TRIONFO E CRISI DELL’ECONOMIA DI MERCATO
Dopo la guerra si ebbe una lenta
ripresa economica, che divenne molto intensa tra il 1925 e il 1929. La ripresa
accentuò le differenze esistenti all’interno dell’economia mondiale: gli USA,
alcuni Paesi dell’Europa occidentale e il Giappone, che avevano già una solida
base industriale, si svilupparono a un ritmo assai più rapido degli altri
Paesi.
Un dirigibile Zeppelin vola su New York nel 1924: per gli USA sono anni
di grande prosperità
In particolare lo sviluppo
riguardò gli Stati Uniti: già nel 1914 essi erano la prima potenza economica
mondiale e dopo la Grande Guerra il loro peso nell’economia e nella politica
internazionali divenne tale da determinare gli avvenimenti storici futuri. I
notevoli prestiti effettuati dagli USA agli Stati dell’Intesa durante il
conflitto (più di 10 milioni di dollari, di cui 4.277 all’Inghilterra, 3.404
alla Francia, 1.648 all’Italia) ritornarono in patria, generando ingenti
profitti che furono utilizzati per nuovi investimenti in America latina, in
Canada e in Europa. Il reddito nazionale americano, che nel 1914 era di 33
miliardi di dollari, crebbe fino agli 87 miliardi del 1929; la produzione di
elettricità e di acciaio raddoppiò, quella del petrolio crebbe dell’80%;
l’aumento maggiore fu quello dei beni di consumo durevoli, come le auto, le
case, i frigoriferi, gli apparecchi radio. Ciò nonostante la miseria era ancora
presente in vasti strati della popolazione: neri, bianchi poveri del sud,
disoccupati, abitanti dei bassifondi delle grandi città e, in parte, anche
contadini delle pianure centrali.
Due francobolli tedeschi del 1939 commemorano il salone internazionale
dell’automobile e della motocicletta. L’automobile divenne un mezzo di
trasporto di massa, soprattutto negli USA, dove nel 1929 c’era un’automobile
ogni cinque persone
Complessivamente si può dire che
nei Paesi industrializzati dell’Europa e negli USA si sviluppò una società di
massa, in cui i fenomeni non riguardavano una parte ristretta della società,
come avveniva nell’Ottocento, ma potevano coinvolgere la maggioranza dei
cittadini. Questo dipese da diversi fattori: l’aumento del numero delle persone
istruite, che in molti Paesi industrializzati costituivano ormai la maggioranza
della popolazione; l’allargamento del diritto di voto e l’adozione del
suffragio universale, che in diversi Stati coinvolsero direttamente nella vita
politica le masse; la radio e il cinema, che raggiungevano un pubblico molto
numeroso, coinvolgendo anche gli analfabeti.
Maestri e ragazzi di una scuola americana (probabilmente privata) negli
anni Venti
Negli anni Venti in molti Paesi
nacquero stazioni radiofoniche, che cominciarono a trasmettere programmi di
intrattenimento per il pubblico. La radio conobbe un rapido successo in tutto
il mondo e divenne un mezzo di comunicazione di massa: nel 1934 vi erano già 42
milioni di apparecchi, di cui oltre 18 in Europa e quasi 20 in America
settentrionale. La radio ebbe un grande successo presso tutte le classi sociali
perché le trasmissioni radiofoniche potevano essere seguite da tutti. La
possibilità di raggiungere un vasto pubblico non fu trascurata né dagli uomini
d’affari, né dai politici: la radio venne utilizzata per la pubblicità di
prodotti e per la propaganda politica, perché era in grado di influenzare
l’opinione pubblica, cioè il pensiero della maggioranza dei cittadini.
Pubblicità del 1924 per una marca di apparecchi radio
Anche il cinema, che riscuoteva
un ampio successo già prima della guerra, divenne uno dei divertimenti
preferiti dalla popolazione e nacque una potente industria cinematografica.
L’introduzione del sonoro (1929) e poi del colore (1935) offrirono nuove
possibilità, ma posero anche nuovi problemi: il sonoro in particolare
richiedeva una traduzione del dialogo per le pellicole straniere e quindi il
ricorso al doppiaggio o all’uso di sottotitoli.
