Approfondimenti

giovedì 28 aprile 2016

82 Il primo dopoguerra in Italia: dal biennio rosso alla marcia su Roma

IL PRIMO DOPOGUERRA IN ITALIA: DAL BIENNIO ROSSO ALLA MARCIA SU ROMA

Dopo la guerra i salari erano diminuiti e le condizioni di vita della popolazione erano pessime. Gli operai scioperavano per ottenere salari più alti e i contadini cominciarono a richiedere terre da coltivare. Gli anni 1919-1920 furono perciò un periodo di lotte sociali, chiamato il “biennio rosso”, perché le proteste vennero in prevalenza guidate dai socialisti e il rosso è il colore della sinistra. Nel giugno-luglio 1919 la protesta scoppiò a La Spezia e si estese rapidamente dal nord al centro-sud; divenne ancora più forte dove la forza pubblica rispose aprendo il fuoco sui dimostranti: migliaia di uomini e soprattutto di donne si riversarono spontaneamente nelle strade, saccheggiando i negozi e imponendo prezzi dimezzati.


Manifestanti durante il “biennio rosso”

Nel giugno 1920 i bersaglieri in partenza per l’Albania si ammutinarono e si impossessarono per due giorni della città di Ancona; in tutto l’anno gli scioperi furono oltre duemila e gli scioperanti oltre due milioni.
Nel settembre 1920 gli operai occuparono diverse fabbriche; in particolare a Torino, dove la FIAT licenziò tre operai che, per protestare contro l’introduzione dell’ora legale, avevano spostato di un’ora le lancette dell’orologio della fabbrica. Poi altre proteste si ebbero a Milano e di nuovo a Torino, dove gli operai si impossessarono delle fabbriche e cominciarono a produrre per conto proprio: la tensione presso le classi lavoratrici sembrava annunciare la rivoluzione.

Torino 1920: “guardie rosse” (cioè operai armati) durante l’occupazione delle fabbriche

Il governo, in cui era primo ministro Giovanni Giolitti, riuscì a porre fine all'occupazione, promettendo nuove leggi, secondo le quali anche gli operai sarebbero stati consultati per le decisioni che riguardavano la fabbrica. Gli industriali criticarono questa scelta, considerandola un cedimento nei confronti del socialismo; anche le frange più estreme del movimento operaio (quelle organizzate attorno al periodico “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci) furono in disaccordo - per tutt’altre ragioni - con la fine dell’occupazione delle fabbriche e provocarono nel gennaio 1921 la scissione del Partito Socialista, dando vita al Partito Comunista d’Italia.

L’esterno del teatro Goldoni di Livorno dove si svolse il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, che portò alla nascita del Partito Comunista Italiano

Nelle prime elezioni del dopoguerra (1919), a suffragio universale maschile, ci fu un grande successo dei nuovi partiti di massa: il Partito socialista, attivo fin dalla fine dell'Ottocento, che ottenne il 34% dei voti, e il Partito popolare, il primo partito italiano di ispirazione cattolica, fondato dal sacerdote Luigi Sturzo, che ottenne il 20% dei voti.

Da sinistra: Antonio Gramsci, don Luigi Sturzo, Benito Mussolini, tre protagonisti del primo dopoguerra italiano

Il biennio rosso e la forza dei partiti di massa spaventarono la borghesia. A sentirsi minacciata era soprattutto l'alta borghesia dei grandi proprietari: gli industriali e gli agrari (proprietari terrieri). Anche la piccola borghesia era però in crisi, perché le sue condizioni di vita stavano rapidamente peggiorando: i prezzi aumentavano e questa inflazione (ossia l'aumento dei prezzi, accompagnato alla perdita di valore della moneta) riduceva rapidamente il livello di vita, perché i guadagni (derivanti da rendite o da stipendi) degli impiegati statali e di una parte della piccola borghesia non aumentavano alla stessa velocità dei prezzi. Inoltre nella borghesia molti temevano che anche in Italia si creasse uno Stato comunista, come era avvenuto in Russia, e che tutte le proprietà, sia grandi, sia piccole, passassero sotto il controllo dello Stato.
Di questa situazione approfittarono i fascisti, cioè i seguaci di un gruppo politico (chiamato Fasci di combattimento) che era stato fondato a Milano nel 1919 da Benito Mussolini.

