L’ARAZZO
DI BAYEUX
L’arazzo di Bayeux è un documento storico
unico: narra i principali episodi che hanno permesso al duca di Normandia,
Guglielmo detto il Bastardo (in quanto figlio naturale del duca Roberto e della
figlia di un conciatore di pelli) di conquistare il trono d’Inghilterra e di
diventare Guglielmo il Conquistatore.
Racconta gli eventi dal 1064 al 1066, anno
della decisiva battaglia di Hastings, e per farlo mette in scena 623 persone,
505 animali di specie differenti, 202 tra cavalli e bestie da soma, 55 cani, 41
imbarcazioni e 49 alberi, lungo un rotolo di lino di 70 metri, largo circa 50
centimetri, composto da otto elementi cuciti tra loro, con fili di lana di otto
colori diversi, fino a formare una specie di fumetto del Medioevo, scritto nella
stoffa, anziché su carta.
L’arazzo fu tessuto tra il 1070 e il 1077
per volere del vescovo Odone, il fratellastro di Guglielmo il Conquistatore
raffigurato sulla tela in più di una scena. Il luogo di produzione dovrebbe
essere Canterbury, dove si trovava una rinomata scuola di tessitori. È anche
probabile che il modello fosse stato elaborato da un solo uomo, il che
spiegherebbe l’omogeneità del disegno per tutti i 70 metri della lunghezza,
mentre il lavoro di tessitura dovette essere affidato a una squadra di donne.
Sappiamo che l’arazzo venne esposto almeno
a partire dal 1476 nella cattedrale di Bayeux nel mese di luglio, in occasione
della festa delle reliquie, ma è verosimile che questo fosse anche il suo scopo
originario. Secondo una corrente interpretazione, infatti, il suo vero soggetto
non sarebbe la conquista dell’Inghilterra, bensì la dimostrazione del fatto che
una terribile punizione colpisce chi spergiura sulle reliquie (nel caso
specifico, re Aroldo, o Harold).
Fu nel 1724 che l’arazzo iniziò a
interessare gli studiosi: venne prima compresa la sua importanza e quindi un
ecclesiastico, Bernard de Montfaucon, ne pubblicò per la prima volta una parte.
Nel 1792 il prezioso documento corse un
grave rischio: venne infatti utilizzato per coprire un carro che doveva portare
alcuni cittadini di Bayeux a lottare per la repubblica francese; è un puro caso
se allora non andò perduto. Fu l’avvocato Léonard Forestier a bloccare la
folla, domandando ai presenti se davvero avessero ben compreso quel che stavano
facendo. L’arringa ebbe successo e l’arazzo tornò tra i tesori della
cattedrale.
Un nuovo pericolo si profilò tuttavia due
anni dopo, quando la commissione d’arte cittadina riuscì a evitare che la tela
fosse tagliata in pezzi per farne decorazioni in occasione di una festa
pubblica. Da allora la vigilanza fu sempre più stretta; nel 1803 l’arazzo venne
trasferito a Parigi: Napoleone Bonaparte, infatti, aveva mostrato un grande
interesse per quel documento che testimoniava una indiscussa vittoria dei
francesi contro gli odiati Inglesi!
In seguito l’arazzo tornò a Bayeux, dove
fu ripetutamente analizzato da vari studiosi e sopravvisse a numerose guerre. Comunque,
la sua strumentalizzazione politica continuò: nel 1944 venne esibito a Parigi,
dopo la liberazione della Francia dai tedeschi che l’avevano invasa. L’anno
successivo l’arazzo tornò nella sua città, dove può essere ammirato ancora
oggi, nello splendido museo allestito appositamente: il Musée de la Tapisserie,
dove è esposto in tutta la sua lunghezza in un grande e suggestivo ambiente
buio, con delle luci che illuminano solamente la tela.
LA VICENDA RACCONTATA NELL’ARAZZO, SCENA
PER SCENA
L’arazzo è sempre stato considerato una
notevole fonte d’informazione storica: è stato dimostrato dagli scavi e dai
ritrovamenti archeologici che anche i minimi dettagli raffigurati nella tela
corrispondono il più delle volte a verità. Vediamo alcune di queste verità.
