LA
SOCIETÀ ITALIANA NEL XIX SECOLO
I
NOBILI
Fino al Settecento per tradizione essere
nobili significa godere di titoli e privilegi stabiliti per legge, possedere
grandi proprietà terriere e ricoprire i gradi più alti della carriera militare.
Tra i privilegi della nobiltà vi è quello di governare un territorio, ma con la
rivoluzione francese l’aristocrazia perde questo ruolo, che passa allo Stato
con le sue leggi e la sua burocrazia.
Come reagiscono i nobili nei vari Stati
che compongono l’Italia nell’Ottocento?
Nel nord e in Toscana una parte della
nobiltà si modernizza, cercando di investire le proprie ricchezze nei nuovi
settori dell’economia; spesso per far questo deve imparentarsi con la
borghesia, ma ciò le permette di entrare a far parte della classe sociale che
detiene il potere negli Stati moderni.
Nello Stato della Chiesa e nel Regno delle
Due Sicilie, invece, ciò accade raramente: la grande maggioranza dei nobili si
chiude ad ogni forma di modernizzazione, pur conservando di solito prestigio e
ricchezze.
Comunque sia, i nobili formano ancora nel
XIX secolo una classe sociale separata dalle altre. Lo si può vedere dalle loro
abitazioni: dei grandi palazzi che devono dimostrare il prestigio della casata.
I nobili possiedono un palazzo in città, per viverci in autunno e in inverno, e
una villa in campagna, dove si trasferiscono alla fine della primavera. In
entrambe le dimore vi sono saloni per le feste, sale da pranzo, aree per la
servitù, cucine, cantine, stanze per fare il bucato o altri servizi e splendidi
giardini. In queste case sontuose vivono non solo i membri della casata, ma
anche uno stuolo di domestici: balie, governanti, guardarobiere, camerieri,
cuochi, staffieri, giardinieri, eccetera.
Villa
Widmann a Mira (Venezia): una tipica villa di campagna della nobiltà veneziana.
Fu costruita all’inizio del secolo XVII e abitata da diverse famiglie di nobili
La vita quotidiana dei maschi passa
nell’amministrazione del patrimonio mobiliare e immobiliare e nella pratica
della propria professione (militare, o commerciale, o altro), mentre il tempo
libero è dedicato alla corrispondenza, alla lettura, alla caccia, alle
passeggiate a cavallo, alla vita di società e ai propri interessi personali.
Per le femmine molto tempo è impiegato per
vestirsi e pettinarsi; poi l’occupazione principale è quella di sorvegliare
l’andamento della casa. Le giovani imparano il cucito, il ricamo, la musica, le
lingue. Le letture sono solo a carattere religioso e edificante, mentre
imparano anche a tenere la corrispondenza con i membri della famiglia che si
trovano lontani da casa.
Sia per i maschi sia per le femmine sono
frequenti le pratiche religiose: preghiere mattino e sera e messa quasi ogni
giorno.
Il pranzo viene consumato tardi (tra le 15
e le 17), con una tavola imbandita e ricca di argenteria e suppellettili
preziose. Vige un rigido galateo: i figli mangiano con i genitori solo ad una
certa età; non possono arrivare a tavola in ritardo, o alzarsi senza il permesso
del capofamiglia. Solitamente la mensa dei nobili è ricca e variata: carne,
pesce, uova, salami, latticini, pasta, pane bianco, olio e vino. Infatti
“essere in carne”, cioè grassi, è segno che si appartiene alla nobiltà, mentre
la magrezza significa povertà.
Meno soggetti alle malattie, rispetto al
popolo, anche i nobili non hanno però alti concetti di igiene e pulizia: per
esempio ci si lava in camera da letto, in catinelle di porcellana, e in modo
morigerato, perché si ritiene che fare il bagno sia poco salutare. Il gabinetto
consiste in una seggetta con una brocca d’acqua.
Giacomo
Favretto, Dopo il bagno (1884): probabilmente la scena è da immaginarsi in una
casa borghese (la figura della serva non sarebbe logica in una casa popolare),
ma non era tanto dissimile da ciò che si poteva vedere in una casa nobiliare
Anche per i nobili l’aspettativa di vita è
bassa; la mortalità infantile è molto frequente e numerose donne muoiono di
parto.
