LA SOCIETÀ NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO
Le grandi trasformazioni (politiche,
economiche, tecnologiche) che avvennero nell’Ottocento ebbero, ovviamente,
delle ripercussioni sulla composizione sociale.
La nobiltà, che da secoli era la classe dominante,
perse il suo ruolo, a vantaggio della borghesia, che acquistò maggiori
ricchezze e, grazie alle Costituzioni e al diritto di voto, anche più potere.
Molti nobili conservarono comunque grandi
ricchezze, ma altri videro ridursi le loro rendite e furono costretti a cercare
lavoro: poiché per tradizione un nobile poteva lavorare solo per il re e per la
patria, essi scelsero la carriera diplomatica o quella militare, oppure
cercarono impiego negli uffici pubblici.
Nobiltà e borghesia avevano un interesse
comune: impedire i grandi cambiamenti sociali richiesti dal proletariato.
Perciò si creò un’alleanza tra le due classi e divennero frequenti i matrimoni
tra esponenti della borghesia e della nobiltà. Per i nobili questi matrimoni
erano un mezzo per mantenere (o riprendere) un alto tenore di vita; per i
borghesi invece essi offrivano la possibilità di entrare in una classe sociale
considerata comunque superiore: nell’alta borghesia, infatti, molti aspiravano
a ottenere un titolo nobiliare e a condurre la vita degli aristocratici,
lasciando il mondo degli affari e vivendo di rendita.
Tre
diversi dipinti (opere di fine Ottocento o dell’inizio del Novecento) del
pittore ferrarese Giovanni Boldini, raffiguranti altrettante aristocratiche
La borghesia, dunque, divenne la classe
dominante in tutta l’Europa industrializzata.
Al suo interno vi si distinguevano due
gruppi: quello dell’alta e media borghesia e quello della piccola borghesia.
Il primo gruppo comprendeva i principali
imprenditori (proprietari di industrie, di banche, di imprese commerciali) e
coloro che svolgevano un lavoro ad alto reddito, sia in proprio (come medici e
avvocati), sia alle dipendenze di altri (come i dirigenti delle grandi imprese
o gli insegnanti delle Università). Si trattava quasi sempre di uomini: in
Francia nel 1914, in un Paese e in un periodo in cui la condizione femminile
era molto migliorata rispetto all’Ottocento, le donne avvocato erano solo una
dozzina, quelle medico poche centinaia. Le donne della borghesia, quindi, raramente
erano borghesi in quanto svolgevano una professione “borghese”: lo erano perché
figlie o mogli di uomini appartenenti a questa classe sociale.
Un
collegio femminile di medicina a New York nel 1870; una grande novità per
l’epoca
La piccola borghesia era assai meno ricca
e potente dell’alta e media borghesia, anche se più numerosa. Essa era
costituita da artigiani, negozianti, osti e altri lavoratori in proprio. Di
questa classe facevano parte anche gli impiegati (che lavoravano in uffici pubblici
o in imprese private) e che venivano indicati solitamente come “ceto medio”.
Una parte della borghesia, soprattutto in
alcuni Paesi come la Francia, non viveva del proprio lavoro, bensì di rendite,
basate sui capitali investiti in edifici (case date in affitto) o in titoli di
Stato, ossia in prestiti fatti allo stato, da cui ricavare degli interessi fino
a che il prestito non fosse stato rimborsato. Tali rendite assicuravano un
guadagno senza rischi. Molti liberi professionisti si ritiravano dal lavoro,
dopo aver accumulato rendite sufficienti per vivere senza lavorare.
In
questo celebre dipinto (Bal au Moulin de la Galette) l’autore (Pierre-Auguste
Renoir) ha rappresentato nel 1876 la spensieratezza di una piccola e media
borghesia in uno dei momenti storici più importanti della sua esistenza
I contadini delle campagne costituivano
all’inizio del secolo la maggioranza della popolazione in tutti gli Stati
europei, ma il loro numero andò continuamente diminuendo negli Stati
industrializzati. Anche se non mancavano i contadini ricchi, molti di loro
vivevano in condizioni di grande povertà, certamente non migliori di quelle
degli operai, che facevano parte del proletariato urbano.