L’arazzo illustra le capacità dei Normanni
come costruttori di castelli e di città fortificate e ci fa capire che le
fortezze erano sostanzialmente di due tipi: il primo è quello più diffuso in
Europa tra il X e il XV secolo, ovvero il semplice abitato fortificato in
pietra, munito di torri e cinta muraria. Nell’arazzo troviamo una splendida
raffigurazione di questo genere: la città di Rennes (figura 19) è riprodotta
con le sue mura merlate, le torri angolari e un dongione, ovvero la fortezza dove
risiedeva il signore all’interno dell’abitato. Questi erano gli elementi
costitutivi più tipici dei castelli in pietra, ampiamente documentati dai resti
archeologici (sappiamo che il dongione, inizialmente quadrato o rettangolare,
si trasforma prima in una costruzione poligonale e poi in una semplice torre
rotonda).
Il secondo tipo di fortificazione è quello
del castello con motta, cioè un abitato fortificato posto al di sopra di una
collina artificiale dalla forma troncoconica, che con la sua mole ne accresce
le possibilità di difesa. L’arazzo ne mostra almeno due di interessanti: quella
di Dinan (figura 20), che appare cinta da una palizzata, e quella fatta
costruire da Guglielmo a Hastings (figura 42), con un fossato attorno e sopra
una struttura in legno in allestimento. La cosa più interessante in questa
immagine è che la motta è rappresentata in sezione e composta da diversi strati
di terreno sovrapposti, ognuno di colore diverso. Si tratta probabilmente di
una delle prime raffigurazioni del concetto di stratigrafia, oggi largamente
usato dagli archeologi, che scavano appunto secondo degli strati sempre più
profondi.
Grazie ai numerosi scavi sappiamo che le
motte potevano arrivare fino a 15 metri di altezza. Queste strutture si
diffusero in Europa a partire dall’XI secolo, e sono caratteristiche (anche se
non esclusive) della cultura dei Normanni: essi ne costruirono anche in Italia
meridionale, dove non mancavano le alture sulle quali impiantare i castelli, e
spesso per costruire una motta riutilizzavano una struttura architettonica
preesistente.
Un altro elemento raffigurato più volte
nell’arazzo di Bayeux è quello dei palazzi e delle costruzioni in genere. Ne scaturisce
l’immagine di una società in grado di produrre edifici di ottimo livello,
completi di raffinati elementi decorativi. È il caso delle residenze reali, ad
esempio. Se guardiamo la rappresentazione della reggia di Guglielmo, quando
Aroldo vi si reca per un colloquio (figura 14), o quella di Aroldo, dove egli
pranza prima di imbarcarsi per la Normandia (figura 3), vediamo che sono ampi
edifici a due piani con logge, dotati di lunghe file di colonne che scandiscono
elegantemente gli spazi.
Ma anche alcune abitazioni comuni, pur se
di dimensioni inferiori, si contraddistinguono per caratteristiche simili: è il
caso della casa bruciata per evitare che si d’intralcio nei movimenti delle
truppe (figura 43).
Queste raffigurazioni testimoniano come il
massiccio ritorno all’edilizia in pietra, già iniziato prima dell’anno Mille,
costituisca nell’XI secolo un fenomeno sempre più diffuso, e come maestranze
specializzate e ben organizzate attraversino l’Europa, lasciando un segno
profondo e articolato sui paesaggi urbani e rurali. Questo tipo di strutture è
giunto in qualche caso fino a noi: pensiamo al Palazzo dei Normanni a Palermo,
finemente decorato con mosaici e con i soffitti in legno dipinto, o alla “Torre
bianca” di Londra.
