita notte dei cristalli, durante la quale vennero distrutti o incendiati negozi, case private, sinagoghe e cimiteri ebraici. Molti furono espulsi o costretti a partire.

Un negozio ebraico distrutto durante la Notte dei Cristalli a Berlino

Per mantenere la purezza della razza, a partire dal 1934 il governo attuò la sterilizzazione di circa 360.000 persone con disturbi mentali.
Nel 1939 infine il governo nazista decise di eliminare tutti i portatori di handicap gravi, fisici e mentali, che non erano in grado di lavorare e quindi di produrre (operazione T4): eseguendo un ordine emanato da Hitler, i medici eliminarono almeno 100.000 persone, di cui circa la metà erano bambini.

L’ideale del nuovo tedesco secondo il nazismo, in un dipinto di Gerhard Keil del 1939

Il nazismo mirava alla creazione della Grande Germania, riunendo i territori abitati da tedeschi in un unico grande Stato (pangermanesimo), che avrebbe dominato l’Europa e cancellato l’umiliazione della sconfitta nella Prima guerra mondiale. La Germania hitleriana era il Terzo Reich, il terzo impero tedesco, dopo il Sacro Romano Impero Germanico (nato nel 962) e l’Impero Tedesco del 1871.
Per realizzare questo obiettivo il governo nazista cercò alleati in Europa, dove strinse rapporti con l’Italia fascista (1936, Asse Roma-Berlino), e in Asia, dove stabilì accordi con il Giappone. Italia e Germania sostennero la ribellione di Franco in Spagna, dando così vita a un altro governo fascista loro alleato. Nel 1939 l’accordo tra Italia e Germania divenne un’alleanza politico-militare (Patto d’acciaio).

Hitler e Mussolini alla conferenza di Monaco del 1938

La politica di espansione cominciò nel 1938 con l’annessione dell’Austria (Anschluss). Poi Hitler rivendicò il territorio dei monti Sudeti, in Cecoslovacchia, dove vivevano molti tedeschi: Gran Bretagna, Francia e Italia accettarono che la Germania se ne impossessasse (Patto di Monaco, 1938), nell’illusione di impedire la guerra, e non reagirono neppure quando Hitler si impadronì della Boemia e della Moravia (1939).

L’esercito tedesco entra a Salisburgo dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania




martedì 27 dicembre 2016

85 Trionfo e crisi dell'economia di mercato

TRIONFO E CRISI DELL’ECONOMIA DI MERCATO

Dopo la guerra si ebbe una lenta ripresa economica, che divenne molto intensa tra il 1925 e il 1929. La ripresa accentuò le differenze esistenti all’interno dell’economia mondiale: gli USA, alcuni Paesi dell’Europa occidentale e il Giappone, che avevano già una solida base industriale, si svilupparono a un ritmo assai più rapido degli altri Paesi.

Un dirigibile Zeppelin vola su New York nel 1924: per gli USA sono anni di grande prosperità

In particolare lo sviluppo riguardò gli Stati Uniti: già nel 1914 essi erano la prima potenza economica mondiale e dopo la Grande Guerra il loro peso nell’economia e nella politica internazionali divenne tale da determinare gli avvenimenti storici futuri. I notevoli prestiti effettuati dagli USA agli Stati dell’Intesa durante il conflitto (più di 10 milioni di dollari, di cui 4.277 all’Inghilterra, 3.404 alla Francia, 1.648 all’Italia) ritornarono in patria, generando ingenti profitti che furono utilizzati per nuovi investimenti in America latina, in Canada e in Europa. Il reddito nazionale americano, che nel 1914 era di 33 miliardi di dollari, crebbe fino agli 87 miliardi del 1929; la produzione di elettricità e di acciaio raddoppiò, quella del petrolio crebbe dell’80%; l’aumento maggiore fu quello dei beni di consumo durevoli, come le auto, le case, i frigoriferi, gli apparecchi radio. Ciò nonostante la miseria era ancora presente in vasti strati della popolazione: neri, bianchi poveri del sud, disoccupati, abitanti dei bassifondi delle grandi città e, in parte, anche contadini delle pianure centrali.