Nelle relazioni familiari l’autorità del
capofamiglia è indiscussa; costui prende tutte le decisioni, gli si devono
obbedienza e rispetto, raramente egli ha gesti d’affetto verso i figli, che gli
danno del lei o del voi. Le madri raramente allattano i figli, infatti è molto
diffuso l’uso del baliatico. Le figlie vengono educate completamente in casa da
un precettore privato; anche i figli maschi vengono educati da un precettore,
ma ad una certa età continuano la loro istruzione in collegi religiosi o
militari, per poi andare all’università, quasi sempre per conseguirvi una
laurea in legge.
La vita sociale avviene tra ricevimenti,
balli, battute di caccia, teatri; ma sono soprattutto i salotti privati i
luoghi in cui si fanno incontri, si discute, si mostra le proprie capacità.
La vita dei nobili, come si è detto, è
separata da quella degli altri, ma anche invidiata; lo dimostra il fatto che i
borghesi arricchiti vogliono vivere come i nobili e tendono a sposarsi con
loro, per acquisire il loro titolo.
A CORTE: I SAVOIA
I Savoia erano la più antica dinastia regnante
d' Europa. Essi furono tra i protagonisti del Risorgimento italiano, a partire
da Carlo Alberto, re del Regno di Sardegna.
Carlo Alberto aveva una personalità ombrosa: era
pessimista, tormentato dall'ansia religiosa e desideroso di raggiungere la
perfezione dello spirito a danno del corpo; per questo mangiava poco cibo e
insipido, dormiva poco e su una brandina di ferro, portava il cilicio e non
aveva alcuno svago.
Carlo
Alberto ritorna in Piemonte nel 1814 dopo la spedizione in Spagna, dipinto di
Horace Vernet del 1834
Sempre più magro e consunto, impose al figlio
(il futuro Vittorio Emanuele II) un'educazione rigida, tutta fatta di studio e
preghiera.
Doveva alzarsi alle cinque e mezza del mattino;
dopo essersi lavato e vestito, doveva studiare fino alle otto; poi faceva la
colazione e subito dopo equitazione, disegno, calligrafia, scherma, ginnastica
e ancora studio, messe e preghiere. Vedeva poco i genitori: una breve visita
alla madre e un colloquio con il padre due o tre volte a settimana. Ma Vittorio
Emanuele era molto diverso dal padre: dimostrò presto scarsa inclinazione allo
studio, poco interesse per i libri e per la religione.
Una volta cresciuto, dimostrò di amare i
cavalli, le donne, i cibi sostanziosi e il vino: la regina Vittoria lo riteneva
strano e rozzo e dall'aspetto selvaggio.
L'unico interesse giovanile che dimostrò a corte
fu la partecipazione al ballo delle “tote”, cioè le signorine della nobiltà:
queste, quando compivano i 18 anni, facevano il loro ingresso in società con un
ballo che durava 12 ore e che serviva alle madri per combinare i matrimoni
delle figlie.
La vita del giovane principe si svolse tra cacce
e cavalcate, odiati ricevimenti a corte e un matrimonio noioso con una cugina.
Partecipò alla Prima guerra d'indipendenza, dove
fu lievemente ferito, ma non approvava la guerra all'Austria, si considerava
amico degli Asburgo, odiava i milanesi, giudicava l'indipendenza e l'unità
dell'Italia un delirio dei rivoluzionari e considerava la concessione dello
Statuto Albertino la rovina della monarchia. Ciò nonostante, toccò a lui
diventare il primo re del Regno d'Italia nel 1861.
Quando la capitale del nuovo stato divenne
Firenze, i torinesi si ribellarono per molti giorni: nei disordini ci furono 50
morti e 104 feriti. Anche per Vittorio Emanuele II lasciare Torino fu un
trauma, ma a Firenze si trovò bene: usciva a passeggio da solo e in abiti
civili, o andava a cavalcare e a cacciare nella sua riserva.
Quando Roma divenne la capitale del regno, egli
se ne allontanava volentieri, perché non gli piaceva. Vittorio Emanuele II morì
nel 1878 e gli successe il figlio Umberto I, la cui moglie, Margherita, fu
abile nel creare per se stessa un personaggio pubblico che piacesse al popolo:
infatti quando visitava le diverse città italiane, si vestiva con i costumi
locali; con la gente si comportava semplicemente; faceva opere di beneficenza,
accarezzando e baciando bambini e orfani. Si creò così la leggenda di una
regina bellissima e di una monarchia amica del popolo.