Questo ceto sociale era formato da
salariati che svolgevano lavori diversi: nelle fabbriche erano impiegati,
appunto, gli operai, il cui numero crebbe notevolmente con la diffusione della
seconda rivoluzione industriale; molti lavoratori, per lo più donne, lavoravano
a domicilio (cioè in casa) per le industrie tessili, grazie alla macchina da
cucire; altri erano domestici, che lavoravano nelle case dei nobili e dei
borghesi.
Sarta
a domicilio a Quinto di Treviso nel 1884
A causa della grande povertà, il
proletariato viveva in case sovraffollate e in cattive condizioni igieniche.
Questa situazione provocava una forte mortalità: le epidemie di colera del XIX
secolo colpirono soprattutto i quartieri popolari e nel 1832 questa malattia
uccise 18.602 persone nella sola Parigi.
Ancora peggiori erano le condizioni di
coloro che non avevano un lavoro fisso e vivevano di lavori precari, se non di
elemosina o di attività criminali; diffusa era la prostituzione femminile.
Dall’alto
a sinistra e in senso orario: contadini italiani, minatori statunitensi,
bambini mendicanti a New York, allevatori di pecore in Nuova Zelanda
Stipendiati con salari molto bassi, che
garantivano di solito la pura sopravvivenza, e costretti a orari di lavoro
massacranti, gli operai delle industrie cominciarono fin dai primi decenni
dell’Ottocento ad avanzare (a richiedere) due rivendicazioni principali:
l’aumento del salario e la riduzione dell’orario di lavoro.
Per far accettare le loro richieste, essi
ricorrevano allo sciopero, cioè al rifiuto di lavorare: lo sciopero danneggiava
il proprietario delle fabbriche, perché ogni interruzione della produzione
comportava un mancato guadagno. Sciopero e manifestazioni accompagnarono la
diffusione delle industrie, prima in Inghilterra (1816-1819), poi negli altri
Paesi dell’Europa occidentale (come la Francia: Lione 1831; Parigi 1834).
“Sciopero”,
un dipinto del 1895 dell’ungherese Mihaly Munkacsy
Perché lo sciopero avesse successo, i
lavoratori dovevano organizzarsi: nacquero perciò i primi sindacati, che erano
appunto associazioni di lavoratori, riuniti per organizzare scioperi e
manifestazioni di protesta.
Nacquero anche movimenti e partiti
politici, che ponevano al centro della loro azione proprio la questione
sociale, vale a dire il problema delle condizioni di lavoro e di vita della
parte più numerosa della società (dapprima il proletariato urbano, poi anche
quello rurale); per questo motivo essi furono chiamati partiti socialisti o
partiti dei lavoratori, come in Germania nel 1875 o in Italia nel 1892. Tali
partiti rappresentavano inizialmente gli interessi degli operai e richiedevano
una profonda trasformazione della società: essi volevano l’estensione del
diritto di voto a tutti, una redistribuzione delle ricchezze tra i cittadini e
talvolta l’abolizione della proprietà privata e la messa in comune tra tutti
dei beni esistenti (coloro che sostenevano questo vennero detti comunisti e
comunismo il loro movimento).
Manifesto
per il giornale “Avanti!” e copertina di una pubblicazione mensile socialista
Movimenti e partiti diffondevano le loro
idee attraverso i giornali, anche se gli operai erano spesso in maggioranza
analfabeti; trovarono però persone istruite (scrittori o maestri di scuola),
che spiegavano le loro richieste ai salariati e che facevano di tutto per
spingere gli operai ad alfabetizzarsi, magari frequentando delle scuole serali
dopo il lavoro.
All’interno del socialismo (come venne
chiamato genericamente il movimento che sosteneva la creazione di una società
basata su una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani) si crearono però delle
posizioni molto diverse, che resero sempre difficile la collaborazione.
