STORIA DELLA CARTOGRAFIA
MEDIEVALE
Nel tracciare una pur breve
storia della cartografia medievale, bisogna partire da Tolomeo, il dotto
alessandrino del II secolo d.C., padre della teoria geocentrica e autore di
un’opera, intitolata Geografia, che costituisce il punto d’arrivo di
tutte le conoscenze geografiche dell’antichità.
Quest’opera (rimasta praticamente
sconosciuta per buona parte del Medioevo) era corredata da mappe che noi
conosciamo solo tramite copie di molti secoli più tardi. In queste mappe il
mondo (Ecumene in greco) è rappresentato come un trapezoide nel quale è
visibile la parte ritenuta abitata del globo terrestre, ossia le terre
circostanti il Mediterraneo e l’Africa a nord del Sahara e l’Asia disposte in
modo da chiudere l’Oceano Indiano, ritenuto una specie di grande lago.
Carta del mondo da un’edizione
romana del 1508 della Geografia di Tolomeo
Agli inizi del Medioevo
l’affermarsi del Cristianesimo come unica religione stravolge completamente la
cartografia: per esempio al posto dell’Ecumene tolemaico troviamo le
rappresentazioni di Cosma detto Indicopleuste (cioè “viaggiatore nelle terre
dell’India”), un mercante e scrittore del VI secolo di origine alessandrina
come Tolomeo. Il suo mappamondo è una sorta di tabernacolo, nel quale si
distinguono la Terra, il mare Oceano che la circonda, e il Paradiso terrestre,
che è la terra creata da Dio per gli uomini, da cui essi sono stati cacciati
dopo il peccato di Adamo, ma che non per questo ha smesso di esistere come
luogo geografico concreto.
Il “tabernacolo” di Cosma
Più ancora del “tabernacolo di
Cosma” nell’Alto e pieno Medioevo si afferma un altro tipo di mappamondo, detto
mappamondo T-O, frutto del più fortunato manuale di cultura generale del
Medioevo latino, cioè le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, scritte
intorno all’inizio del VII secolo. In questo tipo di mappamondo la parte
abitata del globo terrestre (l’unica che merita di essere rappresentata in
quanto è l’unica che ha una storia) si può schematizzare come un cerchio in cui
sono iscritti un diametro trasversale e un raggio a quello perpendicolare, che
formano una T; da questo deriva il nome di mappamondo T-O, sigla che poteva
prestarsi a significare anche Terrarum Orbis, cioè globo terrestre.
L’emiciclo che si trova nella
parte in alto del mappamondo T-O indica l’Asia, il continente più lontano,
enorme e quasi sconosciuto; esso è separato dal resto del mondo dal braccio
trasversale della T, che rappresenta in maniera stilizzata le acque del Nilo
verso sud (a destra nel mappamondo) e quelle del Don verso nord (a sinistra);
la linea verticale della T rappresenta il Mar Mediterraneo, che in questo modo
delinea sulla carta due spicchi terrestri, rappresentanti l’Europa (a sinistra)
e l’Africa (a destra). Al centro dei tre bracci della T si trova Gerusalemme,
l’ombelico del mondo, il centro geografico della Terra, così come Cristo
risorto è il centro della storia.
5 esempi diversi di mappamondo
T-O
Un’importante variante del
mappamondo T-O è quella che troviamo nelle carte del cosiddetto Beato di
Liebana, un monaco della Spagna mozarabica (cioè la Spagna cristiana sotto
dominazione araba) dell’VIII secolo. Costui è autore di un commentario
illustrato dell’Apocalisse che venne copiato in moltissimi codici
altomedievali. Rispetto al mappamondo T-O di Isidoro, il mappamondo di Beato di
Liebana ha una forma più quadrato-rettangolare che rotonda: Asia e Africa sono
molto meno distinte e soprattutto si nota l’aggiunta nell’estremità destra,
cioè nella parte più lontana dell’Asia, di uno spicchio di Terra
grossolanamente tagliato dal blocco continentale, con il quale si rappresentano
gli antipodi, cioè le terre non abitate dagli uomini nell’altra parte del
globo.