Ma i Normanni non costruivano soltanto
castelli o palazzi: discendenti direttamente da una stirpe di grandi
navigatori, i Vichinghi, i Normanni erano abili costruttori di navi e l’arazzo
ce ne dà ampia dimostrazione. Visitando il museo di Oslo dedicato alle navi vichinghe,
ci si può rendere conto dell’estrema corrispondenza tra i reperti che vi sono
conservati e le raffigurazioni sulla tela di Bayeux. Le navi di Oslo risalgono
ai secoli IX e X, questo è vero, ma sono strettamente imparentate con quelle
dei Normanni: con esse condividono la tipica struttura a fasciame sovrapposto
(calafatato, cioè reso stagno, con fili di lana che evitavano le infiltrazioni
d’acqua), l’albero unico, la prua scolpita a raffigurare teste di animali mostruosi,
il timone costituito da un grande remo flessibile collocato a poppa e la
possibilità di fissare gli scudi dei soldati sul bordo dello scafo, per
protezione della ciurma e ornamento al tempo stesso.
Hanno proprio queste caratteristiche le
navi effigiate sull’arazzo, ad esempio nella scena in cui la flotta normanna fa
vela verso l’Inghilterra (figure 35 e 36), o quando Aroldo arriva nelle terre
di Guido di Ponthieu (figura 5), o ancora nelle figure 23 e 29.
L’arazzo di Bayeux ci dice, però, anche
qualcosa in più: ci informa dell’intero ciclo di lavorazione delle
imbarcazioni, scomposto nelle sue singole fasi. Vediamo così che, una volta
dato l’ordine da parte di Guglielmo, gli artigiani si recano nel bosco, dove
raccolgono il legname utilizzando un’ascia normale, del tipo ancora in voga ai
giorni nostri (figura 31). Inizia poi la lavorazione del legno (sempre figura
31), eseguita con l’ascia “barbuta”, dotata della caratteristica lama a forma
di T: questo arnese serviva a ridurre il legname in tavole o travi – come quella
accatastate dietro all’artigiano dell’arazzo – e veniva impiegato anche nell’edilizia.
Esemplari di asce barbute, databili ai secoli XI e XII, sono stati trovati
proprio in Normandia e in Inghilterra; i loro manici erano generalmente in
legno di quercia, scelto apposta per la sua robustezza.
Si passa infine al montaggio delle navi e
mentre a bordo lavorano due artigiani con un trapano e un’ascia, un terzo si
trova al di fuori dello scafo, per controllare l’esatto allineamento delle
tavole (ancora figura 31); era questo lo “specialista”, colui che decideva le
proporzioni e la linea delle imbarcazioni, e sappiamo che in Scandinavia chi
svolgeva questo ruolo fondamentale aveva diritto a una paga pari al doppio di
quella corrisposta ai semplici carpentieri.
Sull’arazzo di Bayeux sono intessute anche
due raffigurazioni di un altro momento particolarmente importante: il pranzo. La
prima è quella del pasto di Aroldo nel castello di Bosham (figura 3). La scena
ha dimensioni ridotte, però ci permette ugualmente qualche indicazione. Aroldo e
la sua corte mangiano seduti attorno a un tavolo e sembrano servirsi delle
pietanze direttamente da alcuni contenitori a forma di coppa, che, per la loro
semplicità, potremmo immaginare di legno. Del resto in molti scavi dell’Europa
settentrionale, dove le condizioni del terreno permettono il rinvenimento del
legno, sono tornate alla luce oggetti di questo genere, estremamente
funzionali: bisogna ricordare che in quest’epoca quasi non si usavano le
posate, al massimo infatti si adoperava un coltello e, più raramente, un
cucchiaio. Ciò che colpisce l’attenzione sono i contenitori per le bevande:
lunghi corni le cui estremità sono decorate con fasce in oro lavorato. Anche in
questo caso si tratta di un’eredità della cultura vichinga: recipienti del
tutto identici erano infatti usati da quella popolazione, ma si tratta di
oggetti in uso già qualche secolo prima. Conosciamo infatti esemplari di corni
adibiti a bicchieri fin dalla tarda antichità presso varie popolazioni europee,
o addirittura di una loro lussuosa variante: la riproduzione in vetro colorato
dello stesso oggetto, come alcuni reperti della necropoli di età longobarda di
Castel Trosino, datati al VII secolo.