I socialisti rivoluzionari si ispiravano
alle teorie di Karl Marx, un filosofo tedesco che assieme al connazionale Friedrich
Engels aveva pubblicato nel 1848 il Manifesto
del Partito Comunista, in cui sosteneva che il proletariato avrebbe dovuto
prendere il potere con una rivoluzione.
Karl
Marx e Friedrich Engels ai lati della copertina del loro “Manifesto del Partito
Comunista”
Ai socialisti rivoluzionari si opponevano
i socialisti riformisti (o socialdemocratici), secondo i quali la condizione
operaia avrebbe potuto essere migliorata attraverso una serie di riforme
pacifiche, senza quindi il ricorso a una rivoluzione.
Altri invece sostenevano che solo
eliminando ogni governo, e quindi ogni potere di un uomo su altri uomini,
sarebbe stato possibile costruire una società più giusta: costoro erano gli
anarchici. Essi ritenevano che qualunque tipo di stato poteva solo creare una
situazione di disuguaglianza, in quanto qualcuno avrebbe avuto comunque più
potere degli altri. Per questo prevedevano la creazione di consorzi (cioè
associazioni) agrari e industriali, formati da contadini e operai, all’interno
dei quali essi avrebbero organizzato da sé il proprio lavoro: tutti gli uomini,
infatti, dovevano essere completamente liberi, senza nessun limite, se non
quello imposto dal rispetto della libertà altrui.
Due
modi diversi di vedere l’anarchia: a sinistra un’illustrazione brasiliana in
cui un anarchico guarda sorgere la libertà, mentre calpesta i teschi del clero,
del capitalismo, del militarismo, eccetera; a destra una vignetta statunitense
che rappresenta un anarchico intento ad attentare alla libertà, simboleggiata
dalla Statua della Libertà
Nel 1864 sindacalisti inglesi e francesi
diedero vita alla Prima Associazione Internazionale degli operai (o
semplicemente Prima Internazionale), perché pensavano che sarebbero riusciti a
ottenere risultati migliori solo se avessero unito le loro forze. Nonostante i
disaccordi interni tra i riformisti e i rivoluzionari, la Prima Internazionale
riuscì ad avere una notevole importanza politica, tanto che la borghesia la
considerò una grave minaccia per i suoi interessi economici e il suo potere
politico.
Disegno
illustrativo dei lavori preparatori per la Prima Internazionale a Londra
Dopo la Comune di Parigi, la Prima
Internazionale si sciolse (1872), anche a causa dei gravi dissidi al suo
interno. Una Seconda Internazionale fu ricostituita solo nel 1891. I contrasti
tra riformisti e rivoluzionari continuarono, ma le tendenze riformatrici
divennero maggioritarie, anche perché in diversi Paesi europei, come la
Germania, stavano formandosi partiti socialdemocratici, contrari a una rivoluzione.
Manifesto
per la Seconda Internazionale: sopra la “Bandiera dell’Umanità” ci sono le
scritte della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, solidarietà
Anche gli anarchici parteciparono ai
lavori delle Internazionali, ma per le nette diversità di opinione ne furono
espulsi. Ciò non impedì che le teorie anarchiche si diffondessero, in
particolare tra i lavoratori dei Paesi meno industrializzati, come l’Italia e
la Spagna, ma anche la Russia e la Svizzera. In quegli anni alcuni anarchici sostennero
la necessità di passare all’azione diretta contro il potere, uccidendo re,
imperatori, presidenti. Organizzarono una serie di attentati, che provocarono
la morte del presidente francese Carnot (1894), di quello spagnolo Canovas del
Castillo (1897), dell’imperatrice d’Austria Elisabetta (la famosa principessa
Sissi di una serie di film del XX secolo, 1898), del re d’Italia Umberto I
(1900) e del presidente statunitense McKinley (1901).
Da
sinistra, 3 illustrazioni d’epoca sugli attentati anarchici contro l’imperatrice
Elisabetta, il presidente Carnot e il re Umberto I
Questi attentati portarono a una durissima
repressione del movimento anarchico: molti tra i principali esponenti furono arrestati
e condannati a lunghi periodi di carcere e in diversi Stati vennero emanate
leggi volte a reprimere completamente il movimento.
