IL PRIMO DOPOGUERRA IN ITALIA: DAL BIENNIO ROSSO ALLA MARCIA
SU ROMA
Dopo la guerra i salari erano
diminuiti e le condizioni di vita della popolazione erano pessime. Gli operai
scioperavano per ottenere salari più alti e i contadini cominciarono a richiedere
terre da coltivare. Gli anni 1919-1920 furono perciò un periodo di lotte
sociali, chiamato il “biennio rosso”, perché le proteste vennero in prevalenza
guidate dai socialisti e il rosso è il colore della sinistra. Nel giugno-luglio
1919 la protesta scoppiò a La Spezia e si estese rapidamente dal nord al
centro-sud; divenne ancora più forte dove la forza pubblica rispose aprendo il
fuoco sui dimostranti: migliaia di uomini e soprattutto di donne si riversarono
spontaneamente nelle strade, saccheggiando i negozi e imponendo prezzi
dimezzati.
Manifestanti durante il “biennio rosso”
Nel giugno 1920 i bersaglieri in
partenza per l’Albania si ammutinarono e si impossessarono per due giorni della
città di Ancona; in tutto l’anno gli scioperi furono oltre duemila e gli
scioperanti oltre due milioni.
Nel settembre 1920 gli operai
occuparono diverse fabbriche; in particolare a Torino, dove la FIAT licenziò
tre operai che, per protestare contro l’introduzione dell’ora legale, avevano
spostato di un’ora le lancette dell’orologio della fabbrica. Poi altre proteste
si ebbero a Milano e di nuovo a Torino, dove gli operai si impossessarono delle
fabbriche e cominciarono a produrre per conto proprio: la tensione presso le
classi lavoratrici sembrava annunciare la rivoluzione.
Torino 1920: “guardie rosse” (cioè operai armati) durante l’occupazione
delle fabbriche
Il governo, in cui era primo
ministro Giovanni Giolitti, riuscì a porre fine all'occupazione, promettendo
nuove leggi, secondo le quali anche gli operai sarebbero stati consultati per
le decisioni che riguardavano la fabbrica. Gli industriali criticarono questa
scelta, considerandola un cedimento nei confronti del socialismo; anche le
frange più estreme del movimento operaio (quelle organizzate attorno al
periodico “Ordine Nuovo” di Antonio Gramsci) furono in disaccordo - per
tutt’altre ragioni - con la fine dell’occupazione delle fabbriche e provocarono
nel gennaio 1921 la scissione del Partito Socialista, dando vita al Partito
Comunista d’Italia.
L’esterno del teatro Goldoni di Livorno dove si svolse il XVII
Congresso del Partito Socialista Italiano, che portò alla nascita del Partito
Comunista Italiano
Nelle prime elezioni del
dopoguerra (1919), a suffragio universale maschile, ci fu un grande successo
dei nuovi partiti di massa: il Partito socialista, attivo fin dalla fine
dell'Ottocento, che ottenne il 34% dei voti, e il Partito popolare, il primo
partito italiano di ispirazione cattolica, fondato dal sacerdote Luigi Sturzo,
che ottenne il 20% dei voti.
Da sinistra: Antonio Gramsci, don Luigi Sturzo, Benito Mussolini, tre
protagonisti del primo dopoguerra italiano
Il biennio rosso e la forza dei
partiti di massa spaventarono la borghesia. A sentirsi minacciata era
soprattutto l'alta borghesia dei grandi proprietari: gli industriali e gli
agrari (proprietari terrieri). Anche la piccola borghesia era però in crisi, perché
le sue condizioni di vita stavano rapidamente peggiorando: i prezzi aumentavano
e questa inflazione (ossia l'aumento dei prezzi, accompagnato alla perdita di
valore della moneta) riduceva rapidamente il livello di vita, perché i guadagni
(derivanti da rendite o da stipendi) degli impiegati statali e di una parte
della piccola borghesia non aumentavano alla stessa velocità dei prezzi.
Inoltre nella borghesia molti temevano che anche in Italia si creasse uno Stato
comunista, come era avvenuto in Russia, e che tutte le proprietà, sia grandi,
sia piccole, passassero sotto il controllo dello Stato.
Di questa situazione
approfittarono i fascisti, cioè i seguaci di un gruppo politico (chiamato Fasci
di combattimento) che era stato fondato a Milano nel 1919 da Benito Mussolini.
