L’AMERICA NEL XIX SECOLO
IL CANADA
Finita la guerra d’indipendenza
americana, migliaia di lealisti anglofoni (cioè i coloni di lingua inglese
rimasti fedeli alla corona inglese) lasciarono le 13 colonie britanniche ormai
divenute Stati Uniti d’America e si rifugiarono nel Québec meridionale, la
regione tra il fiume Ottawa e il lago Ontario, dove erano presenti numerosi
coloni di origine francese.
“Inverno sui Monti Laurenziani” di Cornelius David Krieghoff (1867)
Ben presto i lealisti britannici
richiesero l’istituzione di leggi inglesi e di organi che li rappresentassero;
ciò indusse il governo di Londra a dividere nel 1791 il Québec in due province:
il Basso Canada (Québec) a maggioranza francofona, e l’Alto Canada (Ontario)
anglofono. Ciascuna provincia avrebbe avuto assemblee elettive a fianco di
organi di governo e queste istituzioni vennero estese anche in altre province
del territorio nord-americano.
Il tentativo di invasione del
Canada da parte degli U.S.A. (1812-1814) venne respinto però proprio dall’unità
che anglofoni e francofoni riuscirono a trovare.
Dipinto del 1896 di John David Kelly raffigurante la battaglia di
Queenston Heights (nell’Ontario) del 1812, tra statunitensi e inglesi
Ma questa unità si incrinò
qualche anno dopo, quando la maggioranza francofona (composta soprattutto da
contadini) si trovò in contrasto con la minoranza anglofona, che dominava i
settori della finanza e del commercio.
Il contrasto sfociò in un duplice
tentativo insurrezionale nel Québec e nell’Ontario, che però fallì. Il governo
di Londra rispose alla crisi creando nel 1840 il Canada Unito e non
riconoscendo più il francese come lingua ufficiale.
La convergenza d’interessi tra la
borghesia inglese e quella francese portò successivamente ad accordi, che indussero
la Gran Bretagna ad emanare nel 1867 il British North America Act. Con questo
provvedimento il Canada diventava uno Stato federale, con il potere diviso tra
le varie province e un governo centrale con sede a Ottawa e competente nelle
materie di interesse comune. La nuova entità politica si allargò fino a
comprendere l’intero Canada attuale (tranne Terranova, che sarebbe entrata
nell’unione solo nel 1949); nel 1871 la federazione canadese si estendeva
dall’Atlantico al Pacifico, aveva una popolazione di 3 milioni di abitanti e si
sviluppò sia nell’economia (con l’agricoltura come settore fondamentale, ma
anche con una progressiva crescita industriale), sia nel settore delle
comunicazioni.
Illustrazione raffigurante la Cattedrale di Notre-Dame e la Piazza del
mercato a Québec City nel 1850
GLI STATI UNITI
Dopo l’indipendenza era
cominciato per gli U.S.A. un periodo di rapida espansione territoriale, che li
portò a metà del XIX secolo ad essere una potenza economica e militare in grado
di competere con le nazioni europee. In pochi decenni gli Inglesi, i Francesi e
gli Spagnoli, che prima avevano dominato l’interno del Nord America, furono
completamente cacciati fuori dal continente o spinti ai margini di esso (come
avvenne con gli Inglesi nel Canada). Nel 1819 gli Spagnoli del Messico
firmarono un trattato con gli U.S.A., in base al quale la Florida veniva
venduta agli Stati Uniti; nel 1845 il Texas diventava statunitense e poco dopo
(1846 e 1848) lo stesso accadeva con tutta la costa del Pacifico.
L’espansione degli Stati Uniti d’America (tra parentesi l’anno
d’ingresso dei singoli Stati nella federazione)
I nuovi territori erano popolati
in larga maggioranza da indigeni americani, chiamati indiani, ma vi erano anche
fortini militari e piccoli insediamenti di coloni, più numerosi lungo le coste.
In tutta questa regione, chiamata Far West (il lontano Ovest) cominciarono a
stabilirsi sempre più numerosi i coloni europei, che erano allevatori (cowboys)
attratti dai grandi pascoli, o cercatori d’oro, come quelli che diedero vita
alla grande corsa all’oro in California nel 1848. Questi coloni avevano,
inoltre, un alto indice di natalità, tale da far raddoppiare ogni 22 anni la
popolazione americana.