Una tessera di appartenenza ai “fasci di combattimento” fondati il 23 marzo 1919

Costui aveva iniziato la sua attività politica nel Partito Socialista, con posizioni fortemente antimilitariste e anticlericali (cioè di opposizione al potere della Chiesa). Dopo una giovinezza trascorsa tra la Svizzera e Trento (ancora sotto dominio austriaco) nel 1912 divenne direttore del quotidiano l'Avanti!, giornale del Partito Socialista.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale prima si schierò per la neutralità, ma poi cambiò la propria posizione politica, dichiarandosi a favore dell'intervento in guerra dell'Italia, e venne perciò espulso dal Partito Socialista. Con l'appoggio di industriali e finanzieri fondò un proprio quotidiano, Il Popolo d'Italia (1914), che condusse una campagna a favore dell'intervento.

Due prime pagine (dell’Avanti! e del Popolo d’Italia) del 1915

Dopo la guerra, a cui aveva partecipato come volontario, ma senza trovarsi mai nelle battaglie in prima linea (fu anche ferito, ma durante un’esercitazione), Mussolini fondò, appunto, i Fasci di combattimento, che riunivano soprattutto ex-combattenti e nazionalisti. Si presentò alle elezioni del 1919, ma non fu eletto. Dopo alcune incertezze, diede ai Fasci un programma nazionalista e in forte opposizione al socialismo, il che gli procurò l'appoggio degli industriali, degli agrari, di molti ex-combattenti. A partire dal 1920 organizzò squadre d'azione (spesso indicate come “squadracce”), in cui i militanti del movimento, dette “camicie nere” perché si vestivano proprio con questo capo d'abbigliamento, compivano spedizioni violente contro le organizzazioni socialiste: le squadracce attaccavano le sedi del Partito Socialista, dei sindacati, delle organizzazioni contadine e dei giornali di sinistra, incendiando gli edifici, picchiando e uccidendo i simpatizzanti di sinistra, terrorizzando i loro familiari. In tutta l'Italia centro-settentrionale in meno di 5 mesi (gennaio-maggio 1921) le incursioni fasciste provocarono oltre duecento morti.

Squadristi di Enna

I fascisti (che dal 1921 erano organizzati nel Partito fascista) non avevano l'appoggio solo dell'alta borghesia, ma anche quello di una parte della piccola borghesia, che temeva i cambiamenti sociali ed era insoddisfatta delle proprie condizioni. Il governo, la polizia e l'esercito non intervenivano per fermare le squadre d'azione e spesso aiutavano i fascisti: furono rarissimi gli episodi di scontri tra squadristi e forze dell’ordine. Anche la magistratura era indulgente nei confronti delle squadracce e delle loro violenze. In generale molti uomini politici erano convinti di poter usare il fascismo contro i socialisti, contando di riuscire poi a disfarsene.

Un gruppo di squadristi brucia libri e documenti sottratti a una sede socialista (1922)

Alle lezioni del 1921 i fascisti ottennero 35 seggi (su oltre 500): pur poco numerosi, i deputati del Partito fascista erano uniti e decisi ad agire. Al contrario, i deputati liberali che erano al governo erano divisi e credevano di poter governare con l'appoggio dei fascisti: benché tra i deputati socialisti e popolari molti fossero disponibili a formare un governo antifascista, i liberali rifiutarono questa soluzione.
Nel 1922, in una situazione di crisi economica (con un'inflazione che raggiungeva il 450%) e politica (per la debolezza e i frequenti mutamenti dei governi), Mussolini richiese di essere nominato primo ministro. Per costringere il governo a cedere, i fascisti minacciarono una marcia su Roma (24 ottobre) al termine della quale circa 26.000 uomini avrebbero occupato con la forza la città e preso il potere. Il re rifiutò di proclamare lo stato d'emergenza, cioè di mobilitare l'esercito per la difesa della capitale, e il 28 ottobre 1922 affidò a Mussolini l'incarico di formare il nuovo governo.

Mussolini e i suoi sostenitori durante la marcia su Roma




lunedì 25 aprile 2016

81 Il primo dopoguerra

IL PRIMO DOPOGUERRA

I trattati di pace che misero fine alla Prima guerra mondiale furono numerosi: il nucleo principale venne firmato a Parigi tra il gennaio e il giugno 1919 e registrò un fatto assolutamente nuovo nella politica internazionale, ossia la partecipazione massiccia e fondamentale degli Stati Uniti d'America, rappresentati dal presidente Thomas Woodrow Wilson in persona.