Una tessera di appartenenza ai “fasci di combattimento” fondati il 23
marzo 1919
Costui aveva iniziato la sua
attività politica nel Partito Socialista, con posizioni fortemente
antimilitariste e anticlericali (cioè di opposizione al potere della Chiesa).
Dopo una giovinezza trascorsa tra la Svizzera e Trento (ancora sotto dominio
austriaco) nel 1912 divenne direttore del quotidiano l'Avanti!, giornale
del Partito Socialista.
Allo scoppio della Prima guerra
mondiale prima si schierò per la neutralità, ma poi cambiò la propria posizione
politica, dichiarandosi a favore dell'intervento in guerra dell'Italia, e venne
perciò espulso dal Partito Socialista. Con l'appoggio di industriali e
finanzieri fondò un proprio quotidiano, Il
Popolo d'Italia (1914), che condusse una campagna a favore dell'intervento.
Due prime pagine (dell’Avanti!
e del Popolo d’Italia) del 1915
Dopo la guerra, a cui aveva
partecipato come volontario, ma senza trovarsi mai nelle battaglie in prima
linea (fu anche ferito, ma durante un’esercitazione), Mussolini fondò, appunto,
i Fasci di combattimento, che riunivano soprattutto ex-combattenti e
nazionalisti. Si presentò alle elezioni del 1919, ma non fu eletto. Dopo alcune
incertezze, diede ai Fasci un programma nazionalista e in forte opposizione al
socialismo, il che gli procurò l'appoggio degli industriali, degli agrari, di
molti ex-combattenti. A partire dal 1920 organizzò squadre d'azione (spesso
indicate come “squadracce”), in cui i militanti del movimento, dette “camicie
nere” perché si vestivano proprio con questo capo d'abbigliamento, compivano
spedizioni violente contro le organizzazioni socialiste: le squadracce
attaccavano le sedi del Partito Socialista, dei sindacati, delle organizzazioni
contadine e dei giornali di sinistra, incendiando gli edifici, picchiando e
uccidendo i simpatizzanti di sinistra, terrorizzando i loro familiari. In tutta
l'Italia centro-settentrionale in meno di 5 mesi (gennaio-maggio 1921) le
incursioni fasciste provocarono oltre duecento morti.
Squadristi di Enna
I fascisti (che dal 1921 erano
organizzati nel Partito fascista) non avevano l'appoggio solo dell'alta
borghesia, ma anche quello di una parte della piccola borghesia, che temeva i
cambiamenti sociali ed era insoddisfatta delle proprie condizioni. Il governo,
la polizia e l'esercito non intervenivano per fermare le squadre d'azione e
spesso aiutavano i fascisti: furono rarissimi gli episodi di scontri tra
squadristi e forze dell’ordine. Anche la magistratura era indulgente nei
confronti delle squadracce e delle loro violenze. In generale molti uomini
politici erano convinti di poter usare il fascismo contro i socialisti,
contando di riuscire poi a disfarsene.
Un gruppo di squadristi brucia libri e documenti sottratti a una sede
socialista (1922)
Alle lezioni del 1921 i fascisti
ottennero 35 seggi (su oltre 500): pur poco numerosi, i deputati del Partito
fascista erano uniti e decisi ad agire. Al contrario, i deputati liberali che
erano al governo erano divisi e credevano di poter governare con l'appoggio dei
fascisti: benché tra i deputati socialisti e popolari molti fossero disponibili
a formare un governo antifascista, i liberali rifiutarono questa soluzione.
Nel 1922, in una situazione di
crisi economica (con un'inflazione che raggiungeva il 450%) e politica (per la
debolezza e i frequenti mutamenti dei governi), Mussolini richiese di essere
nominato primo ministro. Per costringere il governo a cedere, i fascisti
minacciarono una marcia su Roma (24 ottobre) al termine della quale circa
26.000 uomini avrebbero occupato con la forza la città e preso il potere. Il re
rifiutò di proclamare lo stato d'emergenza, cioè di mobilitare l'esercito per
la difesa della capitale, e il 28 ottobre 1922 affidò a Mussolini l'incarico di
formare il nuovo governo.
Mussolini e i suoi sostenitori durante la marcia su Roma