Ma anche contro i socialisti e contro
qualunque forma di protesta sociale la reazione dei vari governi europei fu
inizialmente basata sulla repressione: la formazione di sindacati fu vietata e
l’esercito venne inviato ovunque ci fossero operai che protestavano (come
successe a Milano nel 1898, quando al generale Bava Beccaris fu ordinato di
prendere a cannonate la folla in tumulto contro il carovita, provocando un
centinaio di morti e circa 450 feriti).
La
guardia nazionale spara contro i manifestanti durante uno sciopero a Chicago
nel 1894
La repressione dei governi, però, aggravò
le tensioni esistenti tra gli operai e gli imprenditori e non furono rari gli
episodi di violenza sia contro i proprietari, sia contro quegli operai che
rifiutavano di scioperare (ed erano detti crumiri, da un termine francese a sua
volta derivato dal nome di una tribù dell’Africa settentrionale che si era
ribellata alla Francia). Le tensioni sociali portarono anche a rivolte locali
ed ebbero una grande importanza nelle rivoluzioni di Parigi del 1848 e del
1871.
Per questo molti governi scelsero
successivamente di intervenire per ridurre le tensioni ed evitare rivolte.
Venne regolato il lavoro minorile e quello femminile: ad esempio in Prussia nel
1839 venne proibita l’assunzione nelle fabbriche di bambini al di sotto dei
nove anni e l’orario per i ragazzi fu limitato a dieci ore (in Italia qualcosa
di analogo avvenne con una legge del 1886). In Inghilterra, Germania, Francia
vennero approvate leggi che proibivano alle donne il lavoro in miniera, il
lavoro notturno, il lavoro domenicale e imponevano una riduzione dell’orario
lavorativo. Leggi di questo tipo erano spesso richieste dai sindacati maschili,
che temevano la concorrenza maschile, e finirono per ridurre le possibilità di
lavoro delle donne.
Donne
in una fabbrica (probabilmente a fine Ottocento)
In Australia e Nuova Zelanda venne anche
realizzata una legislazione sociale a tutela dei lavoratori: in Australia il
governo stabilì la giornata lavorativa di 8 ore nel 1856; la Nuova Zelanda
introdusse le pensioni di vecchiaia, per chi non era più in grado di lavorare,
nel 1898. In Europa leggi che tutelavano i lavoratori adulti vennero approvate
solo all’inizio del Novecento.
Nella società ottocentesca il ruolo delle
donne merita un approfondimento.
Se fino alla metà del XIX secolo le donne
della borghesia avevano collaborato con i mariti nel lavoro (tenendo i conti,
occupandosi del negozio quando il marito era in giro per affari, sorvegliando i
dipendenti), nella seconda metà dell’Ottocento molte donne borghesi assunsero
uno stile di vita simile a quello delle aristocratiche, per le quali ogni
attività lavorativa era disonorevole: il loro compito era esclusivamente quello
di occuparsi della casa e della famiglia.
“The
Bayswater Omnibus”, un dipinto del 1895 di George W. Joy, raffigura tre donne
della borghesia (sulla destra) e una donna del popolo (a sinistra)
Nelle classi sociali inferiori, invece,
molte donne avevano necessità di un lavoro, che permettesse di arrotondare il
magro stipendio del marito. Così lavoravano in fabbrica e si occupavano dei
figli e di tutte le faccende domestiche: dalla ricerca del cibo a un prezzo
conveniente alla preparazione dei pasti, dalla provvista dell’acqua (perché
nelle case non c’era acqua corrente) alla pulizia della casa e degli abiti.
Altre donne si dedicavano anche a piccoli lavori, come le pulizie presso
qualche famiglia e, negli ultimi decenni del secolo, al lavoro a domicilio per
conto delle industrie di abbigliamento.