La seconda scena ci dà ancora maggiori
informazioni: è quella del banchetto in onore di Guglielmo prima della
battaglia finale (figure 39, 40 e 41). Due servi cuociono la carne (come
specifica la “didascalia” in latino, sopra le loro teste) dentro un’ampia
pentola sospesa su un braciere; al di sopra vediamo tante pietanze differenti
infilzate su spiedini, tra cui un uccello che potrebbe anche essere una quaglia
o un pollo. Accanto, un uomo sorveglia la cottura di ciò che sembra pane, o
forse dolci, mentre altri due servi portano la carne in tavola, sempre sotto
forma di spiedini. Quindi c’è il banchetto vero e proprio: attorno a una tavola
a semicerchio stanno i convitati, che mangiano e bevono mentre il vescovo Odone
benedice il cibo. Davanti al vescovo si nota un pesce; ogni commensale è dotato
di un piatto e, alla propria destra, di una brocca di ceramica. I Normanni
usavano molto i contenitori in ceramica, come attestano gli scavi che nei siti
dell’Italia centro-meridionale (Salerno, Segesta) restituiscono anfore per l’olio
e grandi giare per la conservazione del grano o del pesce. Questi oggetti
potevano essere decorati in vari modi: dipinti, invetriati, o graffitati sulla
superficie.
L’arazzo di Bayeux è diviso in tre fasce:
quella centrale, più ampia, dove viene narrata la storia in modo lineare, e due
ai margini, in corrispondenza dei bordi. Questi margini sono stati sfruttati in
modi diversi da chi ha concepito l’oggetto: possono infatti accogliere dei
motivi puramente decorativi (soprattutto animali, veri o fantasiosi), essere
invasi da soggetti inerenti alla narrazione principale (tutta la parte finale è
piena di corpi di soldati morti o fatti a pezzi), oppure ospitare
rappresentazioni del tutto indipendenti da essa, tra cui favole o scene di vita
quotidiana. Alcune di queste ultime sono particolarmente interessanti, perché riguardano
il rapporto tra l’uomo e il mondo naturale.
Per esempio in una delle prime scene di
questo tempo si vede la coltivazione dei campi (figura 9): vi sono raffigurati
due personaggi, il primo dei quali indirizza un aratro munito di ruote, mentre
l’altro lo guida, frustando un asino. Davanti a loro c’è un contadino che
semina e un altro che lavora il terreno con un erpice. Scene di questo genere
testimoniano bene l’importanza di una delle conquiste di quell’epoca: l’introduzione,
attorno all’anno Mille, dell’aratro a versoio, che consentiva di rivoltare e
frantumare le zolle, aumentando così la fertilità del terreno. Un’innovazione
determinante per lo sviluppo dell’agricoltura, che anche grazie a essa venne
acquisendo un ruolo sempre più centrale nel panorama economico dell’Occidente.
Un altro momento fondamentale del rapporto
tra l’uomo e l’ambiente naturale è la caccia e il registro inferiore dell’arazzo
raffigura diverse scene con questo soggetto (figure 6, 9 e 11). Una di queste
scene riproduce l’uccellagione, praticata mediante una fionda (figura 9). In realtà
la forma più diffusa di uccellagione era quella con il falcone (spesso ritratto
nell’arazzo come insegna dei potenti) ed è noto che a questo passatempo
potevano partecipare anche le donne. Più in là (figure 11 e 12) è ritratta una
battuta di caccia con i cani: un uomo tiene due di questi animali al guinzaglio
e, per chiamare a raccoltala muta, soffia in un corno. Altri cani si stanno già
scagliando contro la preda, mentre accorre al galoppo un cavaliere che
brandisce una mazza. Attenti a preservare le zone di caccia, i sovrani normanni
si impegnarono nella regolamentazione del sistema forestale e contro il
bracconaggio. E chi violava le leggi poteva incorrere nella pena di morte.
[Il testo è stato adattato dall’articolo
di Andrea Augenti, pubblicato sul numero 30 della rivista Medioevo. Un passato da riscoprire (De Agostini – Rizzoli periodici)
nel luglio 1999]
Grazie
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