Anche Umberto I voleva creare il mito del sovrano
popolare, amante dei suoi sudditi e da essi devotamente ricambiato. Ma era un
mito falso, come si vide alla fine del secolo, quando il re fece sparare con i
cannoni sulla folla inerme che manifestava a Milano contro il carovita,
provocando circa 100 morti e migliaia di feriti.
Il 29 luglio 1900, per vendicare quei morti,
l'anarchico Gaetano Bresci uccise Umberto I con tre colpi di revolver.
IL VIDEO DI QUESTO CAPITOLO:
IL CLERO
Nell'800 oltre ai comuni sacerdoti, ai vescovi, e ai
cardinali, il clero comprendeva anche eremiti e cappellani (cioè sacerdoti in
un oratorio o in un istituto), abati e preti senza cure d'anime (cioè senza una
parrocchia).
Costoro erano riconoscibili per la barba incolta, la veste
poco curata, il bastone da pellegrino e la cassetta per le elemosine; erano
però figure destinate nel corso del secolo a scomparire, perché la chiesa avviò
una riforma del clero che cambiò di molto le cose. A cominciare dalla
formazione teologica, che avveniva sempre più nei seminari capaci di dare a chi
voleva fare il prete la giusta preparazione.
Nell'800 si sceglieva di diventare sacerdoti per motivi
diversi da quelli che avvenivano prima. Infatti se fino al 700 si sceglieva il
sacerdozio per strategie della famiglia e per avere i privilegi sociali e
economici, nel 800 si sceglieva la carriera ecclesiastica perché si voleva
impegnarsi nel fare del bene alla società.
Questo cambiamento nella scelta del sacerdozio fa si che il
numero dei sacerdoti si dimezza soprattutto dopo il 1848, anche perché il
livello di vita dei parroci era piuttosto modesto, simile a quello dei maestri
elementari.
Una figura tipica del “sacerdote impegnato” fu Don Giovanni
Bosco che fondò nel 1846 nella periferia di Torino il primo oratorio, di San
Francesco di Sales, o oratorio salesiano.
Questi oratori si diffusero rapidamente perché erano rivolti
principalmente ai giovani delle classi popolari, ai quali si offriva un luogo
controllato di socializzazione, in contrasto alla perdita dei valori
tradizionali che stava avvenendo con il diffondersi dell'industrializzazione.
Negli stessi anni agisce Giuseppe Cottolengo che nel 1862
fondò la piccola casa della divina provvidenza che accoglieva i malati poveri
respinti dagli ospedali (e più tardi gli handicappati più gravi).
Bisogna dire, però, che la chiesa nell'800 fu liberale solo
per un breve periodo (attorno al 1848) e che la sua apertura al sociale (le
scuole di Don Bosco e l'ospedale di Cottolengo) contrastava con il nuovo stato
italiano, che si riteneva l'unico organismo che doveva occuparsi dei problemi
vari della società.
Infatti i rapporti tra il papa e lo stato laico furono
difficili, in particolare quando Roma venne conquistata e divenne la capitale
del Regno d'Italia mentre al papa venne lasciato solo il Vaticano.
Ma la Roma ecclesiastica nel 1870 era ancora potente, avendo
206 conventi tra maschili e femminili, 350 chiese, 250 oratori, una sessantina
di parrocchie e circa 8000 religiosi.
LA BORGHESIA
Nell'Ottocento la borghesia è un gruppo eterogeneo composto
da molte figure sociali: medici e avvocati, imprenditori dell'industria che sta
nascendo, banchieri, impiegati, commercianti, insegnanti, artigiani e piccoli
proprietari terrieri, ma anche grandi industriali e persone che lavorano nel
mondo dell'alta finanza.
Questo gruppo sociale così diversificato è portatore di idee
che si affermano progressivamente durante il secolo. Nella vita familiare si
nota una netta separazione dei ruoli tra maschi e femmine: alla donna spetta
l'educazione di figli e la cura della casa e fin da piccola viene educata in
modo diverso dai fratelli. La sessualità è regolata da una morale rigida, che
punta sull'astinenza e sulla moderazione.
