ALIMENTI E BEVANDE NEI PRIMI SECOLI DELL’ETÀ MODERNA
Nella seconda metà del XVIII
secolo le risorse alimentari fornite all’Europa dal Nuovo Mondo entrano
pienamente nelle abitudini del nostro continente. Il primo ad affermarsi è il
mais, che era chiamato in tanti modi diversi: «grano di Rodi» in Lorena, «grano
di Sicilia» in Toscana, «grano turco» in altre regioni italiane, «grano
occidentale» in Turchia. Il mais, però, è involontariamente il protagonista di una
grande tragedia, in una società profondamente disuguale come quella all’inizio
dell’Età Moderna. In certe regioni dove esso ha larga diffusione, diventa
comune che i proprietari fondiari trattengano per sé il frumento e lascino al
mezzadro il mais per la propria alimentazione. Il mais diventa quasi l’unico
consumo contadino, provocando la diffusione della pellagra, una malattia causata
dalla carenza di vitamina PP, di cui il mais è assai povero.
Pietro Longhi, La polenta (1740 circa)
Più lenta è l’affermazione della
patata, che resta a lungo umiliata dal disprezzo generale (in quanto “cresce
sottoterra”) e confinata nel ruolo di cibo per i poveri. Poiché costa poco, è
abitudine farla mangiare ai galeotti e ai soldati e ciò non favorisce la sua
diffusione; inoltre è accusata di provocare la lebbra e nell’Encyclopédie del 1765 di provocare
flatulenza. A sua discolpa va detto che veniva utilizzata nel modo peggiore,
facendone un tipo di pane, a quanto pare nauseabondo. Solo nel XIX secolo la
patata si diffonde, in particolare nel Nord Europa, dove viene coltivata perché
più resistente dei cereali alle gelate. L’apprezzamento di questo tubero
incomincia per opera di Antoine Augustin Parmentier, un agronomo francese che
conosce la patata quando viene fatto prigioniero dai Prussiani durante la
guerra dei Sette anni. Al suo ritorno in Francia ne propone l’utilizzo a Luigi
XVI e ne favorisce la diffusione popolare con uno stratagemma: fa sorvegliare i
campi, in cui ha cominciato a coltivare il prodotto, in maniera molto evidente,
spargendo la voce che si tratta di una coltivazione speciale e preziosa
destinata al re; di notte, però, i campi sono completamente privi di sorveglianza,
cosicché i contadini vanno a rubare ciò che vi cresceva e in questo modo
cominciano a nutrirsi volentieri di patate.
Antoine Parmentier offre a Luigi XVI un mazzo di fiori di patate
Anche il pomodoro si diffonde con
una certa lentezza: nei primi 150 anni dalla scoperta dell’America resta
confinato alla Spagna, in particolare alla zona di Siviglia, dove è cibo per i
poveri. La diffidenza nei confronti del pomodoro nasce da tanti pregiudizi (si
credeva, ad esempio, che fosse usato dalle streghe), ma anche da alcuni fatti
concreti: il suo aspro odore, il fatto che da solo non è un alimento in grado
di vincere la fame, il fatto che non si può trasformare in qualcosa che
assomigli al pane. In realtà pesa a lungo sul pomodoro l’incapacità degli
Europei di riconoscerne l’utilità, tant’è che a lungo viene coltivato come
pianta ornamentale per abbellire i giardini o per farne dono alle dame. Finché
nella seconda metà del Seicento un cuoco italiano, Antonio Latini, ne parla in
alcuni suoi libri, come di un alimento con cui preparare un’ottima salsa: nel
Settecento il pomodoro conosce il successo che ancora oggi conserva (è una
delle specie orticole più coltivate al mondo).
Due illustrazioni della pianta e del frutto del pomodoro in un erbario
settecentesco
Prendono piede anche, benché la
loro circolazione sia ancora limitata ai soli ceti privilegiati, il cioccolato
e il caffè, quest’ultimo proveniente dal vecchio mondo islamico, non dal Nuovo.
Il cioccolato è il prodotto che si afferma con maggior fatica: ancora verso la
metà del XVII secolo è considerato un corroborante a fini medici, non solo un
alimento.
Jean-Baptiste Charpentier, La famiglia del duca di Penthièvre; in
questo dipinto del 1768 la nobile famiglia sta degustando delle bevande,
probabilmente della cioccolata
La pianta del caffè è forse
originaria della Persia, più probabilmente dell’Etiopia. Non c’è traccia di
caffè prima del 1450, poi la bevanda si diffonde nell’impero ottomano; è
infatti nei Paesi islamici che gli Europei fanno la conoscenza del caffè. Nel
1615 arriva a Venezia, nel 1643-44
a Parigi e a Marsiglia. Proprio a Parigi si decide la
sorte della bevanda. Qui verso il 1670 si aprono le prime botteghe che vendono
caffè ed è un italiano, Procopio de’ Coltelli, che nel quartiere Saint-Germain
apre un locale, il “Procope” – tuttora esistente – di notevole successo. È un
locale elegante, di gusto moderno, dove si vendono, oltre al caffè, anche
canditi e liquori; la bottega diventa luogo di incontro per conversatori
mondani, letterati, oziosi. La moda si diffonde, affermando insieme al consumo
del caffè anche una nuova forma di relazioni e di socialità.