Due francobolli tedeschi del 1939 commemorano il salone internazionale dell’automobile e della motocicletta. L’automobile divenne un mezzo di trasporto di massa, soprattutto negli USA, dove nel 1929 c’era un’automobile ogni cinque persone

Complessivamente si può dire che nei Paesi industrializzati dell’Europa e negli USA si sviluppò una società di massa, in cui i fenomeni non riguardavano una parte ristretta della società, come avveniva nell’Ottocento, ma potevano coinvolgere la maggioranza dei cittadini. Questo dipese da diversi fattori: l’aumento del numero delle persone istruite, che in molti Paesi industrializzati costituivano ormai la maggioranza della popolazione; l’allargamento del diritto di voto e l’adozione del suffragio universale, che in diversi Stati coinvolsero direttamente nella vita politica le masse; la radio e il cinema, che raggiungevano un pubblico molto numeroso, coinvolgendo anche gli analfabeti.

Maestri e ragazzi di una scuola americana (probabilmente privata) negli anni Venti

Negli anni Venti in molti Paesi nacquero stazioni radiofoniche, che cominciarono a trasmettere programmi di intrattenimento per il pubblico. La radio conobbe un rapido successo in tutto il mondo e divenne un mezzo di comunicazione di massa: nel 1934 vi erano già 42 milioni di apparecchi, di cui oltre 18 in Europa e quasi 20 in America settentrionale. La radio ebbe un grande successo presso tutte le classi sociali perché le trasmissioni radiofoniche potevano essere seguite da tutti. La possibilità di raggiungere un vasto pubblico non fu trascurata né dagli uomini d’affari, né dai politici: la radio venne utilizzata per la pubblicità di prodotti e per la propaganda politica, perché era in grado di influenzare l’opinione pubblica, cioè il pensiero della maggioranza dei cittadini.

Pubblicità del 1924 per una marca di apparecchi radio

Anche il cinema, che riscuoteva un ampio successo già prima della guerra, divenne uno dei divertimenti preferiti dalla popolazione e nacque una potente industria cinematografica. L’introduzione del sonoro (1929) e poi del colore (1935) offrirono nuove possibilità, ma posero anche nuovi problemi: il sonoro in particolare richiedeva una traduzione del dialogo per le pellicole straniere e quindi il ricorso al doppiaggio o all’uso di sottotitoli.
Uno degli aspetti caratteristici della società di massa fu il grande sviluppo dei consumi, favorito dal benessere degli anni della ripresa economica, fino al 1929. L’aumento dei consumi fu reso possibile dalle migliori condizioni di vita e fu perciò molto forte negli USA (per cui si parla di una società dei consumi), ma anche nei Paesi industrializzati d’Europa: un numero crescente di persone era in grado di acquistare una grande varietà di beni.

Moda femminile negli USA negli anni Venti

L’aumento dei consumi fu stimolato dalle industrie, attraverso la pubblicità. Essa veniva trasmessa soprattutto dalla radio, tanto che negli USA le stazioni radiofoniche erano tutte finanziate dalla pubblicità. Anche il cinema contribuì all’aumento dei consumi, perché proponeva stili di vita e mode, che il pubblico cercava di imitare. La pubblicità contribuì a cambiare la mentalità: essa creava nuovi bisogni, convincendo le persone ad acquistare prodotti di cui fino ad allora ignoravano l’esistenza; nello stesso tempo imponeva mode e quindi spingeva a rinnovare frequentemente alcuni tipi di prodotti, ad esempio i capi di vestiario.

Un’attrice del cinema muto pubblicizza negli anni Venti dei prodotti per il trucco femminile

Negli USA il passaggio alla società dei consumi fu facilitato anche dalla possibilità di acquistare a rate molti beni, come l’automobile e la radio, e dal costo contenuto di molti prodotti, dovuto alla produzione in serie (i prodotti venivano fabbricati secondo le stesse modalità e quindi erano identici gli uni agli altri) e all’impiego della cosiddetta taylorizzazione, cioè un sistema di lavoro basato sulla catena di montaggio, per cui l’operaio svolgeva la sua mansione, limitandosi a una serie di gesti, sempre gli stessi, ed evitando così perdite di tempo, con conseguenze di non poco conto sulla sua sanità mentale. Il fenomeno di questa meccanizzazione del lavoro, che rende insopportabile la vita nelle fabbriche, venne mirabilmente rappresentato nel 1936 da Charlie Chaplin, nel suo film Tempi moderni.