La vita pubblica e sociale è incentrata sull'autocontrollo
dei propri sentimenti; infatti la vita pubblica deve essere ben distinta da
quella privata e familiare. Ciò si riflette persino nelle abitazioni dei
borghesi, le quali hanno due centri simbolici diversi: la camera da letto per
la sfera intima e privata e il salotto per quella esteriore e pubblica. Infatti
gli spazi familiari hanno un arredamento modesto e disadorno (le camere da
letto sono quasi del tutto prive di arredi), mentre il salotto deve mostrare lo
status della famiglia, anche quando la sua capacità economica è modesta: deve
perciò essere arredato con il divano, i quadri, le stampe, gli orologi da
parete, il pianoforte.
Nel salotto si svolge la gran parte della vita sociale del
borghese, che ama organizzare feste per gli amici e i vicini di casa, che sono
anch'essi dei borghesi; infatti alla fine dell'Ottocento gli spazi urbani si
differenziano sempre più in quartieri divisi per classe sociale.
Nel salotto le donne possono dimostrare agli altri la loro
bravura nella cura della casa e nella preparazione di dolci prelibati; la loro
vita è quasi tutta racchiusa tra le pareti domestiche, mentre i maschi possono
uscire spesso di casa per andare nei caffè, nei circoli del gioco delle carte,
o in locali dove si danno spettacoli di varietà e attrazioni varie.
Giuseppe De
Nittis, A teatro (1883): il teatro, in particolare quello d’opera, è un luogo
pubblico, che vede da un certo momento in poi una larga partecipazione
femminile, sia nobiliare sia borghese
I borghesi si accostano nel corso dell'Ottocento a due
diverse attività per il tempo libero, che i nobili conoscevano da secoli e che
per le classi lavoratrici rimasero invece sconosciuti fino al tempo del
fascismo: la villeggiatura e lo sport.
La villeggiatura estiva si pratica quasi esclusivamente in
località di mare, mentre la villeggiatura in montagna si afferma solo alla fine
dell'Ottocento.
Le villeggiature al mare hanno inizialmente uno scopo
terapeutico per chi soffre di malattie o disturbi curabili con esposizione al
sole o all'aria marina. Nascono così le prime colonie marittime per ragazzi e
poi le grandi infrastrutture per adulti: stabilimenti balneari, pontili,
pensioni, alberghi, ville. A fare la villeggiatura sono soprattutto i borghesi
di grandi città come Milano, Roma e Bologna, che possono usufruire di una rete
ferroviaria in espansione.
Lo sport per i borghesi è più un gioco che un'attività
ginnica. Nell'Italia dopo l'unificazione sono di moda gli sport importati
dall'Inghilterra: il tennis, l'equitazione, il cricket, il football. A fine Ottocento
si diffondono presso i giovani borghesi (e anche i nobili) la bicicletta e
l'automobilismo; alla fine del secolo ci sono in circolazione circa 100.000
biciclette, usate anche dalle donne e simbolo privilegiato di modernità.
Le pratiche sportive sono appannaggio esclusivo dei
borghesi, tanto è vero che le classi popolari le considerano passatempi
immorali; loro preferiscono occuparsi della vita politica, anche perché hanno
numerose richieste da fare al nuovo stato che raramente si occupa di loro.
Winslow Homer, La
partita a croquet (1866)
IL
POPOLO NELLE CAMPAGNE E NELLE CITTÀ
Nell’Ottocento l’Italia era divisa in
tanti Stati (solo nel 1861 riuscì a unirsi in un unico Regno), ma, ciò
nonostante, se si studiano le condizioni di vita del popolo (cioè la
maggioranza degli italiani), si possono notare numerosi elementi comuni alle
varie parti d’Italia.
Innanzitutto nel secolo XIX vi fu nel
nostro Paese una forte crescita demografica: essa fu dovuta più a un calo della
mortalità, che a un aumento delle nascite. Comunque, anche se le epidemie di
peste si diradarono, rimasero diffuse malattie come il tifo, la tubercolosi, il
gozzo, il cretinismo e la pellagra.