Clienti al Café Procope nel 1743
Il consumo di caffè aumenta nel
secolo XVIII, anche se siamo ancora lontani dalla popolarizzazione. Il suo
successo fa crescere l’offerta: l’Europa organizza la produzione in proprio,
sfruttando le sue colonie, e diversifica la qualità (determinata dal luogo di
coltivazione) e di conseguenza i prezzi; in generale, comunque, il prezzo del
caffè resta relativamente stabile e moderato rispetto a quello di altri
prodotti.
Un’altra bevanda che si diffonde
è il tè, soprattutto in Inghilterra e in Olanda; poiché comporta l’ingerimento
di acqua bollita, il tè contribuisce a ridurre il rischio di contrarre malattie
infettive, anzi, secondo alcuni storici la diffusione del consumo di questa
bevanda è una delle concause fondamentali della diminuzione della mortalità nel
Settecento.
Michel-Barthélémy Ollivier, Il tè all'inglese (1764)
Non ha lo stesso effetto il
consumo di alcuni prodotti indigeni europei come i liquori superalcolici. Prima
del XVI secolo le uniche bevande alcoliche diffuse erano quelle ottenute per
fermentazione: birra, vino e sidro. Per ottenere dei liquori, al naturale
processo di fermentazione si deve aggiungere un’ulteriore operazione chimica:
la distillazione. Questo processo, reso possibile da un particolare strumento,
l’alambicco, era stato sviluppato dagli Arabi verso il 1.100 e sviluppato poi
verso la metà del XII secolo, sembra nella Scuola di medicina di Salerno, dove
erano utilizzati dei contenitori in vetro provenienti da Venezia e Murano. Non
è secondario il riferimento al vetro veneziano, perché è proprio la qualità di
questo materiale che ha permesso la costruzione di alambicchi più adatti alla
distillazione; la quale era inizialmente limitata a usi farmaceutici. Si
riteneva, infatti, che l’alcol avesse proprietà medicinali; addirittura si
credeva che del brandy versato nella bocca di un moribondo gli consentisse di
pronunciare le sue ultime parole. Con la Peste Nera del 1348 sale alle stelle
la richiesta di bevande ad alto tenore alcolico, per combattere la paura
dell’epidemia. Ma è solo nel corso del XVI secolo che l’acquavite (prodotto
della distillazione del vino e delle vinacce) sfugge di mano a medici e
farmacisti e solo nel secolo successivo diventa di uso comune.
La distillazione, incisione del XVI secolo di Philippe Galle
La fabbricazione resta difficile,
artigianale, e l’alambicco non conosce miglioramenti. Tuttavia aumentano la
produzione e il consumo. Tra i principali promotori ci sono gli Olandesi, che
con la produzione di acquavite risolvono parecchi problemi legati al loro
mestiere di mercanti. Il vino, infatti, è una merce fragile, si conserva male,
mentre l’acquavite è più resistente, a volume uguale richiede meno spese di
trasporto, è più preziosa e infine è un ottimo additivo che ridà corpo anche al
vino più debole. Nel «secolo di ferro» (come è stato definito il Seicento)
comincia l’uso di dare alcol ai soldati prima del combattimento; in un certo
senso l’acquavite diventa un’industria bellica.
Non circola solo acquavite: dalla
canna da zucchero si ricava rhum, dai cereali gin, whisky e vodka (questa anche
dalle patate). Gli alcolici da cereali hanno un vantaggio: il prezzo è
relativamente modesto e addirittura in diminuzione. In Inghilterra il gin costa
meno della birra e i proprietari terrieri vedono nella produzione di tale
liquore la possibilità di realizzare lauti guadagni, purché ne sia favorito il
consumo. Il Parlamento inglese non fa nulla per contrastare gli interessi dei
proprietari terrieri, che poi sono gli stessi parlamentari, e le conseguenze
del forte consumo di gin sono non solo un’enorme diffusione dell’alcolismo, ma
anche un aumento dei crimini e della violenza, l’abbandono a se stessi dei
bambini, la rovina della salute, soprattutto di quella dei più poveri. Solo nel
1751 il Parlamento promulga una legge che contribuisce a ridurre drasticamente
il consumo degli alcolici.
William Hogarth, Gin Lane (1751); l'illustrazione mette in evidenza il disordine pubblico conseguente all'alcolismo
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