Da sinistra, Lloyd George (primo ministro del Regno Unito), Orlando (presidente del Consiglio italiano), Clemenceau (primo ministro francese) e Wilson (presidente USA) a Parigi il 27 maggio 1919

Già nel gennaio 1918 Wilson aveva presentato al Congresso (Parlamento) statunitense le sue idee in merito ai rapporti tra le nazioni da realizzare al termine del conflitto; le aveva denominate New Diplomacy e comprendevano «quattordici punti», completati in seguito da considerazioni di carattere più astratto. Il punto 1 auspicava una diplomazia aperta, senza più trattati segreti (come quello di Londra stipulato tra Italia e Stati dell'Intesa nel 1915); il punto 2 prevedeva la libertà dei mari; il punto 3 la diminuzione delle tariffe doganali; il punto 4 il disarmo parziale, purché fosse assicurata la sicurezza di un paese; il punto 5 la necessità di prendere in considerazione gli interessi indigeni nelle colonie. I punti successivi affrontavano i problemi territoriali delle Nazioni che avevano guerreggiato: alcuni di questi punti potevano essere lette in maniera ambigua e opposta. Il 14° punto proponeva la creazione della League of Nations (Società delle Nazioni, in italiano), un organismo internazionale che permettesse agli Stati di cooperare al fine di una pacifica convivenza, garantendo il diritto all'autodeterminazione dei popoli, ossia il loro diritto a decidere del proprio futuro.

Vignetta satirica del 1919 su Wilson che, con i suoi 14 punti in mano, giudica le rivendicazioni (claims) di Russia, Polonia, Italia, Francia, Inghilterra e del “nemico”

Wilson venne alla conferenza di Parigi con l'intento di imporre all'Europa i suoi 14 punti; assieme a lui arrivò un numero incredibile di diplomatici, di esperti e di giornalisti e, oltre alle delegazioni dei 27 Paesi alleati nel periodo bellico, giunsero missioni da tutto il mondo (perfino dalla Mongolia), ognuna per cercare di affermare diritti, per presentare rivendicazioni. È logico che i trattati che vennero firmati (compreso quello di Versailles, relativo alla Germania) abbiano dovuto trovare qualche compromesso tra la New Diplomacy statunitense e la diplomazia europea di tipo tradizionale.
Così, alla fine, i trattati del 1919 e 1920 imposero durissime condizioni agli Stati sconfitti: Germania, Austria-Ungheria e Impero Ottomano persero molti territori. La Germania in particolare perse l’Alsazia e la Lorena, la zona di Danzica e tutte le sue colonie e fu costretta a pagare, a titolo di riparazione di guerra, una somma astronomica in oro. Perciò in Austria e soprattutto in Germania e Turchia fu forte il risentimento per l’umiliazione della sconfitta e per le condizioni di pace imposte.

I delegati delle varie nazioni firmano il trattato di pace con la Germania nella sala degli Specchi della reggia di Versailles il 28 giugno 1919

I trattati portarono allo smembramento dei grandi imperi (l’Austria-Ungheria e la Russia, che si era ritirata dalla guerra) e alla nascita di molti nuovi Stati in tutta l’Europa orientale. In maggioranza erano Stati nazionali, cioè che riunivano al loro interno una nazione: solo la Cecoslovacchia e la Iugoslavia erano Stati multinazionali, ma abitati da popoli slavi affini.
In conseguenza della Prima guerra mondiale cambiò profondamente l’ordinamento politico di diversi Stati europei: la rivoluzione scoppiata in Russia (1917) e la sconfitta dell’Austria e dell’Impero Ottomano misero fine alle tre monarchie imperiali. Perciò mentre nel 1914 vi erano in Europa 17 monarchie e 3 repubbliche (Svizzera, Francia e Portogallo), nel 1919 vi erano 13 repubbliche e 13 monarchie. Queste ultime erano la Spagna, l’Italia, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (da cui si staccò la Repubblica d’Irlanda nel 1922), il Belgio, l’Olanda, la Danimarca, la Norvegia, la Svezia, la Iugoslavia, l’Albania, la Grecia, la Romania, la Bulgaria.
Erano repubbliche il Portogallo, la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Germania (la cosiddetta Repubblica di Weimar, nata da una rivoluzione nel 1918), la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, la Finlandia, la Russia (dal 1922 URSS).
La Turchia, progettata sui resti dell’Impero Ottomano, fu inizialmente una monarchia, ma divenne una repubblica nel 1923.