Una famiglia di pionieri in Nebraska (1886 circa)
L’espansione verso ovest di
quella che era chiamata la frontiera era vista dagli americani come
un’operazione fatta in nome di Dio e del progresso e trovò la sua
giustificazione nel cosiddetto Manifest
Destiny: in esso nel 1830 il presidente Andrew Jackson scrisse:
«Quale uomo saggio potrebbe
preferire un Paese coperto di foreste e attraversato da qualche migliaio di
selvaggi alla nostra estesa Repubblica, costellata di paesi, città e prosperose
fattorie […], occupata da più di 12 milioni di gente felice e colma di ogni
benedizione di libertà, civiltà e religione?».
Caccia al bisonte, dipinto di Frederic Remington del 1890
Man mano che i territori
dell’interno venivano popolati dai coloni, essi entravano a far parte della
federazione come nuovi Stati: i 13 Stati originari alla fine dell’Ottocento era
diventati 45, collegati da una rete ferroviaria che già nel 1850 superava i 50.000 chilometri,
da rapidi bastimenti a vapore e a vela e dal telegrafo, che, appena inventato,
permetteva di avvicinare luoghi lontani a Washington, il centro politico della
Repubblica.
Foto del 1869 per celebrare il completamento della linea ferroviaria
transcontinentale nello Utah
I coloni e l’esercito
statunitense costrinsero le tribù indiane a lasciare le proprie terre: molte accettarono
di cedere una parte del territorio, in cambio della garanzia di poter
continuare a vivere sul territorio restante, ma questi trattati non furono mai
rispettati dal governo statunitense. Gli indiani cercarono allora di difendersi
dalla continua espansione, combattendo sotto la guida di capi come Cochise e
Geronimo (degli Apache) e Piccolo Corvo, Nuvola Rossa e Toro Seduto (dei
Sioux). Si ebbero, perciò, soprattutto nella seconda metà del secolo, molte
guerre tra i bianchi e i nativi americani (sono dette guerre indiane), durante
le quali gli indigeni americani furono massacrati con tutti i mezzi: vennero
perfino distribuite loro coperte infette da vaiolo per eliminarli.
Da sinistra: Geronimo, Piccolo Corvo e Toro Seduto
L’epilogo delle guerre indiane si
ebbe il 29 dicembre 1890 con il massacro di Wounded Knee nel Dakota, quando i
Sioux, che si erano rifiutati di abbandonare la pratica di un loro rito
guerriero, furono circondati da un reggimento di cavalleria e sterminati;
qualche giorno prima era stato assassinato il loro capo Toro Seduto.
Gli indiani superstiti di queste
guerre, una minima parte dell’intera popolazione indigena, vennero rinchiusi in
riserve, create nelle regioni meno fertili.
Fossa comune per i nativi massacrati a Wounded Knee (1 gennaio 1891)
Gli Stati Uniti erano governati
da un sistema bipartitico: da una parte il partito democratico, dall’altra
prima il partito whig, poi, dal 1854, il partito repubblicano. Questi partiti
contrapposti seppero trovare sempre una mediazione su alcuni temi fondamentali,
quali l’espansionismo e la guerra contro i nativi; non seppero invece
raggiungere un compromesso sul tema della schiavitù, che investiva l’economia
del Paese.
Negli Stati settentrionali nel
corso del XIX secolo si era verificato un tale sviluppo industriale, da fare
degli U.S.A. una delle nazioni più industrializzate del mondo e una meta
agognata per molti immigrati dall’Europa. Nel 1850 gli Stati del Nord degli
U.S.A. ospitavano due terzi della popolazione totale e controllavano la vita
politica della federazione. Questa situazione provocava un forte malcontento da
parte degli abitanti degli Stati meridionali, che si trovavano in minoranza.
Una manifattura a Boston (tra il 1813 e il 1816)
Negli Stati del Sud era aumentata
fortemente l’estensione delle piantagioni di cotone, per la grande richiesta
dell’industria tessile inglese e poi degli stessi Stati Uniti. Nelle
piantagioni la manodopera era costituita da schiavi neri (ve n’erano 4 milioni
nel 1860), il cui valore era in continuo aumento, perché la tratta degli
schiavi era stata proibita da accordi internazionali nel 1818 e quindi non era
possibile importarne altri.
Schiavi neri in una piantagione
Negli Stati Uniti, però,
soprattutto negli Stati del Nord, molti cominciarono a richiedere l’abolizione
della schiavitù, considerata inumana: saggi e romanzi (tra cui il famosissimo La capanna della zio Tom, della
scrittrice Harriet Beecher-Stowe, pubblicato nel 1852) fecero conoscere il
problema negli Stati del Nord, dove la schiavitù non esisteva più. Si ebbero
perciò forti tensioni tra gli Stati del Sud, dove la schiavitù aveva un ruolo
fondamentale nell’economia, e gli Stati del Nord, dove si stava formando una
maggioranza favorevole all’abolizione della schiavitù.