L’Italia era un Paese quasi esclusivamente
agricolo da Nord a Sud e ogni carestia aveva ancora effetti molto pesanti nella
popolazione, che reagiva ovunque allo stesso modo: facendo scoppiare rivolte,
dandosi al vagabondaggio, o rubando ciò che si poteva trovare nelle campagne.
Tali fenomeni minacciavano di estendersi anche a borghi e città.
La povertà nell’alimentazione del popolo
accumunava le diverse parti dell’Italia: il mais era l’alimento fondamentale in
Lombardia, dove al mattino si faceva colazione con pane (di granoturco, segale
e miglio) bagnato in acqua salata e condito con olio. Pranzo e cena
consistevano in polenta di mais condita con olio di semi o con lardo, fagioli o
cavoli e un po’ di formaggio.
La carne era praticamente assente dalle
tavole dei contadini, tranne a Natale, quando si mangiava un brodo di carne
ricavato cuocendo qualche osso di maiale o di vacca.
Anche nelle città i poveri mangiavano come
i contadini: la sola differenza è che a Milano il mais era sostituito dal
frumento.
A Roma la colazione consisteva in pane,
frutta, formaggio e un po’ di carne salata. A pranzo si mangiava minestra con
lardo, pane, formaggio e frutta; a cena un po’ di insalata con pane e vino.
A Napoli la borghesia cenava spesso con i
maccheroni, che comparivano nella mensa degli artigiani e del popolo solo in
occasione di feste; nel resto dell’anno si mangiava frutta e verdura, qualche
volta d’estate un po’ di carne ovina, d’inverno un soffritto di carne suina.
La carne bovina costava troppo e il popolo
poteva permettersi solo le parti meno pregiate. Lo stesso vale per il pesce,
tranne il baccalà e le alici salate, più frequenti.
In montagna il pasto era integrato con le
castagne, mentre un po’ dappertutto nel corso del secolo si andò diffondendo la
coltivazione e il consumo di patate.
Anche nelle abitazioni le condizioni erano
comuni: sia per i contadini, sia per gli artigiani e il popolo delle città le
abitazioni erano miserevoli. Le case erano abitate da moltissime persone per
stanza, la rete fognaria era inesistente, l’acqua nei pozzi era contaminata da
liquami vari, le strade erano strette e non areate, piene di umidità e di
sporcizia. Tutto ciò aumentava la possibilità di contagi e malattie, anche in
città portuali come Genova o Napoli.
In
questo dipinto di Gaetano Chierici (di cui non so né il titolo né la data) si
vede con ricchezza di dettagli le condizioni di una casa delle classi meno
abbienti
Il lavoro era disagevole non solo in
campagna, ma anche in città: qui i lavoratori di imprese tessili e
manifatturiere erano sottopagati e sfruttati. Si faceva spesso ricorso al
lavoro di donne e bambini, non tutelati e pagati pochissimo. In Lombardia negli
anni ’40 vi erano 54.000 bambini tra i 6 e i 14 anni impiegati negli opifici.
In Piemonte su 40.000 lavoratori nel campo della seta 36.000 erano donne, la
metà delle quali aveva meno di 14 anni.
In generale il lavoro nelle prime
industrie italiane si svolgeva in condizioni pessime: in ambienti con poca
luce, il che provocava danni alla vista, con scarso ricambio d’aria, con un
caldo eccessivo nelle fabbriche di maioliche o con danni agli occhi nelle
fabbriche di vetro.
Le condizioni di vita dei contadini e del
popolo in città erano, dunque, molto brutte; questo spiega perché la
partecipazione al Risorgimento italiano di queste classi sociali sia stata
complessivamente quasi inesistente.
IL VIDEO DI QUESTO CAPITOLO:
I
BAMBINI E I GIOVANI
Il concetto d’infanzia nacque verso la
fine del Settecento e solo nelle classi più alte; prima di allora i bambini non
avevano caratteristiche ed esigenze proprie, infatti erano trattati come dei
“piccoli adulti”. Così continuarono ad essere trattati presso le classi povere,
per le quali un figlio poteva essere un costo aggiuntivo e quindi nascere
indesiderato: la diffusa pratica dell’aborto o dell’esposizione (ossia
l’abbandono davanti a una chiesa o a un monastero) testimonia la minaccia
rappresentata dall’arrivo di un figlio per una famiglia povera, o per una donna
non sposata, condannata all’emarginazione. Anche nelle famiglie borghesi la
nascita di un bambino era a volte indesiderata.