Uno degli aspetti caratteristici
della società di massa fu il grande sviluppo dei consumi, favorito dal
benessere degli anni della ripresa economica, fino al 1929. L’aumento dei
consumi fu reso possibile dalle migliori condizioni di vita e fu perciò molto
forte negli USA (per cui si parla di una società dei consumi), ma anche nei
Paesi industrializzati d’Europa: un numero crescente di persone era in grado di
acquistare una grande varietà di beni.
Moda femminile negli USA negli anni Venti
L’aumento dei consumi fu
stimolato dalle industrie, attraverso la pubblicità. Essa veniva trasmessa
soprattutto dalla radio, tanto che negli USA le stazioni radiofoniche erano
tutte finanziate dalla pubblicità. Anche il cinema contribuì all’aumento dei
consumi, perché proponeva stili di vita e mode, che il pubblico cercava di
imitare. La pubblicità contribuì a cambiare la mentalità: essa creava nuovi
bisogni, convincendo le persone ad acquistare prodotti di cui fino ad allora
ignoravano l’esistenza; nello stesso tempo imponeva mode e quindi spingeva a
rinnovare frequentemente alcuni tipi di prodotti, ad esempio i capi di
vestiario.
Un’attrice del cinema muto pubblicizza negli anni Venti dei prodotti
per il trucco femminile
Negli USA il passaggio alla
società dei consumi fu facilitato anche dalla possibilità di acquistare a rate
molti beni, come l’automobile e la radio, e dal costo contenuto di molti
prodotti, dovuto alla produzione in serie (i prodotti venivano fabbricati
secondo le stesse modalità e quindi erano identici gli uni agli altri) e
all’impiego della cosiddetta taylorizzazione, cioè un sistema di lavoro basato
sulla catena di montaggio, per cui l’operaio svolgeva la sua mansione,
limitandosi a una serie di gesti, sempre gli stessi, ed evitando così perdite
di tempo, con conseguenze di non poco conto sulla sua sanità mentale. Il
fenomeno di questa meccanizzazione del lavoro, che rende insopportabile la vita
nelle fabbriche, venne mirabilmente rappresentato nel 1936 da Charlie Chaplin,
nel suo film Tempi moderni.
Una sequenza di fotogrammi da Tempi moderni di Charlie Chaplin, capolavoro dell’epoca
L’aumento dei consumi ebbe
conseguenze negative sull’ambiente, perché comportava spreco di materie prime e
produzione di rifiuti. Il problema però si impose all’attenzione dell’opinione
pubblica solo nella seconda metà del secolo.
La crescita economica e il grande
aumento dei consumi si interruppero nel 1929, quando negli USA scoppiò la più
grave crisi del secolo, quella che viene chiamata la Grande Depressione. Essa
ebbe il suo inizio evidente il 24 ottobre, quando la Borsa di New York crollò
vorticosamente: fu il “giovedì nero” di Wall Street, che vide la discesa improvvisa
dei prezzi, il nervosismo degli speculatori finanziari (coloro che avevano
guadagnato somme enormi, comperando le azioni delle industrie a un certo prezzo
e rivendendole poi a un prezzo maggiore) e addirittura il suicidio in poche ore
degli undici tra i più noti speculatori statunitensi.
Prima pagina di un giornale americano del 24 ottobre 1929 con la
notizia del panico a Wall Street
Causa essenziale di questa crisi
fu, come per molte delle crisi precedenti, un eccesso di produzione: l’offerta
di beni era superiore alla richiesta. Molti produttori (aziende agricole,
imprese edilizie, industrie) si trovarono in difficoltà, non riuscendo a
vendere i loro prodotti, perciò fecero ricorso alle banche e licenziarono
alcuni dipendenti. L’aumento della disoccupazione portò a un’ulteriore
diminuzione dei consumi e a un aggravarsi della crisi: molte imprese dovettero
chiudere e le banche che avevano prestato loro denaro fallirono, mentre il
valore delle azioni crollava.
