GENGIS KHAN: DA NOMADE A IMPERATORE
All’inizio del Basso Medioevo le steppe
della Mongolia erano popolate da una miriade di tribù, di cui è impossibile
stabilire l’etnia con esattezza: tutte avevano in comune l’abitudine a fare
razzie. Tra il X e l’XI secolo erano giunte in zona, provenienti dal corso
superiore dell’Amur (nel nord della Cina), anche alcune tribù mongole, divise
in tanti clan, in lotta continua tra loro; spesso queste lotte erano alimentate
ad arte dai Cinesi, che pensavano così di tenere divisi quelli che chiamavano
“barbari del nord”.
Le terre in cui si insediarono i Mongoli
erano abitate nel I millennio d.C. anche dai Turchi. Benché parlassero lingue
differenti, Turchi e Mongoli vissero conducendo la medesima esistenza:
nomadismo pastorale nelle steppe, caccia e raccolta nelle foreste della
Siberia. Per entrambe le etnie la ricchezza consisteva negli armenti (buoi e
yak nelle zone di montagna, cammelli nelle province semidesertiche), nelle
armature e nei cavalli di tazza ridotta, che erano eccezionali mezzi di
locomozione, in quanto resistentissimi alla fatica.
La steppa
mongolica ai giorni nostri: in un ambiente simile vivevano i Mongoli di Gengis
Khan
Per dimora usavano le yurte, tende di
forma circolare, in feltro su un telaio di legno, rivestite internamente da tappeti
e drappi variopinti e dotate di suppellettili in vimini, materassi imbottiti di
lana grezza, pellicce e piccoli idoli domestici simili a bambolotti di stoffa.
Durante gli spostamenti le yurte potevano essere ripiegate, ma non sempre ciò
avveniva: a volte le si montava su enormi carri, dotati di ruote gigantesche,
trainati da schiere di buoi: bastava un solo uomo, seduto – per così dire –
sull’uscio di casa, per dirigere gli animali. Al momento della sosta, il
carro-tenda veniva girato con l’ingresso rivolto a meridione. Dentro la yurta
la metà occidentale era di pertinenza maschile, quella orientale era riservata
alle donne. Il padrone di casa possedeva un giaciglio collocato verso nord, nel
luogo più distante dall’entrata e il più onorevole. La servitù si distribuiva
invece nello spazio vestibolare, cioè la zona d’ingresso tra interno ed
esterno. I più ricchi disponevano di più abitazioni e più carri: anche fino a
duecento.
Una yurta
ai giorni nostri, molto simile a quelle del XII secolo
In questo ambiente nacque Temujin, colui
che sarebbe diventato Gengis Khan: non sappiamo l’anno esatto della sua
nascita, che va dal 1152 al 1167. Era figlio di Yesugei, capo della comunità
dei Qiyat: Yesugei un giornò incontrò, durante una battuta di caccia, la bella
Hoelun e la rapì, sebbene ella fosse già promessa in matrimonio a un altro
guerriero. L’episodio avrà conseguenze sullo stesso Temujin, poiché nel modo di
intendere dei nomadi il rapimento di una donna era una grave offesa, che
equivaleva alla perdita di possibilità di discendenza.
Da Hoelun Yesugei ebbe il primo figlio,
che nacque proprio quando il padre tornò da una razzia con un prigioniero
importante che aveva catturato e che si chiamava Temujin: Yesugei chiamò il suo
primogenito allo stesso modo, con un nome che significa grossomodo “fabbro” e
sottintende la dimestichezza degli sciamani mongoli (capi religiosi con
aspirazioni politiche) con il ferro e con il fuoco.
Ricostruzione
di un arciere mongolico in una mostra dedicata a Gengis Khan negli Stati Uniti
Temujin crebbe educato alle rigide
consuetudini mongoliche: raccogliere il letame da usare come combustibile,
strigliare i cavalli, cacciare marmotte, vigilare sul bestiame e imparare a
maneggiare l’arco. Erano mansioni da adulto, che facevano maturare in fretta
carattere e fisico: inoltre, secondo la tradizione, a dieci anni d’età il
fanciullo doveva trovare una moglie, lontano da casa.
Gli accordi nuziali erano decisi dai
genitori e servivano a sancire coalizioni e intese politiche tra i clan.
Yesugei pensò di fidanzare il suo primogenito con Borte, figlia del capo dei
Qongghirat, e partì con il figlio per il completamento della di lui formazione
presso il futuro suocero. Allora Temujin aveva occhi da gatto, fronte larga,
gambe semiarcuate da cavaliere e anche (sembra) una gran paura dei cani.