Illustrazione
del 1883, quando i bambini cominciano ad avere nelle classi sociali più ricche
una certa considerazione della loro età
Nell’Ottocento era ancora diffuso il
baliatico, anche se sempre meno nel corso del secolo nelle famiglie più ricche,
mentre era quasi una necessità per le donne impiegate in lavori fuori casa.
Appena nati i bambini venivano mandati in campagna da una balia per circa due
anni, durante i quali le visite della madre (e ancor più del padre) erano assai
scarse; di solito avvenivano solo per controllare che il figlio non fosse
trascurato e per pagare la balia.
Dopo il periodo del baliatico i bambini
tornavano nelle loro case, dove vedevano i genitori quasi come due sconosciuti.
A questo punto i genitori cominciavano ad
occuparsi direttamente del figlio: il ruolo del padre è dominante e
indiscutibile. Egli non si perde in rassicurazioni o tenerezze, ma «avvezza
alla vita», per esempio con abluzioni con l’acqua fredda, con prove per vincere
la paura, o con lunghe passeggiate (magari in montagna) durante le quali al
figlio è proibito lamentarsi per la fame, la sete o la stanchezza.
Il padre non fa coccole al bambino, non lo
tratta alla pari, non gli permette nemmeno di fare troppe domande, perché ciò
intaccherebbe la sua autorità. Anche ridere con il figlio era un segno di
debolezza. L’educazione del fanciullo è, quindi, la preparazione alle dure
prove dell’età adulta: per esempio alla morte. Del resto in quell’epoca la metà
della popolazione moriva sotto i vent’anni e la mortalità infantile era ancora
molto frequente. Malattie, morte, tombe e cimiteri popolavano i libri di testo
per le scuole elementari di fine Ottocento e i racconti di morti eroiche
dovevano preparare all’estremo sacrificio gli animi dei futuri cittadini.
Se la condizione del bambino non è ancora
pienamente riconosciuta, l’Ottocento è sicuramente il secolo dei giovani:
furono loro, infatti, i responsabili delle diverse rivoluzioni e di tanti fatti
storici, come Napoleone Bonaparte, o come il protagonista del romanzo di Ugo
Foscolo, Jacopo Ortis, un giovane che combatte (come il suo autore) contro
conformismi e convenzioni, affermando a prezzo della vita la propria libertà e
l’integrità degli ideali in cui crede: la purezza morale, lo slancio verso
qualcosa di elevato ed anche la passione amorosa.
Formati dalle idee di Giuseppe Mazzini e
dall’educazione ricevuta a scuola, specialmente il liceo classico con la sua
cultura latina e greca, che ispirava sentimenti antitirannici e invitava al
martirio (infatti si diceva che «dulce et decorum est pro patria mori», ossia è
dolce e dignitoso morire per la patria), i giovani furono determinanti nelle
vicende del Risorgimento italiano. Dalle 5 giornate di Milano alla difesa della
Repubblica di Venezia, dalla Prima guerra d’indipendenza (in particolare con le
battaglie di Curtatone e Montanara, che furono un sacrificio collettivo degli
studenti pisani che vi parteciparono e permisero la vittoria dell’esercito
piemontese) all’impresa dei Mille di Garibaldi (che però coinvolse anche
adulti)). Tutti questi avvenimenti esaltarono il generoso ardimento, il vigore
fisico e morale e persino la scapestrata avventatezza dei giovani, grazie ai
quali si raggiunse l’unità e l’indipendenza dell’Italia.
Sul finire del secolo, infine, il mito
della spontanea e pura partecipazione dei giovani al Risorgimento venne creato
dal libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, che divenne un romanzo di formazione
per moltissimi ragazzi.
Edmondo
De Amicis e la copertina di un’edizione di “Cuore”, il suo romanzo più famoso
IL VIDEO DI QUESTO CAPITOLO:
IL VIDEO DI QUESTO CAPITOLO:
LE
DONNE
Nel XIX secolo le donne, secondo i borghesi,
dovevano essere virtuose, sensibili, caste, fedeli e disposte al sacrificio.