Sopra e sotto: due esempi di mappae
mundi in codici del Commentario all’Apocalisse
del Beato di Liebana
È interessante anche un
mappamondo che si può quasi definire tematico e che risale all’antichità (è
citato da Cicerone nel Somnium Scipionis), venne adottato da Marziano
Capella all’inizio del Medioevo ed era conosciuto ancora nel Quattrocento. In
questo mappamondo la Terra è divisa in grandi fasce climatiche orizzontali,
delle quali i poli estremi e la fascia centrale erano ritenuti disabitati per
il gelo o il caldo ardente, mentre le due fasce intermedie erano abitabili; ma
poiché solo una di queste due fasce era conosciuta, per l’altra era possibile
qualunque fantasia sui suoi abitanti.
La Terra divisa in fasce
climatiche in un commentario al Somnium Scipionis di Cicerone
Un’altra carta che si può
definire tematica è la cosiddetta Tabula Peutingeriana. Disegnata
probabilmente a metà del IV secolo, copiata dettagliatamente nel pieno Medioevo
e riscoperta nel 1508 da quel K. Peutinger da cui ha tratto il nome, la Tabula
è una striscia di pergamena lunga quasi 7 metri ma alta soltanto 35 centimetri, che
rappresenta tutto il mondo allora conosciuto. È un mondo completamente
deformato, ridotto praticamente alla sola dimensione orizzontale e fatto di
fitti reticoli stradali, intervallati da città, porti, stazioni di posta, in
mezzo ai quali spicca Roma, simboleggiata da una matrona seduta sul suo trono.
Un’osservazione attenta della Tabula, però, induce a comprendere il
perché delle deformazioni in essa contenute: le distanze tra un punto e l’altro
di tutte le strade sono scrupolosamente annotate, come in una moderna mappa
stradale, tanto da consentire agli studiosi minute ricostruzioni dei reticoli
viari e dei collegamenti stradali tra le diverse parti dell’Impero Romano. La Tabula,
insomma, non aveva una funzione geografica, bensì pratica: quella di descrivere
le vie di comunicazione dell’epoca.
Dettaglio sull’Asia Minore e l’Egitto dalla copia medievale della
Tabula Peutingeriana
conservata alla Österreichische Nationalbibliothek di
Vienna
Le deformazioni o le bizzarrie
che riscontriamo anche negli altri mappamondi fin qui descritti nascono, come
nel caso della Tabula, non da ignoranza o da pregiudizi, bensì dallo
scopo che gli autori di queste carte si prefiggevano. Per tutto l’Alto Medioevo
non esistette nessuna figura professionale di cartografo, infatti gli autori di
tali carte erano tutti monaci, che usavano le rappresentazioni cartografiche
(prive di scala e proiezioni geometriche) per integrare i propri testi, per
insegnare ai lettori il senso delle varietà geografiche, e soprattutto per
collocare nello spazio le vicende e i personaggi della Bibbia e delle storie.
Non era importante che queste collocazioni spaziali fossero precise, perché
l’importante era trasmettere delle nozioni storico-religiose dentro una più
ampia cornice di carattere didascalico e teologico.
A volte la rappresentazione dello
spazio serviva a soddisfare la vanità degli uomini, specie dei potenti. Papa
Zaccaria, vissuto a metà dell’VIII secolo, aveva una descrizione di tutto il
mondo dipinta su una parete del suo palazzo in Laterano (quasi un’anticipazione
della cinquecentesca Galleria del Belvedere in Vaticano).
La Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano
Pochi anni più tardi Carlomagno
si fece costruire, secondo quanto racconta il suo biografo Eginardo, una tavola
d’argento con un grande mappamondo, in cui era rappresentata la terra con le
sfere concentriche dei cieli.
Negli stessi anni gli Arabi
raccoglievano l’eredità scientifica della geografia classica: per esempio il
dotto islamico Muhammad ibn Kathir al-Fargani (morto verso l’830), più tardi
noto in Occidente come Alfraganus, redigeva una riduzione in lingua araba
dell’opera di Tolomeo; l’Occidente europeo però sarebbe tornato a leggerla solo
nel XV secolo. Nella cartografia anche il mondo islamico continuò a lungo a
ripetere vecchissimi modelli stilizzati della tarda antichità, in particolare
uno simile alle mappe T-O.
La tradizione cartografica
islamica si diffuse poi nel mondo cristiano, soprattutto nelle aree di confine,
che in pieno Medioevo furono fucine di scambi intellettuali e artistici: il
caso più clamoroso è quello della Sicilia.