Gengis
Khan a caccia col falcone assieme a un arciere (dipinto cinese del XVI secolo)
Al ritorno da quel viaggio Yesugei si
imbattè in un gruppo rivale, che stava celebrando un festeggiamento; poiché fu
invitato a unirsi al banchetto, Yesugei non poté rifiutare, dato che fra i
nomadi l’ospitalità era sacra. Gli diedero da bere del latte di cavalla
avvelenato e i sintomi si fecero sentire poco dopo, quando aveva ripreso il suo
viaggio. Resistette ai dolori fino a poter tornare dalla sua famiglia e qui
morì.
La scomparsa del padre accelerò la
crescita di Temujin, sempre più esperto nell’uso delle armi e nel cavalcare; e
anche sempre più aggressivo, tanto che un giorno uccise un fratellastro, reo di
avergli rubato della cacciagione. Fu un periodo di stenti e privazioni, con l’unico
conforto di una profonda amicizia con Jamuka, un coetaneo di un altro clan, con
cui stipulò un’anda, un
affratellamento sancito mescolando ritualmente il sangue delle vene, polso su
polso.
La feroce personalità che traspariva dalla
crescita di Temujin allarmava i clan rivali, che pensarono bene di disfarsi di
lui: assalirono la sua abitazione, lui riuscì a scappare, ma, dopo aver vagato
a lungo in una foresta, venne stanato e imprigionato. Riuscì tuttavia a
fuggire, tornò presso la sua famiglia e pensò alla vendetta: allora possedeva
in tutto nove cavalli, due montoni, qualche tenda.
Quando una banda di predoni aggredì il suo
gruppo, derubandolo di otto cavalli, Temujin balzò in groppa all’unico animale
che gli era rimasto, cavalcò per tre giorni dietro ai ladri e, assieme a un
amico incontrato nell’inseguimento, scovò i banditi, recuperò la refurtiva e
uccise coloro che tentarono di rincorrerlo.
Un
assedio mongolico (miniatura persiana del XIV secolo)
L’impresa suscitò clamore tra i vari clan:
Temujin seppe approfittarne per creare attorno a sé un gruppo di seguaci, con i
quali intraprese a razziare chiunque gli si opponesse. Acquistato sempre più
prestigio e bottino, sposò Borte, portando così dalla sua parte il clan della
ragazza. Altri clan si unirono a lui, ma altri gli erano ostili, compreso
quello a cui apparteneva la madre di Temujin, il quale non aveva dimenticato il
rapimento di una sua donna. Fu proprio quel clan ad avventarsi su Temujin: fece
una strage, incendiò le yurte, imprigionò mogli, figlie e ancelle dei seguaci
di Temujin. Rapì anche Borte. Solo dopo nove mesi Temujin, organizzata la
vendetta, riuscì a riprendersi la sposa, che aveva appena partorito un bambino,
sulla cui paternità non sono mancate le perplessità.
Da Borte Temujin ebbe tre altri figli e
alcune figlie. Altri figli gli furono dati da varie concubine e mogli, che
Temujin sposò per scopi squisitamente politici. Benché la prima moglie fosse in
genere considerata di rango superiore alle successive, in realtà non c’erano
grandi differenze tra le varie spose: ciascuna moglie possedeva una propria
tenda e una propria famiglia, oltre a un proprio patrimonio costituito da più
yurte e servitori.
Gengis
Khan e Borte dividono l'impero tra i figli (manoscritto del XVI secolo)
A questo punto della sua vita Temujin
intraprende un’iniziativa che è quasi una follia: unire la varie tribù
mongoliche in un unico organismo. Inizialmente è dalla sua parte Jamuka, l’amico
fraterno dell’adolescenza, ma i due erano in realtà molto diversi: Temujin era
più tradizionalista e riflessivo, Jamuka più rivoluzionario e anticonformista. Essi
rappresentavano, inoltre, le due componenti diverse delle tribù mongoliche:
Temujin le famiglie più ricche, dedite in prevalenza all’allevamento di cavalli
e buoi, Jamuka i pastori e gli allevatori di pecore e capre, ma anche quei
nobili che mal digerivano le pretese di Temujin di porsi a capo di tutti i clan.
L’idillio tra i due guerrieri non poteva durare a lungo.
In una data tra il 1187 e il 1196 (le
fonti che possediamo non sono concordi) il Consiglio dei saggi conferì a
Temujin il titolo di khan, ossia sovrano: a quell’epoca non esisteva ancora un
regno ben delineato, ma il nuovo khan cominciò a dargli una prima
organizzazione. Si dotò di una guardia del corpo reclutata fra i migliori arcieri;
nominò dei luogotenenti e distribuì ruoli amministrativi; creò alcune figure
istituzionali, quali il gran palafreniere (colui che si occupa dei cavalli del
signore), il maestro dei carri, il primo pastore, il coppiere; scompose l’esercito
in gerarchie.