Anche la Chiesa esaltava la loro passività e ubbidienza, la loro capacità di
accettare le infedeltà dei loro mariti e il loro ruolo di madri; inoltre
dovevano difendere la cristianità dalla modernità.
Così pure il primo codice dell'Italia unitaria,
il codice di Pisanelli, riconosceva che l'opinione dell'uomo conta di più di
quella della donna: essa infatti è sottomessa alla volontà del marito e non ha
alcun diritto, né civile né politico.
Nella realtà l'analfabetismo femminile era assai
superiore a quello maschile, e se una donna sapeva leggere, bisognava
controllare ciò che leggeva, perché poteva essere pericoloso e portarle a
sognare una realtà diversa: per questo erano incoraggiate le letture
devozionali e religiose.
Nelle relazioni familiari la sottomissione al
maschio era regola comune, fosse egli il padre o il marito. Anche gli spazi
domestici erano diversificati, per non parlare di quelli extra-domestici: vi
erano luoghi pubblici ai quali le donne non erano ammesse.
Nella sfera dell'intimità c'era una forte
passività e soggezione: prive di educazione sessuale e abituate a concepire il
sesso come una cosa peccaminosa, le donne subivano la volontà dell'uomo e
accettavano i rapporti sessuali come un dovere coniugale allo scopo di
procreare.
Quanto alla possibilità di lavorare, vi erano
concezioni diverse a seconda del ceto sociale di appartenenza. Per le donne
della nobiltà il lavoro era disonorevole; solo rimanendo in casa la loro
onorabilità era salva. Se alcune di loro da giovani andavano a studiare in un
istituto fuori casa, erano rigorosamente separate dai maschi. Una volta
cresciute tutta la loro vita era confinata in ambito domestico e in attività
quali la cura della casa, il ricamo, lo studio del pianoforte.
Il matrimonio era combinato dalla famiglia per
scopi sociali e economici e raramente la scelta del coniuge era libera. Dopo le
nozze, la vita di una donna era segnata da numerose gravidanze: spesso i figli
erano allevati da una balia e poi venivano mandati in un collegio, anche per
creare un certo distacco tra madri e figli.
Le donne del ceto medio, invece, soprattutto
verso la fine dell'Ottocento, non erano estranee al mondo del lavoro,
particolarmente nel settore del commercio e dei servizi pubblici e privati. Con
l'introduzione dell'obbligo scolastico molte donne diventano maestre, tanto che
già a metà degli anni Novanta sono il 65% dell'intero corpo insegnante.
Per le donne dei ceti poveri rurali il lavoro è
una necessità. Un contadino sceglieva come sposa una donna non solo capace di
fare figli, ma anche di lavorare. Per una contadina la vita era durissima;
infatti lavorava in casa, nei campi e anche in settori extra-agricoli, come la
filatura e la tessitura. Nei campi svolgevano anche i lavori più pesanti, che
non interrompevano neanche durante le numerose gravidanze; ciò procurava
frequentemente aborti e molti figli nascevano con malformazioni e le
conseguenze sulla salute delle donne erano gravi.
Lo sviluppo delle manifatture nel corso
dell'Ottocento spinse molte contadine ad abbandonare i campi per le fabbriche,
soprattutto tessili e dell'abbigliamento. Anche se le donne erano pagate meno
degli uomini e spesso lavoravano solo fino al matrimonio o alla nascita del
primo figlio, nel corso del secolo aumentò progressivamente la presenza
femminile nelle industrie.
Anche le donne dei ceti poveri urbani trovano
occupazione nelle manifatture; esse inoltre lavorano nel piccolo commercio, in
attività a domicilio e in aziende familiari. Aumentano notevolmente le serve,
soprattutto immigrate dalla campagna, povere e analfabete. Numerose sono anche
le prostitute che lavorano nei bordelli o per strada; sono sia immigrate dalla
campagna, sia figlie di artigiani in difficoltà economiche.
Malgrado questa situazione complessiva niente
affatto felice, nel corso dell'Ottocento si possono trovare alcuni casi di emancipazione
della condizione femminile.
Nei ceti alti alcune donne si conquistano un
proprio spazio, gestendo i salotti aristocratici, dove possono discutere di
politica e di cultura assieme agli uomini.