Il primo re normanno dell’isola,
Ruggero, circondato da una corte di sapienti greci, latini e arabi, accolse a
lungo presso di sé un intellettuale di origine marocchina, al-Idrisi, nato a
Ceuta intorno al 1.100; viaggiatore instancabile tra Europa e Oriente, studioso
della famosa scuola di Cordova, Idrisi dedicò nel 1154 al suo munifico sovrano
una descrizione del mondo corredata da numerose carte, cui diede il nome di Kitab
al Rujar, cioè “il libro di Ruggero”.
Lo stesso re chiese al suo
geografo di corte di esemplificare la grande varietà di luoghi e Paesi della
sua opera in un grande mappamondo: una tavola larga tre metri e mezzo e lunga
uno e mezzo, che doveva essere una delle meraviglie della corte normanna. La
tavola venne fatta a pezzi durante una congiura di palazzo intorno al 1160, ma
la sua fama aveva già fatto sì che se ne riproducessero delle copie su
manoscritti, che per fortuna si sono conservate fino ad oggi.
Guardando queste copie si nota
subito l’inconsueto orientamento della carta, con il Nord posto in basso e
quindi il disegno capovolto rispetto alla tradizione occidentale. La stranezza
è facilmente spiegabile: per utenti abituati a vivere in Medio Oriente o nel
Maghreb, o comunque con la mente rivolta alle terre sacre all’Islam, era
naturale porre in alto quello che era il baricentro della propria identità culturale,
scendendo poi a considerare le terre sempre meno interessanti dell’Europa
meridionale prima e di quella continentale poi. È in fondo lo stesso criterio
usato ancora oggi, quando pensiamo al mondo centrato sull’Europa e le coste
dell’Atlantico, mentre tutto il resto è marginale.
Una copia moderna della Tabula Rogeriana
Negli stessi anni (metà del XII
secolo) si affermava la scuola cattedrale di Chartres, in Francia, che
riscopriva la geografia classica accentuandone i risvolti filosofici: i temi
astrologici, le connessioni tra microcosmo umano e macrocosmo terrestre, la
composizione del mondo in parallelo con le manifestazioni della Mente divina
creatrice. Dalla scuola di Chartres si diffusero in tutta Europa le opere di
Guglielmo di Conches, di Lamberto di Saint-Omer o della dotta Ildegarda di
Bingen, con i loro lussureggianti corredi di rappresentazioni del cosmo; si
trattava sempre di mappamondi stilizzati come quelli della tradizione
monastica, ma più filosofici, vere e proprie traduzioni grafiche di dottrine
scientifiche sul cosmo e la sua composizione.
Una mappa del XII secolo dall’opera enciclopedica di Lamberto di
Saint-Omer
intitolata Liber Floridus
Sempre in Francia fu l’Università
di Parigi, intorno al 1220-1230,
a ospitare quello che si può considerare il primo vero
scienziato della cosmografia del Medioevo latino: l’inglese John Holiwood,
meglio noto col nome latinizzato di Giovanni Sacrobosco. Docente nell’ateneo
parigino, Sacrobosco fu autore di un trattato, De Sphaera, dedicato alla
studio della forma, delle dimensioni e della rappresentazione della Terra
secondo criteri matematici: tale fu la fortuna di questo manuale di
cosmografia, che il testo e il suo ricco apparato di illustrazioni e tavole
continuarono a essere studiati, trascritti e stampati fino al pieno
Cinquecento, anche dopo la rivoluzione copernicana.
Una miniatura sul concetto di longitudine dal De Sphaera di Giovanni Sacrobosco
(Lione, Biblioteca
Municipale)
In quest’epoca le conoscenze
cosmografiche cominciano a diffondersi oltre gli ambienti universitari. Ne è
testimonianza l’opera di maestro Ristoro d’Arezzo, la Composizione del mondo,
redatta intorno al 1280 in
volgare toscano: il primo trattato scientifico in lingua vernacolare della
storia dell’Occidente, nel quale l’eredità di Aristotele, Tolomeo e degli
studiosi arabi come al-Fargani veniva raccolta e rielaborata per la curiosità
dei lettori.