I nuovi confini dell’Europa dopo le conferenze di pace (1919-1920)

Tutti i nuovi Stati nati al termine della Prima guerra mondiale adottarono costituzioni democratiche e negli Stati sconfitti si ebbero profonde trasformazioni politiche (come, ad esempio, nell’Unione Sovietica). In molti di questi Stati le donne ottennero il diritto di voto, cosa che avvenne anche negli Stati Uniti nel 1920; non fu così in Italia e in Francia.
In seguito all’estensione del suffragio, acquistarono un’importanza sempre maggiore i partiti di massa, che avevano una larga base popolare e non rappresentavano solo le classi superiori: tra questi vi erano i partiti di sinistra (socialisti e poi comunisti) e quelli cattolici.

È dopo la Grande Guerra che si formano dei veri e propri partiti di massa, contro i quali il potere eserciterà la repressione (come nella foto a Berlino nel 1920), o riuscirà a coinvolgerli – spesso passivamente – nelle loro “rivoluzioni” (come in Russia, Italia e Germania)

L’Italia ottenne molti territori:
- il Trentino, Trieste e Zara (in Dalmazia), che erano abitati in netta prevalenza da italiani;
- il Tirolo meridionale (Alto Adige), dove prevalevano i tedeschi;
- un vasto territorio, abitato da sloveni, a est del Friuli (la Venezia Giulia);
- l’Istria, dove vi erano molti italiani (il 36% nel 1910), ma anche molti croati (41%) e alcuni sloveni (14%);
- alcune isole in Dalmazia.
In questo modo l’Italia aveva ottenuto le terre abitate da italiani e altre su cui secondo il principio di nazionalità (per cui ogni nazione doveva costituire un proprio stato) non avrebbe avuto nessun diritto.
Nonostante questo una parte della borghesia nazionalista, che avrebbe voluto fare dell’Italia una potenza imperialista, considerò insufficienti i territori ottenuti e criticò i trattati di pace, dicendo che la vittoria era stata mutilata. Fu il poeta Gabriele D’Annunzio a coniare questa espressione: D’Annunzio, che assunse il ruolo di capo ideale dei nazionalisti italiani, guidò nel 1919 un contingente di militari ed ex-militari all’occupazione della città di Fiume, in Istria, posta allora sotto controllo internazionale. L’occupazione della città era stata progettata come mezzo di pressione sul governo italiano, impegnato nelle trattative di pace, ma si prolungò per molti mesi e si trasformò in una singolare esperienza politica con un governo provvisorio e una serie di rituali collettivi (adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla), che sarebbero più tardi stati ripresi e applicati in più larga scala dal fascismo. La “questione fiumana” venne risolta da Giolitti, ritornato al governo nel 1920, con il trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che assegnava alla Iugoslavia la Dalmazia (tranne Zara e alcune isole) e faceva di Fiume uno Stato libero indipendente; poiché D’Annunzio e i nazionalisti rifiutarono il trattato, il governo italiano liberò Fiume con la forza.

Gabriele D’Annunzio parla ai suoi “legionari” a Fiume il 18 marzo 1920

La Prima guerra mondiale cambiò gli equilibri politici internazionali. La Germania venne ridimensionata nei suoi confini e privata delle colonie, l’Austria-Ungheria scomparve come grande potenza e per la Russia cominciò un periodo di crisi, legato alla rivoluzione.
Francia e Regno Unito ottennero le colonie tedesche e si divisero i domini dell’Impero Ottomano nel Medio Oriente, facendosi affidare dalla Società delle Nazioni (istituita nel 1920) questi territori come mandato, ossia in amministrazione temporanea di una colonia, in modo da poter controllare la produzione di petrolio: esso infatti stava acquistando un’importanza sempre maggiore come combustibile per i mezzi di trasporto.
La guerra aveva dimostrato che gli USA costituivano ormai un elemento determinante negli equilibri internazionali, ma negli anni successivi alla guerra gli Stati Uniti seguirono una politica isolazionista, intervenendo solo nell’America centro-meridionale. Sarà la Seconda guerra mondiale a spingere nuovamente gli Stati Uniti sulla scena internazionale.