Una baraccopoli del tempo della Grande Depressione
Per spiegare a un livello più
generale questa crisi, si può affermare che la causa di essa va ricercata in
quella che uno studioso americano, John Kenneth Galbraith, chiama «la cattiva distribuzione dei
redditi». Al momento della crisi il 5% della popolazione assorbiva oltre un
terzo del reddito nazionale; il capitalismo non si era accontentato di un
ragionevole profitto, ma aveva voluto guadagnare sempre di più; nelle fabbriche
la produttività era aumentata negli anni Venti del 43%, mentre i salari erano
rimasti sostanzialmente fermi. Ciò aveva concentrato nelle mani del capitalismo
somme talmente enormi, da provocare un massiccio reinvestimento in altre
fabbriche: cosicché la produzione era cresciuta paurosamente, mentre il mercato
rimaneva ristretto e incapace di assorbirla. Perciò, mentre nuove case, nuove
automobili, nuovi manufatti rimanevano invenduti, dato che coloro che avrebbero
dovuto acquistarli non avevano i mezzi per farlo, la ricchezza diventava lo
strumento per la girandola viziosa e artificiosa della speculazione in borsa.
Inoltre il progresso tecnologico aveva eliminato una parte notevole della mano
d’opera, aumentando di conseguenza la restrizione del mercato; incapaci di
creare nuovi posti di lavoro o di aumentare i salari, gli industriali non
avevano ascoltato altro che il loro cieco egoismo.
La Borsa di New York il 24 ottobre 1929
Le importazioni da parte degli
USA si ridussero bruscamente, colpendo le altre economie e trasformando la
crisi in un fenomeno mondiale. Per difendere le proprie industrie, quasi tutti
gli Stati imposero tariffe doganali protezionistiche, provocando il crollo del
commercio mondiale. A risentirne maggiormente furono i Paesi che avevano debiti
di guerra con gli Stati Uniti, come la Francia.
La crisi, intensissima
soprattutto nel periodo 1929-1933, portò a una disoccupazione massiccia (12
milioni di disoccupati solo negli USA nel 1932), a una miseria estrema e favorì
il formarsi di governi dittatoriali in Europa.
Marcia di disoccupati in Francia negli Trenta
La Grande Depressione rese
evidente la necessità di interventi dello Stato per regolare l’economia ed
evitare crisi devastanti: perciò tutti i governi, sia quelli totalitari (URSS,
Italia), sia quelli democratici, avviarono politiche economiche tese a uscire
dalla crisi, favorire lo sviluppo e alleviare la miseria. Si ebbe quindi il
passaggio da un’economia di mercato, in cui lo Stato non interviene, se non in
misura minima, per regolare la vita economica, a un’economia mista, in cui lo
Stato interviene per controllare e regolare le attività produttive: si parla
perciò di fine dello Stato liberale. Spesso furono proprio gli interventi dello
Stato, come il New Deal (nuovo corso), lanciato dal presidente Roosevelt negli
USA, a favorire il superamento della crisi.
A destra il 31° presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt,
l’artefice del New Deal; a sinistra il manifesto per il film “The Little Foxes”
(in italiano “Piccole volpi”) di William Wyler, del 1941, uno dei film culto
del New Deal, centrato sull’avidità e l’immoralità del mondo degli affari
Non sempre gli interventi statali
sono efficaci nel miglioramento delle condizioni di vita. Diamo uno sguardo,
per esempio, al fenomeno del proibizionismo negli USA. Con questo termine si
intende il tentativo di combattere l’alcolismo, proibendo entro i confini
statunitensi la fabbricazione, la vendita e il trasporto a scopo di consumo dei
liquori. Il divieto era il risultato finale di una serie di iniziative sorte in
numerosi Stati fin dalla prima metà del XIX secolo e promosse da varie
associazioni e da diverse Chiese; negli USA un emendamento della costituzione
(il XVIII, del gennaio 1919) segnò l’inizio dell’epoca del proibizionismo.
L’esperimento non ebbe un esito felice: provocò, infatti, il contrabbando su
vasta scala, la vendita clandestina di liquori e il rigoglio della malavita; il
gangsterismo (anche di origine italiana e mafiosa; il gangster più famoso fu Al
Capone, figlio di due immigrati italiani) dedito al contrabbando e allo spaccio
assunse nel decennio 1920-1930 proporzioni preoccupanti. Il commercio
clandestino privò i consumatori di ogni garanzia sulla qualità delle bevande e
numerosi furono i casi di avvelenamento. Nel dicembre 1933 un altro emendamento
costituzionale abrogò la legislazione proibizionista.
A sinistra un agente distrugge botti di birra nel 1920; a destra la
gente festeggia a New York la fine del proibizionismo nel 1933
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