Illustrazione per la Capanna dello zio Tom, un libro che contribuì a
diffondere negli Stati Uniti l’abolizionismo della schiavitù
Quando venne eletto presidente
Abraham Lincoln, abolizionista, alcuni Stati del Sud decisero di staccarsi
dagli Stati Uniti: gli Stati del Nord non accettarono questa separazione (o
secessione, come venne chiamata) e scoppiò una sanguinosa guerra civile (una
guerra si definisce civile, quando viene combattuta tra cittadini della stessa
nazione). Chiamata guerra di secessione, essa fu combattuta tra il 1861 e il
1865 e provocò la morte di oltre 600.000 soldati.
Illustrazione per la battaglia di Chattanooga (del 1863), una delle
tante battaglie della Guerra di secessione
La vittoria dell’esercito del
Nord portò nel 1865 all’abolizione della schiavitù, ma ancora per più di un
secolo i neri non ottennero la parità dei diritti. Inoltre i contrasti tra Nord
e Sud degli U.S.A. rimasero forti: nel Sud molti continuarono ad essere ostili
al governo federale e il 14 aprile 1865 un fanatico sudista uccise Lincoln, che
era stato rieletto presidente l’anno precedente.
L’assassinio di Abraham Lincoln in una litografia dell’epoca
L’AMERICA LATINA
La situazione nell’America
centro-meridionale (o America latina, poiché vi si parlano lo spagnolo e il
portoghese, due lingue neolatine) era ben diversa. Pur ricco di risorse, il sud
del continente si era impoverito nel corso di secoli di sfruttamento coloniale.
Acquerello di Carlos Julião del 1775 raffigurante degli schiavi che spaccano pietre per
ricavarne diamanti nelle miniere di Serro Frio in Brasile
Dopo l’indipendenza, raggiunta
nei primi trent’anni del XIX secolo, tra i nuovi Stati si crearono spesso
contrasti, che portarono a una lunga serie di guerre, a cambiamenti di confine
e alla divisione di alcuni degli Stati che vi erano sorti: ad esempio la
Repubblica della Grande Colombia si divise nel 1830 in tre Stati
(Colombia, Venezuela ed Ecuador), mentre tra il 1838 e il 1841 le Province
Unite dell’America Centrale si divisero in cinque piccoli Stati: l’Honduras, El
Salvador, il Guatemala, il Nicaragua e il Costa Rica.
Il venezuelano Simón Bolívar dopo la battaglia di Carabobo rende
omaggio alla bandiera venezuelana; Bolívar diede un contributo decisivo all’indipendenza
dalla Spagna di Venezuela, Perù, Colombia e altri Stati dell’America latina,
ma, accusato di mire dittatoriali e sfuggito a un attentato, si ritirò dalla
scena politica
A causa delle continue guerre
l’esercito ebbe sempre un grande potere e in tutti gli Stati dell’America
centro-meridionale generali ambiziosi si impadronirono del potere, dando vita a
dittature militari e a una generale instabilità politica.
All’interno di questi Stati i
coloni europei, che costituivano circa il 20% della popolazione, ottennero
tutto il potere, da cui furono escluse le popolazioni indigene (40-45% di
amerindi), i meticci (30%) e gli schiavi neri (5%), che erano numerosi solo
nelle isole Antille. La ristretta aristocrazia che deteneva il potere possedeva
anche la grande maggioranza delle terre, mentre il resto della popolazione
viveva in miseria ed era priva di istruzione.
Un dipinto di Vicente Albán del 1783, intitolato “Frutti dell’Ecuador”,
rappresenta una nobildonna spagnola con la sua schiava nera
L’agricoltura rimase l’attività
principale e non ci fu uno sviluppo industriale; perciò gli Stati dell’America
latina si trovarono in una condizione di inferiorità, sia economica, sia
politica, rispetto al loro potente vicino, gli Stati Uniti. Già nel 1830 il
presidente statunitense James Monroe ammonì le potenze europee a non cercare di
intervenire in America (dottrina di Monroe); invece gli Stati Uniti
intervennero spesso nell’America latina, che si impoverì ulteriormente, mentre
gli U.S.A. trassero alimento per il proprio sviluppo dallo sfruttamento delle
ricchezze del meridione del continente.
Nel 1898 gli Stati Uniti tolsero
alla Spagna le loro ultime colonie americane: Cuba e Puerto Rico.
Ritratto di James Monroe di William James Hubbard (1832 circa)
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