Il 14 luglio 1919 la Festa della Repubblica Francese a Parigi diventa Festa della vittoria: i risarcimenti di guerra pretesi dalla Francia furono così alti, da essere giudicati da molti economisti difficilmente rimborsabili da parte della Germania



giovedì 14 aprile 2016

80 La rivoluzione russa

LA RIVOLUZIONE RUSSA

Per comprendere la storia moderna della Russia c’è un dato fondamentale da tener presente: la sua vastità, che ne fa lo Stato più grande nel mondo. Pur così grande, l’Impero russo aveva una necessità particolare, quella di raggiungere il mare ad una latitudine conveniente, poiché le zone costiere sul Mar Glaciale Artico non permettevano certo grandi possibilità di sviluppo.
Ciò spiega le conquiste che gli zar operarono dai tempi di Pietro il Grande (fine ‘600 – inizio ‘700) in poi: in particolare con Pietro il Grande alcuni territori sul Baltico e la penisola di Kamčatka; con Caterina II (seconda metà del ‘700) l’area che va dalla Lettonia al Caucaso e comprendente una parte dell’Ucraina; nella prima metà dell’Ottocento la Finlandia, la Polonia, la Georgia e il Turkestan (Asia centrale); nella seconda metà dell’Ottocento la regione a oriente del Mar Caspio e quella dell’Amur (a nord della Corea).



Un territorio così vasto ha bisogno, per essere governato, di un potere fortemente centralizzato; gli zar, inoltre, inglobando nel loro impero una grande quantità di popoli diversi, dovevano riuscire a russificarli, cioè ad estendere a questi popoli la cultura, le tradizioni, il senso di appartenenza etnica tipici della Russia. Operazione più facile a oriente, dove si trovavano o spazi relativamente vuoti, oppure popoli in parte nomadi e sprovvisti di una marcata identità nazionale; più difficile a occidente, con i Polacchi che erano cattolici (mentre i Russi erano ortodossi), o con i popoli baltici, diversi per etnia e religione e che subivano una forte influenza tedesca.
Un caso a parte era costituito dagli Ebrei, che in Russia erano circa 5 milioni: nei loro confronti vi erano un forte e antico odio razziale e l’accusa di sfruttamento economico. Lo stato zarista incoraggiò, con successo, l’antisemitismo, con numerosi pogrom, ossia con esplosioni di violenza popolare contro gli Ebrei, già soggetti a diverse restrizioni e impediti nei loro sforzi di assimilarsi agli altri russi.

Raffigurazione di un gruppo di Ebrei a Kiev nel 1881

Dal punto di vista economico l’Impero Russo era sicuramente arretrato rispetto all’Europa occidentale. Solo nel 1861 lo zar Alessandro II aveva abolito la servitù della gleba e ai contadini vennero affidate alcune terre, che però rimanevano di proprietà di comunità di villaggio (dette mir), le quali le distribuivano alle singole famiglie; ma la Russia era uno stato prevalentemente agricolo, con problemi nel modo di produrre e nella proprietà terriera, in grandissima maggioranza nelle mani dei nobili.

Scena contadina in un dipinto di Sergej V. Ivanov del 1908

La costruzione di ferrovie a partire dal 1870, la nascita di un’industria pesante alla fine del secolo, lo sviluppo dell’industria tessile che a sua volta alimentò il commercio, la scoperta di petrolio nel Caucaso fanno pensare che la Russia avrebbe potuto intraprendere la strada già percorsa dagli Stati europei più avanzati; in realtà nel 1914 lo sviluppo industriale nell’Impero Russo era appena agli inizi.

Operai di un’industria russa all’inizio del Novecento

Infine, dal punto di vista politico la Russia era uno stato autocratico (cioè dispotico e assolutistico), in particolare con la salita al trono di Alessandro III nel 1881; proprio per questo gli zar dovettero fare i conti con numerosi attentati terroristici e con un diffuso malcontento popolare, che portò alla creazione di movimenti o partiti rivoluzionari di vario tipo. Tra questi il Partito socialdemocratico, fondato nel 1898, che introdusse in Russia le idee marxiste e che, diviso in correnti diverse, vide nel 1903 in un congresso tenuto a Londra la maggioranza andare al gruppo più estremo guidato da Lenin (pseudonimo con cui è noto Vladimir Ilič Uljanov): questo gruppo viene comunemente detto dei bolscevichi, termine russo che significa semplicemente “maggioranza”, di contro al gruppo dei menscevichi, ossia “minoranza”.