Questo susseguirsi di novità nel
campo della cosmografia non comporta però l’abbandono dei vecchi modelli
cartografici: le carte assumono sempre più l’ambizione di grandi summae del
sapere enciclopedico, fino ad arrivare a esempi veramente spettacolari, come
quello del cosiddetto mappamondo di Ebstorf, andato distrutto durante la
seconda guerra mondiale, ma del quale per fortuna disponiamo di ottime
riproduzioni.
Questa enorme mappa rappresentava
il mondo come un disco circolare di tre metri e mezzo di diametro; venne
disegnata per l’abbazia di Ebstorf in Germania intorno al 1234, da un autore
ignoto, che però alcuni associano all’ambito italiano, dal momento che l’abate
che commissionò la spettacolare opera, Gervasio di Tilbury, era stato maestro
di diritto canonico all’Università di Bologna. Non sono le dimensioni l’aspetto
più singolare del mappamondo, ma piuttosto la sterminata messe di disegni e
cartigli che ne affollano ogni angolo: il mondo è ricoperto di personaggi del
presente, del passato e della fantasia; di storie e di descrizioni, di immagini
e didascalie. La carta è insomma una vera e propria enciclopedia di
cosmografia, teologia, storia sacra e profana.
Riproduzione fotografica della perduta mappa mundi del monastero di
Ebstorf (ca. 1234)
Altrettanto ricco e
lussureggiante è un altro gigante della cartografia medievale, il mappamondo
che si può ancora vedere nella cattedrale inglese di Hereford, disegnato
intorno al 1290 da Riccardo di Haldingham.
La mappa mundi della cattedrale di Hereford (secolo XII)
In queste opere del Duecento il
vecchio modello della mappa T-O è ancora visibile: Gerusalemme, per esempio, è
sempre al centro della carta. La mappa di Ebstorf, anzi, è ancora più densa di
contenuti teologici dei suoi predecessori: i quattro punti cardinali nelle
estremità del globo sono segnati dal volto, dalle mani e dai piedi di Cristo,
che sembra così abbracciare tutta l’immensa varietà della sua Creazione, con il
cuore sulla Città Santa.
Si arriva così ai mappamondi
addirittura a forma di mandorla, che sono contenuti nel Polichronicon di
Ranulfo Higden (vissuto all’incirca tra il 1299 e il 1363); la forma a mandorla
rinvia all’emblema di Cristo e della Resurrezione, entro cui si può collocare
tutto il mondo degli uomini.
Un mappamondo contenuto in un’edizione del Polichronicon di Ranulfo Higden del tardo XIV secolo
Quando queste carte vengono
realizzate, Marco Polo aveva già viaggiato molti anni attraverso l’Estremo
Oriente, però dovevano passare ancora alcuni decenni prima che l’esperienza dei
viaggiatori attraverso l’Asia cominciasse a influire veramente sugli autori dei
mappamondi. Questo non deve stupire più di tanto, perché gli stessi viaggiatori
non erano soliti disegnare mappe dei loro percorsi; disegnare un mappamondo era
un’opera da intellettuali, un lavoro più di studio che di esperienza e
richiedeva di conoscere più gli antichi e i loro scritti che i contemporanei e
i loro racconti.
E sarà proprio fra gli
intellettuali che le conoscenze geografiche si diffonderanno sempre più
profondamente. Un quarto di secolo dopo la morte di Dante, un altro fiorentino,
Fazio degli Uberti, comincerà a scrivere un fortunato poema dal titolo Dittamondo,
nel quale percorre tutte le plaghe del mondo conosciuto, dando fondo alla
conoscenza degli scrittori antichi e di quelli più recenti.
Miniatura con una veduta di Roma dal Dittamondo di Fazio degli Uberti (Milano, 1447)
Lo stesso Giovanni Boccaccio
compose il primo dizionario di geografia della letteratura italiana, a uso dei
letterati che volessero servirsi dei nomi di fiumi, laghi, monti e simili, e si
dedicò anche alla romanzata descrizione delle isole Canarie, da poco raggiunte
da viaggiatori fiorentini.