Una sequenza di fotogrammi da Tempi moderni di Charlie Chaplin, capolavoro dell’epoca

L’aumento dei consumi ebbe conseguenze negative sull’ambiente, perché comportava spreco di materie prime e produzione di rifiuti. Il problema però si impose all’attenzione dell’opinione pubblica solo nella seconda metà del secolo.
La crescita economica e il grande aumento dei consumi si interruppero nel 1929, quando negli USA scoppiò la più grave crisi del secolo, quella che viene chiamata la Grande Depressione. Essa ebbe il suo inizio evidente il 24 ottobre, quando la Borsa di New York crollò vorticosamente: fu il “giovedì nero” di Wall Street, che vide la discesa improvvisa dei prezzi, il nervosismo degli speculatori finanziari (coloro che avevano guadagnato somme enormi, comperando le azioni delle industrie a un certo prezzo e rivendendole poi a un prezzo maggiore) e addirittura il suicidio in poche ore degli undici tra i più noti speculatori statunitensi.

Prima pagina di un giornale americano del 24 ottobre 1929 con la notizia del panico a Wall Street

Causa essenziale di questa crisi fu, come per molte delle crisi precedenti, un eccesso di produzione: l’offerta di beni era superiore alla richiesta. Molti produttori (aziende agricole, imprese edilizie, industrie) si trovarono in difficoltà, non riuscendo a vendere i loro prodotti, perciò fecero ricorso alle banche e licenziarono alcuni dipendenti. L’aumento della disoccupazione portò a un’ulteriore diminuzione dei consumi e a un aggravarsi della crisi: molte imprese dovettero chiudere e le banche che avevano prestato loro denaro fallirono, mentre il valore delle azioni crollava.

Una baraccopoli del tempo della Grande Depressione

Per spiegare a un livello più generale questa crisi, si può affermare che la causa di essa va ricercata in quella che uno studioso americano, John Kenneth Galbraith, chiama «la cattiva distribuzione dei redditi». Al momento della crisi il 5% della popolazione assorbiva oltre un terzo del reddito nazionale; il capitalismo non si era accontentato di un ragionevole profitto, ma aveva voluto guadagnare sempre di più; nelle fabbriche la produttività era aumentata negli anni Venti del 43%, mentre i salari erano rimasti sostanzialmente fermi. Ciò aveva concentrato nelle mani del capitalismo somme talmente enormi, da provocare un massiccio reinvestimento in altre fabbriche: cosicché la produzione era cresciuta paurosamente, mentre il mercato rimaneva ristretto e incapace di assorbirla. Perciò, mentre nuove case, nuove automobili, nuovi manufatti rimanevano invenduti, dato che coloro che avrebbero dovuto acquistarli non avevano i mezzi per farlo, la ricchezza diventava lo strumento per la girandola viziosa e artificiosa della speculazione in borsa. Inoltre il progresso tecnologico aveva eliminato una parte notevole della mano d’opera, aumentando di conseguenza la restrizione del mercato; incapaci di creare nuovi posti di lavoro o di aumentare i salari, gli industriali non avevano ascoltato altro che il loro cieco egoismo.

La Borsa di New York il 24 ottobre 1929

Le importazioni da parte degli USA si ridussero bruscamente, colpendo le altre economie e trasformando la crisi in un fenomeno mondiale. Per difendere le proprie industrie, quasi tutti gli Stati imposero tariffe doganali protezionistiche, provocando il crollo del commercio mondiale. A risentirne maggiormente furono i Paesi che avevano debiti di guerra con gli Stati Uniti, come la Francia.
La crisi, intensissima soprattutto nel periodo 1929-1933, portò a una disoccupazione massiccia (12 milioni di disoccupati solo negli USA nel 1932), a una miseria estrema e favorì il formarsi di governi dittatoriali in Europa.

Marcia di disoccupati in Francia negli Trenta

La Grande Depressione rese evidente la necessità di interventi dello Stato per regolare l’economia ed evitare crisi devastanti: perciò tutti i governi, sia quelli totalitari (URSS, Italia), sia quelli democratici, avviarono politiche economiche tese a uscire dalla crisi, favorire lo sviluppo e alleviare la miseria. Si ebbe quindi il passaggio da un’economia di mercato, in cui lo Stato non interviene, se non in misura minima, per regolare la vita economica, a un’economia mista, in cui lo Stato interviene per controllare e regolare le attività produttive: si parla perciò di fine dello Stato liberale. Spesso furono proprio gli interventi dello Stato, come il New Deal (nuovo corso), lanciato dal presidente Roosevelt negli USA, a favorire il superamento della crisi.