Lenin in una foto del 1917

La Russia nel 1904 si trovò in guerra contro il Giappone per il controllo delle terre dell’estremo Oriente: con sorpresa dello stesso piccolo Giappone, il colosso russo perse la guerra per terra e per mare e anche alcuni territori. La sconfitta, inoltre, fece scoppiare una rivoluzione (1905), che costrinse lo zar Nicola II (al trono dal 1894) a concedere una costituzione e a creare un Parlamento (Duma); poiché, però, il potere rimaneva comunque nelle mani dello zar, il malcontento del popolo continuava. In particolare quello dei socialdemocratici, che diedero vita a un’organizzazione nuova, i soviet (= consigli), formata da operai che si diedero il compito sia di organizzare scioperi, sia di cercare la strada più opportuna per prendere il potere. Di fronte alla repressione dell’esercito e della polizia, con migliaia di oppositori incarcerati e giustiziati, la spinta rivoluzionaria si esaurì entro la fine del 1906.

Lo zar Nicola II

Era in queste condizioni che la Russia entrò nella Prima guerra mondiale nel 1914 a fianco della Francia, con cui era alleata dal 1892.
Ma la condotta disastrosa delle operazioni belliche (già nel 1915 la Russia aveva perso Polonia, Lituania, parte dell’Ucraina, della Bielorussia e della Lettonia), la paurosa inefficienza e corruzione dell’amministrazione statale, l’arroganza e gli intrighi della corte zarista, la penuria di generi alimentari scavarono un baratro tra gli ambienti governativi e la popolazione.
A Pietrogrado (il nome assunto nel 1914 da San Pietroburgo, la capitale dell’Impero Russo) il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo secondo il calendario gregoriano in uso in occidente, sfasato di qualche giorno rispetto a quello ortodosso russo) si svolse una manifestazione pacifica di donne, alle quali si unirono operai licenziati e migliaia di lavoratori in sciopero. Nei giorni successivi gli scioperanti crebbero di numero e si scontrarono con le forze di polizia a cavallo; l’esercito, chiamato a intervenire per far cessare i disordini, si ribellò all’ordine di sparare sui dimostranti e numerosi reparti di soldati fraternizzarono con gli operai. Si formò un nuovo soviet, formato non solo da operai, ma anche da militari.

Soldati armati a Pietrogrado nel 1917

La rivoluzione del febbraio (o marzo) 1917 si estese da Pietrogrado a Mosca e ad altre città russe: Nicola II dovette abdicare, lasciando il potere a un governo provvisorio, il quale si venne a trovare in contrasto con i diversi soviet che erano sorti nelle diverse città e che erano controllati dai bolscevichi.
Nei mesi successivi contrasti su come agire e lotte tra i diversi gruppi si susseguirono un po’ dappertutto: grazie al prestigio di cui godeva, Lenin riuscì a far accettare il suo programma, che comprendeva quattro punti principali:
- il ritiro della Russia dalla guerra
- la distribuzione delle terre ai contadini
- il controllo delle fabbriche assegnato agli operai
- la libertà di scelta per tutte le minoranze nazionali presenti all’interno della Russia.
Nel luglio 1917 si formò un nuovo governo, guidato da Aleksandr Kerenskij, un moderato, che manifestò la volontà di continuare ad ogni costo la guerra contro i tedeschi, sebbene al fronte la situazione peggiorasse irrimediabilmente: sempre più numerosi erano gli ammutinamenti, le diserzioni, le violenze contro gli ufficiali, gli episodi di fraternizzazione con i soldati nemici.