Francesco Petrarca, dal canto
suo, oltre a comporre un’esercitazione erudita sui racconti riguardanti la
leggendaria Thule, la terra sconosciuta dell’estremo Nord, scrisse per un amico
un itinerario verso la Terrasanta, una sorta di guida turistico-religiosa per
la Palestina (senza averla mai visitata); inoltre raccolse una vera e propria
collezione di autori classici di geografia: Pomponio Mela, Vibio Sequestre,
Solino e Plinio il Giovane.
E finalmente nel 1396 giunse in
Italia la Geografia di Tolomeo, grazie al maestro greco Emanuele
Crisolora, assunto come docente dal Comune di Firenze. La riscoperta di Tolomeo
venne accolta con entusiasmo nell’Italia del primo Umanesimo: prima del 1410
era pronta la traduzione latina a cura di Jacopo Angeli da Scarperia, mentre
intorno al 1480 il fiorentino Francesco Berlinghieri ne fece una versione
“divulgativa” in lingua volgare, intitolata Le septe giornate della
geografia.
L’Italia in una edizione di un’opera di Francesco Berlinghieri
Al diffondersi della passione per
la geografia nel XV secolo corrispose un cambiamento nella costruzione dei
mappamondi: centrata sulla cultura del Mediterraneo ellenistico, la cartografia
antica non conosceva l’Europa settentrionale, includeva solo un cenno generico
alle Isole Britanniche e nessuno alla Scandinavia, mentre per la parte asiatica
disegnava l’Oceano Indiano come un mare chiuso e giungeva a dare solo un cenno
molto generico alle terre dell’Estremo Oriente. Nel Quattrocento la distanza
tra la teoria dei geografi e l’esperienza dei viaggiatori è ormai superata. Ce
lo conferma una famosa carta genovese (che però è conservata a Firenze) del
1457: a parte l’accuratezza nel disegno delle terre europee, l’autore mostra di
essere consapevole della circumnavigabilità dell’Africa e descrive con grande
precisione le coste asiatiche fino al Pacifico e all’Indocina, visitata poco
prima dal fiorentino Niccolò de’ Conti.
Il planisfero genovese del 1457
Ma in generale la grande novità
del modello tolemaico stava nella concezione che il mondo è iscrivibile dentro
un reticolo di meridiani e paralleli, con i quali la carta geografica diventava
un oggetto di descrizione razionale dello spazio, basata su misurazioni, proiezioni,
verifiche oggettive.
Nel giro di qualche generazione
l’intera tradizione cartografica medievale fu stravolta: se noi osserviamo le
carte di questo periodo, per la prima volta ci troviamo di fronte un mondo
riconoscibile e familiare, non solo nella forma generale, ma anche e
soprattutto nelle proporzioni, nell’organizzazione dello spazio. Non è un caso
del resto che nelle carte quattrocentesche compaia per la prima volta
l’indicazione della scala.
La summa di tutte le novità e
riscoperte dell’epoca è una carta che ancora si ammira a Venezia, il cosiddetto
mappamondo di fra Mauro, realizzato da un monaco camaldolese nel 1459 con
l’aiuto di un cartografo “professionista”, Andrea Bianco. Misura quasi due
metri di diametro e riunisce in sé le conoscenze geografiche degli autori
antichi e di Tolomeo, le testimonianze arabe (da cui trae l’orientamento
“capovolto” sud-nord) e i racconti dei viaggiatori, tra cui Marco Polo e gli
esploratori portoghesi delle coste atlantiche dell’Africa.
Il disegno del mondo è grosso
modo tolemaico (ma ripensato alla luce delle conoscenze più attuali) e lo
spirito dell’opera è ancora quello dei mappamondi medievali: infatti la carta è
zeppa di immagini e cartigli e iscrizioni esplicative, segno che ancora si
voleva “raccontare” il mondo e non soltanto riprodurlo. Però spicca un’assenza
importante, quella di Gerusalemme. La città santa c’è nella carta, ben inteso,
ma non è più il centro del mondo, è solo un luogo come gli altri. Si può dire
che lo spazio razionale e uniforme di Tolomeo ha separato la geografia dalla
teologia.