A destra il 31° presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, l’artefice del New Deal; a sinistra il manifesto per il film “The Little Foxes” (in italiano “Piccole volpi”) di William Wyler, del 1941, uno dei film culto del New Deal, centrato sull’avidità e l’immoralità del mondo degli affari

Non sempre gli interventi statali sono efficaci nel miglioramento delle condizioni di vita. Diamo uno sguardo, per esempio, al fenomeno del proibizionismo negli USA. Con questo termine si intende il tentativo di combattere l’alcolismo, proibendo entro i confini statunitensi la fabbricazione, la vendita e il trasporto a scopo di consumo dei liquori. Il divieto era il risultato finale di una serie di iniziative sorte in numerosi Stati fin dalla prima metà del XIX secolo e promosse da varie associazioni e da diverse Chiese; negli USA un emendamento della costituzione (il XVIII, del gennaio 1919) segnò l’inizio dell’epoca del proibizionismo. L’esperimento non ebbe un esito felice: provocò, infatti, il contrabbando su vasta scala, la vendita clandestina di liquori e il rigoglio della malavita; il gangsterismo (anche di origine italiana e mafiosa; il gangster più famoso fu Al Capone, figlio di due immigrati italiani) dedito al contrabbando e allo spaccio assunse nel decennio 1920-1930 proporzioni preoccupanti. Il commercio clandestino privò i consumatori di ogni garanzia sulla qualità delle bevande e numerosi furono i casi di avvelenamento. Nel dicembre 1933 un altro emendamento costituzionale abrogò la legislazione proibizionista.

A sinistra un agente distrugge botti di birra nel 1920; a destra la gente festeggia a New York la fine del proibizionismo nel 1933





domenica 15 maggio 2016

84 - L'U.R.S.S. e lo stalinismo

L'U.R.S.S. E LO STALINISMO

Nata ufficialmente nel dicembre 1922, l’U.R.S.S. (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) adottò nel 1924 una Costituzione – rimasta in vigore fino al 1936 – che fissava la struttura e i compiti del governo centrale (formato da vari organismi che avevano il potere legislativo e quello esecutivo), ma che in realtà era completamente sottomesso ai capi del Partito Comunista, l’unico partito ammesso nell’Unione. La “dittatura del proletariato” che doveva essere la realizzazione delle teorie marxiste, era in realtà la dittatura dei capi comunisti e in particolare del Segretario Generale del Partito Comunista.

Poster sovietico celebrativo di Lenin e Stalin

Così l’U.R.S.S. divenne uno Stato basato su un socialismo coercitivo, fondato cioè sulla costrizione, ossia la limitazione della volontà individuale: il socialismo non era una scelta della popolazione, ma un'imposizione del partito e nessuna critica venne tollerata.
Già nel 1918 era stata decretata la totale separazione dello Stato dalla Chiesa ortodossa; nel 1921 furono vietati l’insegnamento religioso alla gioventù e la stampa e la diffusione di libri religiosi. Alla fede religiosa, considerata «l’oppio del popolo», fu contrapposto l’ateismo, fondato sulla concezione materialistica della vita. Molti luoghi di culto vennero chiusi; il matrimonio fu riconosciuto unicamente nella forma civile.

La chiesa della Resurrezione a San Pietroburgo; dopo aver preso il potere i bolscevichi cercarono di cancellare la tradizione religiosa russa e di sostituirla con l’ateismo di Stato

Si stabilì la piena parità tra i diritti dell’uomo e quelli della donna; l’aborto diventò una libera decisione della donna; il divorzio venne concesso dietro la semplice richiesta di uno dei coniugi; i figli illegittimi furono equiparati a quelli legittimi. Furono provvedimenti che cambiarono profondamente la famiglia tradizionale e che ebbero effetti negativi nella società russa, in particolare per quanto riguarda i figli: a causa della povertà generale molti di essi furono abbandonati, senza che lo Stato avesse i mezzi per provvedere alle loro necessità.

Poster del 1930 contro le molestie sessuali

Uno sforzo enorme fu compiuto, invece, per combattere la piaga dell’analfabetismo, che era estremamente diffusa: furono aperte molte scuole e nell’istruzione superiore si diede una netta prevalenza alle materie tecnico-scientifiche, giudicate più importanti per lo sviluppo industriale del Paese. Dall’istruzione superiore e universitaria, però, vennero esclusi i figli di origini nobile e borghese e ai docenti e intellettuali che non accettavano le idee socialiste fu vietato l’insegnamento e impedita la loro attività, cosicché a decine di migliaia emigrarono in Occidente.