Inoltre il Risorgimento permise a molte donne di
emancipare la loro condizione, sia assistendo i feriti nei campi di battaglia,
sia partecipando attivamente alle proteste in città, alle barricate, alle
insurrezioni urbane che scoppiarono nel corso del secolo.
Infine va ricordata l'importanza di alcune donne
dei ceti popolari: mondine delle risaie, operaie e lavoratrici a domicilio
diventano protagoniste a fine Ottocento di episodi di protesta sociale, che le
fanno uscire dal ruolo di sudditanza a cui erano abituate e dà loro una nuova
consapevolezza di sé.
IMPRENDITORI
E OPERAI
È vero che le prime industrie italiane (manifatture nel
settore della lana) sono nate in Piemonte, già nel XVIII secolo, ma solo negli
ultimi anni dell'Ottocento in Italia ci fu una vera e propria
industrializzazione; ancora nel 1861, quando ci fu l'unificazione, il nostro
Paese era sostanzialmente agricolo. Infatti i primi operai erano contadini, che
spesso lavoravano nelle fabbriche, solo dopo essersi dedicati al lavoro nei
campi.
Dal 1880 in poi, sorsero industrie meccaniche e
siderurgiche, ma quasi solo al Nord (in particolare a Torino a Milano), dove
troviamo le prime grandi famiglie di industriali: i Pirelli nel settore della
gomma; i Florio che producevano liquori e in seguito tonno in scatola; gli
Ansaldo nel settore meccanico, con la produzione di locomotive; i Falck nel
settore siderurgico, che si specializzò nella produzione di acciaio; i Breda
nel settore metalmeccanico, che producevano locomotive e macchinari agricoli.
Costoro e altri crearono le condizioni economiche, che
trasformarono la vita quotidiana di ogni ceto sociale: un esempio significativo
è dato dal primo esperimento di illuminazione elettrica (al posto di quella a
gas) che avvenne a Milano in occasione dell'esposizione del 1881. Un altro
esempio importante fu la nascita della FIAT a Torino nel 1899.
Industrie italiane importanti sorsero nel settore tessile:
in esse lavoravano molte donne e fanciulli (più di un quarto del totale),
pagati pochissimo, meno dei maschi adulti che comunque erano ampiamente
sfruttati, e costretti a turni di lavoro che arrivavano alle 12 ore al giorno
(nelle industrie della seta si arrivava anche a 16 ore diurne).
Nelle industrie metallurgiche le condizioni degli operai
erano leggermente migliori, ma perché i più elementari diritti dei lavoratori
fossero riconosciuti e rispettati, furono necessarie numerose leggi.
Nel 1883 venne approvata una legge contro gli infortuni sul
lavoro, con un'assicurazione volontaria. Nel 1886 fu vietato il lavoro ai
minori di 9 anni venne posto il limite dei 15 anni per i lavori pericolosi e
particolarmente insalubri.
Bambina in un
cotonificio statunitense nel 1908: all’inizio del secolo XX il lavoro minorile
non era ancora del tutto tutelato
Nel 1898 l'assicurazione contro gli infortuni divenne
obbligatoria e all'inizio del '900 fu tutelato il lavoro femminile.
Le gravi condizioni lavorative spinsero gli operai verso due
reazioni diverse: l'emigrazione o la protesta.
Gli emigranti erano prevalentemente uomini adulti, spesso
analfabeti, col passare degli anni soprattutto meridionali, abituati a lavori
duri e manuali (in particolare contadini). All'inizio emigravano in altri Paesi
europei, poi nelle Americhe.
La protesta si esprimeva principalmente con rivolte e
scioperi, finché si formarono delle associazioni, le camere del lavoro, che
erano simili ai sindacati che si sono formati in seguito.
Le camere del lavoro (la prima sorse a Milano nel 1891)
furono fondamentali nella formazione delle masse lavoratrici: erano centri di
consulenza e di collegamento per i lavoratori e svolsero importanti studi
sull'occupazione e sui salari. Sempre più a favore degli operai col passare
degli anni, a un certo punto furono in alcuni casi sciolte per decisione del
governo.
Robert Koehler, Lo
sciopero (1886)
IL VIDEO DI QUESTO CAPITOLO:
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Questo articolo mi è sembrato molto interessante perché fa capire la società italiana del XIX dal punto di vista di tutte le classi sociali.
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