Il mappamondo di fra Mauro e Andrea Bianco (1459)
Bisogna tener presente, inoltre,
che nel Quattrocento disegnare carte geografiche non aveva più solo una
funzione di “alta cultura”, con cui trasmettere un insegnamento; era anche la
risposta all’esigenza vitale dei viaggiatori, specie quelli per mare, di fronte
a rischi che minacciavano costantemente le imprese dei mercanti (e anche dei
pirati). Come leggiamo in questi versi del domenicano fiorentino Leonardo Dati,
dal suo poemetto La sfera:
E con la carta, dove sono segnati
i venti e’ porti e tutta la
marina
vanno per mar mercatanti e
pirati,
que’ per guadagno e questi per
rapina.
Ed in un punto ricchi e
sventurati
sono alle volte da sera a
mattina:
che’ la fortuna in alcun’altra
cosa
non si dimostra tanto ruinosa.
I secoli del Basso Medioevo sono
la stagione più gloriosa della marineria commerciale mediterranea. I traffici
dei navigatori genovesi, veneziani e pisani, ben presto affiancati dagli agguerriti
concorrenti catalani, solcavano sempre più spesso le acque del Mediterraneo, spingendosi
fino al Mar Nero, all’Atlantico e al Mare del Nord, dove si incontravano con
l’altrettanto affollato reticolo delle vie marittime dal Baltico
all’Inghilterra.
Questa esplosione di traffici
marittimi (detta spesso “rivoluzione nautica”) non deve tuttavia far
dimenticare che per tutto il Medioevo la navigazione in mare restò un’attività
straordinariamente pericolosa, legata al filo sottilissimo delle conoscenze nautiche
dei marinai più esperti.
A quasi nulla potevano infatti
servire i mappamondi: a parte lo scarso dettaglio, l’assenza di proiezione e di
misurazioni delle distanze li rendeva totalmente inservibili alla navigazione,
senza contare che non per quello erano stati disegnati. A poco serviva anche la
bussola, dato che sugli instabili ponti delle navi in movimento la sua
efficacia nell’orientarsi era approssimativa.
L’impiego della bussola, nella miniatura di una copia (sec. XV)
del Livre des Merveilles
du Monde
di Marco Polo
Più utile era l’astrolabio
nautico, che, grazie a un cerchio graduato e un puntatore ottico, permetteva la
misurazione dell’altezza delle stelle e del sole rispetto all’orizzonte e
quindi permetteva di conoscere la latitudine. Al contrario la misurazione della
longitudine era impossibile: solo gli orologi meccanici costruiti a partire dal
Settecento l’avrebbero resa possibile.
Ai mercanti del Duecento restava
solo un modo per portare felicemente a termine (tempeste e pirati permettendo,
s’intende) il proprio viaggio: la navigazione di cabotaggio, condotta cioè
tenendo più o meno sempre d’occhio la terra, spostandosi ogni giorno da un
porto all’altro.
Anche per questa più prudente
pratica, tuttavia, occorreva una certa conoscenza dell’andamento delle coste e
dei porti, delle distanze dall’uno all’altro e delle caratteristiche di
ciascuno. A questa necessità rispose uno strumento cartografico destinato a
enorme fortuna: il portolano.
Uno dei più antichi esempi
conosciuti risale agli anni della metà del Duecento: il Compasso da navigare
è un elenco di porti mediterranei, disposti a comporre un ideale percorso
di navigazione. A rigore si chiama portolano proprio l’elenco dei porti con le
relative descrizioni, ma il termine portolano viene usato anche per indicare
quelle carte nautiche che sono una trasposizione su una mappa delle
informazioni contenute nell’elenco dei porti. Il primo esempio di portolano nel
senso di carta nautica compare intorno al 1275 ed è la cosiddetta Carta Pisana: si tratta di un grande
foglio di pergamena, in cui le coste del Mediterraneo, dell’Atlantico fino
all’Inghilterra e del Mar Nero sono tratteggiate in maniera estremamente rapida
da una sola sottile linea e perpendicolarmente alla costa vengono riportati uno
dopo l’altro centinaia di nomi di porti.
La Carta Pisana del 1275
Le origini di questi portolani
sono ancora dibattute; di sicuro essi sono un’invenzione nata dalla pratica,
dall’esperienza di generazioni di navigatori, dai racconti e probabilmente
dagli schizzi usati dai piloti delle navi.
I portolani sono caratterizzati
da un reticolo di linee e cerchi, apparentemente caotico ma piuttosto regolato
da un modello ricorrente: il rettangolo della carta veniva diviso in un certo
numero di cerchi, su ciascuno dei quali erano fissati sedici punti,
corrispondenti alle direzioni della rosa dei venti; da ogni punto poi erano
tracciate le linee di collegamento con tutti gli altri.