Poster del 1929 che invita tutti a frequentare le biblioteche

Per alcuni anni dopo la rivoluzione di Ottobre la cultura fiorì godendo di una certa libertà: il partito comunista non era ancora in grado di operare un ferreo controllo su di essa. Così si ebbero movimenti artistici di avanguardia come il futurismo, l’espressionismo e il simbolismo; la cinematografia ebbe uno sviluppo straordinario, con registi come Ejzenštejn e Pudovkin, che celebrarono nei loro film la lotta dei rivoluzionari contro lo Stato zarista; in campo musicale si affermò Dmitri Shostakovič.

Un fotogramma dal celebre film di Sergej Ejzenštejn “La corazzata Potëmkin” (1925)

La politica coercitiva dell’U.R.S.S. si accentuò in seguito alla morte di Lenin (1924): anche se aveva dichiarato che, data l’arretratezza delle masse, il potere in Russia era esercitato non già direttamente dai lavoratori, bensì da chi governava «per i lavoratori», Lenin non assunse le vesti di un dittatore e governò sempre assieme a un gruppo di eminenti personalità. Prima di morire, però, compì scelte molto contradditorie su colui che finì con il succedergli alla direzione del Partito Comunista: Josif Vissarionovič Stalin. Infatti nel 1922 l’aveva fatto eleggere segretario generale del Partito (era la massima carica comunista) per le sue notevoli capacità organizzative, ma nel testamento lasciò scritto di rimuoverlo da quell’incarico, dopo essersi reso conto di quanto Stalin fosse brutale, autoritario e incline al nazionalismo.

Stalin in una foto del 1935 e in un ritratto in alta uniforme

Il testamento di Lenin non fu reso pubblico e all’interno del partito comunista si scatenò una lotta feroce per la conquista del potere, che si concluse nel 1927 con la completa vittoria di Stalin.
Egli accumulò un immenso potere, diventando di fatto un dittatore; in particolare negli anni Trenta si affermò un sistema politico che gli storici chiamano “stalinismo”, un sistema totalitario contraddistinto da una serie di componenti quali:
- il culto della personalità del capo supremo, esaltato come unico fedele erede di Lenin;
- l’infallibilità di Stalin, per cui ogni opposizione al suo volere costituiva un delitto politico;
- la teoria che il socialismo fosse ostacolato in ogni modo (con il sabotaggio o il tradimento) dai tanti “nemici del popolo”, che agivano sia all’estero, sia all’interno dell’URSS;
- la pratica del terrore di Stato quale mezzo per annientare con la morte, la prigione o la deportazione tutti gli oppositori (per Stalin scoprire i complotti contro il suo potere divenne un’ossessione);
- l’incoraggiamento e la diffusione della delazione (sospetti e paure si sparsero ovunque; persino i figli vennero incoraggiati a denunciare i genitori ostili al regime);
- l’uso sistematico dei mezzi di comunicazione di massa per esaltare la «linea generale» del regime, denunciarne gli oppositori presunti o reali e alimentare il consenso a suo favore (partito, sindacati, organizzazioni giovanili, scuole, stampa, radio, associazioni culturali provvidero a diffondere gli ordini del gruppo dirigente e a glorificare Stalin nelle maniere più iperboliche).

Un numero del 1936 della Pravda (Verità), l’organo ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica

Stalin lanciò una campagna di epurazione (cioè di eliminazione di tutti gli oppositori) sia nel partito sia nella società: furono le cosiddette “purghe staliniane”. I grandi processi del periodo 1935-38, basati su prove inesistenti e su confessioni estorte con la forza, portarono all'eliminazione di centinaia di migliaia di uomini e donne (800.000 fucilazioni solo tra il luglio 1937 e l'agosto 1938). Tra le vittime vi furono quasi tutti i maggiori dirigenti comunisti, molti ufficiali dell'esercito e un gran numero di comuni cittadini, condannati per sospetta o reale ostilità al regime.
Molti altri furono condannati ai lavori forzati o alla deportazione nei campi di lavoro (i gulag, abbreviazione di un’istituzione traducibile in «amministrazione centrale dei campi di lavoro correttivi»), che si estendevano dalla Russia orientale alla Siberia.

Lavori forzati in un gulag nel 1932

I deportati nei gulag (almeno 600.000 prigionieri politici nel momento di massimo sviluppo, oltre a 2 milioni di detenuti comuni) costituivano una immensa riserva di lavoro servile, impiegata per la costruzione di opere, quali dighe, canali, centrali, ferrovie, eccetera, spesso nelle località più impervie. Posti sotto il controllo di un ramo speciale della polizia politica, vivevano in condizioni miserabili, con scarso cibo, al freddo e in condizioni durissime (numerosi furono gli incidenti sul lavoro).
Intere popolazioni vennero deportate in regioni dell'interno, perché Stalin non si fidava della loro realtà al governo, come successe a oltre un milione di tedeschi della Volga: si calcola che forse sei milioni di individui furono deportati o imprigionati.