L’esercito mongolo si caratterizzò da
subito per l’efficienza tattica e l’organizzazione militare: i guerrieri erano
abilissimi nello scoccare frecce restando in sella ai loro destrieri (raramente
ingaggiavano il corpo a corpo, se non per finire i nemici già feriti da
lontano), per questo erano equipaggiati con due o tre archi e altrettante
faretre piene di dardi. L’armamento prevedeva inoltre scuri per i soldati
semplici e affilatissime scimitarre per i più ricchi; gli scudi erano fatti di
vimini intrecciati, mentre gli elmi erano in ferro nella parte superiore e in
pelle in quella inferiore. Cavalli e cavalieri erano di norma protetti da
corazze, composte da placche di metallo e cuoio.
Cavalieri
mongolici così come sono stati ricostruiti per il film “Mongol” di Sergei Bodrov
(2007)
Se le scelte di Temujin gettavano le
fondamenta di uno Stato militare nomade centralizzato, non tutti erano
favorevoli al fatto che il capo fosse colui che era stato nominato khan: si
andava profilando uno scontro tra i vari clan per la conquista del potere, a
cui partecipò anche il gruppo sacerdotale, intenzionato a creare un potere
politico-religioso. Temujin dovette scontrarsi con numerosi clan e anche con
Jamuka, che non solo aspirava al potere, ma aveva anche manifestato da un po’
di tempo comportamenti che al khan non piacevano: al termine di un
combattimento, Jamuka aveva preso l’abitudine di far bollire vivi i prigionieri
più eminenti in grosse caldaie, per poi cibarsene con le sue truppe; oppure
annodava la testa mozzata dei comandanti avversari alla coda del proprio
cavallo e se ne andava in giro, suscitando l’ilarità della compagnia.
Nel 1204 Jamuqa, tradito da alcuni suoi
guerrieri, venne catturato dai soldati del khan: Temujin fece decapitare i
traditori e sembra che volesse risparmiare il suo “fratello di sangue”, ma egli
stesso chiese di venire ucciso.
Uno dopo l’altro i nobili si
inginocchiarono davanti a Temujin e gli giurarono fedeltà; nel 1206 gli venne
conferito il riconoscimento di Gengis Khan, che significa “sovrano oceanico”. Più
di 30 popolazioni erano ai suoi piedi, una marea di tribù che egli ripartì nei
tre rami dell’Orda azzurra, i tre raggruppamenti dell’esercito. Chiunque tentasse
da allora di destabilizzare il potere, venne brutalmente tolto di mezzo.
Temujin
proclamato Gengis Khan
Gengis Khan chiamò nei ruoli militari e
amministrativi più delicati i membri della propria famiglia e della più alta
aristocrazia; cospicui privilegi (per esempio l’esenzione dalle tasse o un posto
di rilievo a corte) toccarono a quanti, anche di bassa estrazione, meritarono
un titolo nobiliare.
Soprattutto Gengis Khan soppresse l’organizzazione
in tribù del suo popolo e fece mettere per iscritto disposizioni che
riguardavano la vita quotidiana, l’etica, il comportamento in ambito privato,
familiare e sociale, in tempo di guerra e di pace, nelle questioni sacre e
profane. Punizioni severe erano previste a carico di omicidi, ladri di bestiame,
violentatori di vergini e adulteri. Era vietato immergersi nell’acqua di
giorno, urinarvi, lavare i panni nei torrenti, introdurre una lama nel fuoco
per non “disturbarlo” e altre simili stranezze, come dispiegare gli indumenti
in pianura, poggiarsi su uno scudiscio o percuotere un cavallo con la briglia. E
non si potevano sgozzare gli animali, ma bisognava ucciderli senza spargimento
di sangue. Fra le regole militari, la sentinella sbadata era passibile di
morte, e vigeva l’obbligo di obbedienza totale agli ufficiali: fu questo uno
dei motivi che resero proverbiale l’efficienza bellica dei Mongoli, oltre che
il loro coraggio e una grandissima resistenza alla fatica.
Assedio
mongolico (miniatura persiana del XIV secolo)
Il codice voluto da Gengis Khan aveva come
scopo principale quello di cancellare l’anarchia, il frazionamento, le
divisioni esistenti tra i Mongoli; poiché, inoltre, garantiva una sostanziale
uguaglianza fra le persone, viene interpretato dagli storici come una specie di
miracolo.