Soldati russi fraternizzano con i tedeschi sul fronte orientale

Intanto i bolscevichi riscuotevano consensi sempre più ampi tra le masse popolari, su cui era sempre più forte lo spettro della fame e della disoccupazione. In ottobre Lenin maturò l’idea che fosse possibile attuare una nuova insurrezione armata, stavolta contro il governo Kerenskij: venne scelta la data del 25 ottobre (il 7 novembre secondo il calendario gregoriano).
Nella notte dal 24 al 25 ottobre le guardie rosse bolsceviche occuparono le stazioni ferroviarie e i principali edifici pubblici di Pietrogrado: Kerenskij fuggì con l’intenzione di tornare nella capitale alla testa di truppe fedeli. Per completare la presa del potere mancava solo la conquista del Palazzo d’Inverno, l’ex residenza degli zar, divenuta la sede del governo provvisorio. La presa del Palazzo e l’arresto dei ministri da parte dei rivoltosi sancì la vittoria dell’insurrezione, attuata con estrema decisione e rapidità e senza eccessivo spargimento di sangue: si tratta di quella che viene comunemente chiamata rivoluzione d’ottobre.

L’assalto al Palazzo d’Inverno in un francobollo russo emanato nel 1987 per il 70° anniversario della Rivoluzione d’ottobre, con un dipinto di V. A. Serov

Il nuovo governo (di tipo socialista) stabilì un armistizio con gli imperi centrali. La situazione di inferiorità in campo militare, una nuova avanzata tedesca e i gravi problemi che comportava la gestione del potere (osteggiata da varie forze interne) costrinsero il governo rivoluzionario russo ad accettare una pace durissima, che comportò la perdita di tutti i territori occidentali dello Stato (pace di Brest-Litovsk, marzo 1918).

La firma della pace di Brest-Litovsk

Dopo la rivoluzione d’ottobre i bolscevichi cominciarono ad attuare il loro programma di riforme. Le fabbriche passarono sotto il controllo dei consigli operai e le terre dello Stato, dei nobili e dei monasteri furono distribuite a tutti coloro che ne facevano richiesta, in modo che ognuno potesse vivere del proprio lavoro di contadino. La distribuzione della terra migliorò le condizioni di vita nelle campagne, ma non poté risolvere i problemi che nascevano dall’arretratezza delle tecniche di coltivazione.

Un soviet a Pietrogrado nel luglio 1920

Le potenze europee erano ostili al governo sovietico (cioè dei soviet), perché temevano che la rivoluzione potesse diffondersi negli altri Paesi. Esse perciò attuarono un blocco economico, eliminando ogni forma di commercio con la Russia. Inoltre favorirono la formazione di eserciti controrivoluzionari, chiamati armate bianche, in opposizione all’armata rossa, ossia l’esercito rivoluzionario. Grazie anche ai finanziamenti europei, la Russia fu agitata da una guerra civile che tra il 1918 e il 1920 tolse al controllo del governo bolscevico vaste regioni, bloccò i trasporti, impedì i rifornimenti di combustibile, grano e materie prime e provocò grandi distruzioni. Nel luglio 1918 il soviet della città di Ekaterinburg, temendo l’avanzata di un’armata bianca, decise l’uccisione dello zar Nicola II e di tutta la sua famiglia: la moglie e i cinque figli.

Lo zar Nicola II con la sua famiglia

In Russia la situazione divenne sempre più grave: nelle città mancava completamente il cibo, le epidemie facevano strage tra la popolazione affamata, il legname veniva utilizzato come combustibile nelle industrie, perciò mancava il riscaldamento nelle case. Il governo sovietico cercò di risolvere il problema con provvedimenti d’emergenza, che finirono per peggiorare la situazione, tanto che nel 1921 il cattivo raccolto provocò almeno cinque milioni di morti per fame.

Bambini fotografati durante la carestia seguita alla guerra civile del 1919-1921

Nel 1922 l’Impero Russo divenne l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), una federazione in cui il territorio di ogni popolo formava una repubblica autonoma.
Il partito bolscevico russo, che nel 1918 prese il nome di Partito comunista, organizzò a Mosca una conferenza internazionale comunista (1919): da questa conferenza nacque la Terza Internazionale o Internazionale Comunista (Comintern) che riuniva i partiti socialisti rivoluzionari.
Questi partiti, nella maggior parte nati dalla scissione dei partiti socialisti esistenti (Germania, 1917; Francia, 1920; Italia, 1921), si chiamarono comunisti per distinguersi dai partiti socialisti riformisti, che miravano a trasformare la società attraverso riforme e non attraverso la lotta rivoluzionaria.

Lenin alla conferenza internazionale comunista del 1919