Nelle campagne le contadine lavoravano
tanto quanto gli uomini: lavoravano anche in stato di gravidanza e riprendevano
pochi giorni dopo aver partorito.
Un
dipinto del 1880 di Julien Dupré, intitolato “Le raccoglitrici di grano”
In generale i lavori femminili erano meno
qualificati e, anche quando svolgevano gli stessi lavori, le donne ricevevano
salari inferiori. Inoltre diverse leggi limitavano le possibilità di lavoro
femminile.
In tutta l’Europa la donna aveva una
posizione nettamente inferiore a quella dell’uomo: doveva ubbidire al marito e
non poteva disporre liberamente dei suoi beni, né del suo salario, se lavorava,
perché era il marito a controllarli (o il padre, se era, come spesso succedeva,
una ragazza non ancora sposata).
Inoltre le donne non potevano in nessun
modo liberarsi dall’autorità del marito, neanche se venivano picchiate o
trascurate. Per le legge la donna non poteva lasciare la casa del marito e in
molti Stati il divorzio non era consentito: in Francia, dove era stato ammesso
nel periodo rivoluzionario (1792), fu eliminato durante la Restaurazione
(1816), per essere reintrodotto solo nel 1884.
“La dote”,
dipinto di Vasili Pukirev del 1873: un uomo osserva attentamente ciò che la
moglie ha portato in dote
Il comportamento della donna era molto più
soggetto alle critiche e alla condanna sociale di quello dell’uomo, sia in
città, sia in campagna. Ad esempio era considerato normale che un uomo avesse
relazioni con altre donne o cercasse di averle; una donna invece non doveva
avere relazioni prima del matrimonio e una volta sposata doveva rimanere fedele
al marito. Era considerato naturale che il marito la sorvegliasse, che aprisse
le lettere a lei indirizzate e che le impedisse di uscire.
Le donne che rimanevano incinte senza
essere sposate cercavano di nasconderlo e spesso abbandonavano il bambino dopo
la nascita (quando addirittura non lo uccidevano), perché la vita di una donna
non sposata con un figlio era molto difficile: i casi di abbandono dei neonati
erano perciò frequenti (furono 121.000 in Francia nel solo 1835) e solo verso
la fine del secolo si cominciò a proibire le “ruote degli esposti”, una specie
di cilindro girevole collocato nelle chiese o negli ospedali, dove si
abbandonavano i figli indesiderati (in Italia la prima abolizione della ruota
avvenne a Ferrara nel 1867).
Ruota
degli esposti nell’antico ospedale di Santo Spirito in Saxia (a Roma)
Le donne erano svantaggiate anche nel
campo dell’istruzione: erano escluse dagli studi superiori e nei Paesi
cattolici l’analfabetismo femminile, molto diffuso, era maggiore di quello -
pur alto - maschile. Molti uomini ritenevano infatti che non fosse necessario
dare un’istruzione alle ragazze, che avrebbero potuto imparare dalle madri come
occuparsi della famiglia e della casa, poiché questi erano i soli lavori
concessi al genere femminile.
Le donne erano escluse dal voto, anche nei
Paesi in cui esisteva un suffragio universale maschile (come in Francia, dal
1848).
Nella seconda metà dell’Ottocento molte
donne però cominciarono a rivendicare il loro diritto a votare. Si formarono
organizzazioni di donne che lottavano per ottenere questo diritto, come in
Inghilterra, dove nel 1860 nacque la Women Suffrage Association (Associazione
per il voto alle donne). Le suffragette, come furono chiamate per derisione le
donne che chiedevano il diritto di voto, organizzarono proteste e
manifestazioni. Nel corso dell’Ottocento le donne ottennero talvolta il diritto
di voto a livello locale (in Inghilterra nel 1869 per i consigli comunali e nel
1880 per i consigli di contea), ma non a livello nazionale, ad eccezione della
Nuova Zelanda (1893) e dell’Australia (1894); nel 1906 lo ottennero in
Finlandia e poi in Norvegia.
Due
foto emblematiche dei primi del ‘900: chi è a favore, chi è contrario al
suffragio femminile
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