Intanto le conquiste dell’Orda azzurra
continuavano e, tra gli altri, si rivolse anche verso i cinesi. I Mongoli non
avevano dimestichezza con città difese da mura poderose: le fortificazioni
cinesi erano numerose e sovente insormontabili, conquistabili solo con qualche
tranello, o dopo un lungo assedio. Così vennero presi grossi centri, nei quali
infuriava la peste, sprigionata da un’infinità di cadaveri in putrefazione, e
dalle carcasse di topi infetti catapultati dai Mongoli dentro le mura. Durante gli
assedi, i genieri dell’Orda azzurra deviavano i corsi d’acqua, provocando sete
o inondazioni, oppure “fuoco greco” e grasso incendiario veniva lanciato oltre
le mura cittadine.
Soldati
mongolici assaltano una fortezza (miniatura indiana del XVI secolo)
Pechino venne conquistata nell’estate del
1215: la grande città aveva allora 43 chilometri di mura, che racchiudevano
palazzi, giardini, manifatture di seta e di porcellane. A Gengis Khan queste
cose non interessavano e se ne tornò al nord, in luoghi più freschi, lasciando
che i suoi soldati sterminassero gli abitanti (accatastandoli poi sulle piazze
per poterli contare, come facevano con gli animali dopo la caccia) e
saccheggiassero la città.
Queste atrocità vanno intese secondo la
mentalità mongolica, lontanissima da quella che anche allora poteva essere la
mentalità da un popolo sedentario: per i Mongoli non si trattava di atrocità. Era
la stessa concezione che avevano nei confronti della terra e che li portò a
trasformare in pascolo o in deserto le regioni conquistate, togliendovi l’economia
agricola e impiantandovi quella nomade, la sola che conoscevano. Fu così che
luoghi fertilissimi, strappati alla sterilità dal lavoro dei contadini,
tornarono ad essere steppe.
Dopo Pechino l’esercito mongolo si riversò
a occidente, arrivando a Tbilisi (nell’attuale Georgia), alla Russia e poi all’Ucraina,
agli empori genovesi che sorgevano in Crimea, alle regioni che oggi fanno parte
dell’Afghanistan e dell’Iran. Ovunque avvennero degli orrori: a Merv (in
Turkmenistan) vennero alzate macabre piramidi con le teste recise di uomini,
donne e bambini. A stento si salvarono dagli eccidi gli artigiani (che però
furono fatti schiavi) e gli imam musulmani (che erano pur sempre dei
religiosi). Il furore mongolo si arrestò solo sulla soglia dell’India, troppo
estesa e troppo ignota.
Gengis
Khan e la sua scorta osservano come il principe afghano Jalal al-Din, in fuga
davanti ai Mongoli, si accinge a guadare l'Indo
Gengis Khan intanto era andato a riposare
fra le gole dell’Hindukush (fra Pakistan e Afghanistan): qui si intrattenne con
un monaco tao e con dottori dell’Islam e da questi contatti spirituali
scaturirono editti di tolleranza religiosa, che vennero aggiornati di continuo.
Gengis Khan era ormai stanco e vecchio:
aveva un’età che, a seconda della data di nascita vera, poteva essere di 57 o 72
anni. Nel 1224, durante una grande caccia, cadde da cavallo; poi un ennesimo
conflitto contro popolazioni cinesi gli succhiò altre energie; infine, un’altra
caduta da cavallo, con il destriero che gli andò addosso, gli procurò un’emorragia
interna, che gli lasciò appena il tempo di indicare in Ogodei il suo successore
e gli procurò la morte. Era il 1227.
Gengis
Khan in uno pseudo-ritratto cinese
Un corteo funebre partì alla volta della
Mongolia: la scorta ebbe l’ordine di non lasciare traccia di vita sul tragitto
del feretro, trasportato con immensi tesori e bellissime fanciulle in una
località rimasta segreta per sempre.
A Temujin – Gengis Khan sopravvissero la
fama di questo guerriero nomade che aveva conquistato un impero e quella che
viene chiamata pax mongolica,
maturata nell’accettazione delle altre civiltà. Sotto l’impero mongolico
vivevano culture disparate e religioni diverse; un’efficiente rete viaria stimolò
scambi internazionali e viaggi; un eccellente servizio postale collegava ogni
angolo dell’impero; ovunque si diffuse l’uso della carta-moneta, là dove prima
il bestiame era l’unica fonte di reddito. Cina e Persia, i due poli di civiltà
dell’impero, diedero all’Asia il suo Rinascimento, permettendo la nascita di
libri illustrati e miniature e la costruzione del palazzo reale di Pechino.
Statua
equestre a Gengis Khan a Tsonjin Boldog (Mongolia): inaugurata nel 2008, è la
più grande statua equestre al mondo
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