Lavori forzati in un gulag nel 1933

Nel periodo staliniano nella Russia e nelle altre repubbliche che formavano l'URSS vi fu un notevole sviluppo economico, favorito dalla ricchezza di risorse (territorio, fonti di energia, materie prime, manodopera), che rendeva il paese autosufficiente. L’economia venne posta completamente sotto il controllo statale, cosicché non fu lasciato alcuno spazio all'iniziativa privata.
La produzione agricola venne organizzata in 3 strutture particolari:
- i kolchoz, ossia delle fattorie collettive a carattere cooperativo, nelle quali ai contadini era lasciata una piccola quota di terra per la coltivazione individuale;
- i sovchoz, aziende agricole statali, in cui i contadini lavoravano come operai agricoli;
- le MTS (stazioni di macchine e trattori), che avevano il compito di fornire i macchinari alle aziende collettivizzate.

Bambini scavano patate con le mani in un kolchoz nel 1933

La resistenza dei contadini fu fortissima e nelle campagne si scatenò una nuova guerra civile: i contadini macellavano in massa il bestiame e riducevano le aree coltivate. Milioni di kulaki (i contadini più ricchi), ma anche di contadini poveri, vennero in parte sterminati, in parte condannati al lavoro forzato.

Poster sulla collettivizzazione agricola

L’industria divenne il centro dell’economia sovietica: il suo sviluppo venne pianificato secondo “piani quinquennali” (cioè da attuare in periodi di 5 anni). Il primo piano quinquennale cominciò nel 1928 e si concentrò sull’incremento dell’industria pesante, considerata la base di ogni ulteriore progresso. Lo sforzo dei lavoratori fu tale, che esso venne realizzato addirittura in anticipo: la produzione industriale nel 1933 era aumentata di quattro volte rispetto al 1913, il numero di operai aumentò progressivamente e la disoccupazione scomparve.

Poster del 1936 sui successi industriali in URSS

Il secondo piano quinquennale (1932-37) vide un incremento della produzione industriale del 121%: una parte crescente di essa fu rivolta a soddisfare le esigenze delle forze armate, bisognose di essere modernizzate.

In questo dipinto di Alexander Samokhvalov, “Komsomol militarizzato” (1932-33), l’Unione comunista della gioventù (il Komsomol, appunto) passa dalla vanga al fucile in un attimo

Queste misure prese per l’economia sovietica (che secondo Stalin dovevano permettere al Paese «il grande balzo in avanti») si accompagnarono alla militarizzazione della forza lavoro (i lavoratori, cioè, erano come dei militari obbedienti agli ordini dei capi) e anche a sempre maggiori differenziazioni retributive: i salari vennero calcolati in base alla produttività, così da incentivare i singoli alla massima produzione. Nel 1935 ebbe inizio il movimento “stachanovista”, che prese nome dal minatore Stachanov, il quale venne additato come esempio per le prestazioni eccezionali conseguite (“stacanovismo” è divenuto un sostantivo comune in molte lingue del mondo, per indicare un efficientismo, uno zelo fuori dal comune nel lavoro). Stachanov e altri lavoratori maggiormente produttivi vennero ritenuti “eroi del lavoro” e premiati con salari più alti, abitazioni più confortevoli, una migliore assistenza sanitaria, mense speciali, vacanze in luoghi di villeggiatura e così via. Il risultato fu che l’U.R.S.S. diventò il Paese dove le differenze salariali tra operai erano le maggiori del mondo.

Statua al minatore Stachanov nella città omonima (che da lui ha preso il nome) in Ucraina

L’industrializzazione forzata del Paese portò l’U.R.S.S. a divenire la terza potenza industriale, dopo Stati Uniti e Germania. Invece nel settore agricolo, a causa della mancanza di fondi e di macchinari, i risultati furono decisamente negativi: nelle annate di cattivo raccolto si ebbero carestie che provocarono la morte di milioni di persone.

Dipinto di Arkady Plastov, Giorno di festa nella fattoria collettiva (1937). Malgrado i risultati negativi, la collettivizzazione delle terre venne esaltata non solo sui giornali, ma anche mediante dipinti e film, in cui si vedono solo contadini che lavorano felici nei kolchoz