Le fonti chiamano normalmente
questo reticolo “martelogio”: la sua utilità va compresa considerando l’uso che
ne veniva fatto in combinazione con documenti diversi, in particolare le
cosiddette “tavole del martelogio”. Nel caso in cui il pilota di una nave fosse
stato costretto a deviare dalla propria rotta, per il vento avverso o qualche
altro accidente, le tavole e il reticolato già predisposto sulla carta gli
avrebbero fornito i punti d’appoggio per un rapido calcolo di trigonometria
empirica, in modo da riorientare la rotta e proseguire secondo la destinazione.
Si capisce, dunque, che il
portolano è uno strumento ad uso del mercante, delle sue necessità vitali di
praticità e sicurezza. Si capisce anche che siano stati disegnati portolani
sulle coste del Mediterraneo e del Mar Nero, e dell’Atlantico tra le coste
marocchine e l’Inghilterra, ma non sui mari dell’Oriente, che erano noti, ma
nei quali non veleggiavano navi mercantili e che quindi non avevano bisogno di
essere rappresentati. L’ottica mercantile che è alla base dei portolani si nota
anche nell’uso dei nomi dei porti: ad esempio la Carta Pisana venne redatta
sicuramente da un italiano, ma la grafia dei nomi dei porti nelle diverse
regioni mostra l’intento di adattarsi alla pronuncia locale, poiché quando si
arriva in un porto è sempre bene riuscire a farsi capire!
Un portolano raffigurante il Mediterraneo in un Atlante italiano del
XIV secolo
conservato alla Biblioteca Municipale di Lione
La compilazione di portolani (nel
senso di carte nautiche) si diffuse rapidamente ovunque: una mappa maghrebina
del 1330 testimonia che i cartografi arabi avevano già incominciato a copiare i
colleghi occidentali, mentre è proprio attraverso gli Arabi che nei primi
decenni del Quattrocento avviene l’avvio di una vera e propria cartografia
nautica in Cina, un Paese dalla tradizione cartografica illustre, ma limitata
quasi esclusivamente al proprio territorio terrestre.
Nel Trecento i sovrani, specie
aragonesi, emanarono precise direttive per imporre l’uso dei portolani in ogni
nave in viaggio nel Mediterraneo. Il portolano diventa così (proprio all’inizio
del XIV secolo) uno strumento di lavoro, che deve essere redatto da
professionisti.
Il primo cartografo di cui si
conosca il nome, anche perché il primo a firmare la propria opera, è Pietro
Vesconte, genovese ma attivo soprattutto a Venezia, dove disegnò alcuni
portolani, atlanti e mappamondi dal 1311 al 1321. I portolani di Pietro, così
come quelli giuntici sotto il nome di Perrino Vesconte (forse la stessa persona
o più probabilmente suo figlio), sono testimoni della crescita, si potrebbe
dire anno dopo anno, delle conoscenze geografiche del loro tempo; per esempio
la raffigurazione delle coste inglesi e irlandesi, prima estremamente
stilizzata e povera, diventa sempre meglio definita, con l’intensificarsi dei
viaggi sulle due isole da parte dei navigatori italiani e non.
Portolano di Pietro Vesconte del 1313
Malgrado la funzione pratica dei
portolani, non dobbiamo pensare che in essi manchino gli aspetti culturali ed
estetici; del resto per disegnare un portolano (uno strumento anche molto
costoso) ci vuole un altissimo grado di maestria tecnica e artistica. Per
questo nelle carte nautiche del Tre e Quattrocento si possono distinguere
almeno due veri e propri stili, soggetti ovviamente a contaminazioni e scambi
reciproci.
Il cosiddetto stile “italiano” è
rappresentato dai primi esempi a noi noti, come la Carta Pisana o il portolano
conservato a Cortona della fine del Duecento, e si caratterizza per l’estrema
sobrietà: oltre al tracciato delle coste e alla fittissima sequenza dei nomi
dei porti, nessun ornamento, storia o raffigurazione riempie gli spazi della
terraferma, salvo talvolta il disegno stilizzato delle città più grandi, quasi
che l’unica dimensione che interessi al cartografo fossero le coste e i porti.
Carta nautica di Grazioso Benincasa del 1465 circa
Al contrario, molte delle carte
nautiche più affascinanti di questi secoli appartengono al cosiddetto “stile
catalano”: il tracciato costiero non solo è corredato con l’indicazione di
monti e città, ma è anche riempito di disegni, ritratti, cartigli, in maniera
non troppo diversa da quanto accadeva per i mappamondi, e riporta molto spesso
uno degli elementi che potremmo considerare la preistoria della cartografia
politica, cioè le bandiere delle dinastie regnanti nei diversi territori
d’Europa. Alla lunga, fu lo stile catalano a diffondersi in maniera più ampia
in tutta Europa.
La Spagna in effetti, o più
precisamente i territori della Corona d’Aragona, e in particolare Maiorca,
furono a lungo sede della più fiorente produzione cartografica della
cristianità. Era un ebreo maiolichino quel Cresques Abraham, che insieme con il
figlio Jefuda Cresques svolse a metà Trecento il ruolo di cartografo ufficiale
di Pietro IV d’Aragona. Al nome di questi due grandi disegnatori viene
tradizionalmente legata (pur con qualche dubbio) la paternità del cosiddetto
Atlante catalano, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Il codice
comprende 12 tavole su pagine in pergamena di grande formato, e suddivide in
altrettanti riquadri, segnati dal fitto reticolo delle linee del martelogio,
l’intero mondo conosciuto, unendo così caratteri del portolano e del
mappamondo.
La raffinatezza delle immagini
che lo ricoprono fa assolutamente escludere che l’Atlante sia stato mai usato
in una nave, o sottoposto ai rischi di un viaggio dopo quello che lo portò –
forse in dono, forse come prestito mai restituito – dalle botteghe catalane
alla corte del re di Francia.
Una tavola dell’Atlante catalano attribuito a Cresques Abraham e a suo
figlio Jefuda Cresques
Mentre l’Atlante catalano
rappresentava su carta l’espandersi delle conoscenze europee verso l’Oriente e
l’Asia, i navigatori portoghesi aprivano pazientemente la rotta delle coste
africane. I portolani registrano questa novità con una certa lentezza, anche
perché la custodia gelosa della rotta atlantica da parte dei sovrani del
Portogallo limitava molto la diffusione delle conoscenze, ma il Quattrocento
segna comunque un procedere continuo della descrizione dei porti africani verso
sud: già una mappa disegnata nel 1448 da Andrea Bianco, il cartografo veneziano
già incontrato come consulente di fra Mauro, descriveva le coste del Senegal,
mentre il cosiddetto Atlante Cornaro della fine del secolo prolunga la
descrizione dei porti africani fin quasi al futuro Capo di Buona Speranza.
Noi non sappiamo molto sul lavoro
degli autori di portolani; conosciamo i luoghi della prima fioritura di questa
tecnica, ossia Venezia, Genova, Maiorca. I nomi riportati nelle carte ci
parlano spesso di vere e proprie tradizioni familiari, come quella della
comunità ebraica delle Baleari, dei Vesconte di Genova o dei fratelli Pizigano
di Venezia, tutti del XIV secolo. Nel Quattrocento simili tradizioni si
espandono, trovando nuove sedi di diffusione: è il caso di Ancona, dove furono
attivissimi i cartografi della famiglia Benincasa, e soprattutto di Lisbona,
dove giungevano ed erano tradotte nei portolani le conoscenze via via
accumulate dai navigatori della monarchia lusitana.
Dal Quattrocento la tecnica per
il disegno dei portolani rimase pressoché stabile, cosicché troviamo carte
dell’Atlantico, dell’Africa e anche delle Americhe tracciate con gli stessi
metodi e gli stessi caratteri dei vecchi portolani, ripetuti fino al pieno
Seicento. Segno che l’accuratezza del disegno dei portolani era la forma più
raffinata di descrizione dello spazio marittimo cui i navigatori potessero
aspirare.
Mappamondo del fiammingo Abraham Ortelius del 1570
(Questo testo è basato
sull’articolo Cartografia – Il disegno del mondo, di Lorenzo Tanzini,
pubblicato nella rivista Medioevo nell’ottobre 2006, De Agostini
periodici)
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